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L’arcivernice: e c’è qualcosa in quel nulla (trentacinquesima puntata)

Pubblicato il: 20/09/2012 17:08:57 -


“E, come per le opere Work in Progress, anche il pensiero dovrebbe poter scorrere, spinto da libertà, riempire i vuoti. Senza pareti nivee, erte e rassicuranti, di canoni e risposte chiuse. Soltanto in questo modo, di una vita puoi dire che è stata proprio una vita”.
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Ormai è quasi autunno; il vento forte fa tremare i vetri con un suono di scalpiccii veloci, di fruscii e sospiri. Una come me può trarre qualsiasi conclusione da certi rumori: la donna della guardiola, ad esempio. Secondo me potrebbe ciabattare di soppiatto, avanti e indietro sul pianerottolo strusciando le pattine di panno sul pavimento, e origliando alle porte. Con il suo orecchio enorme. Secondo me sarebbe anche disposta a fare “il lavoro sporco”, tipo fare la spia per il nemico. Forse ha la paranoia di chi si sente chiamato a purificare il mondo… e in questi tempi le tossine sono velenose.

Certo, Ramon ha un’esistenza che si muove senza perno, disordinata; a volte, mentre è intento a seguire i ghirigori della sua fantasia, sembra perfino in stato di possessione. Uno come Ramon può destare sospetto, ecco perché hanno accusato lui, per il grande graffito tracciato sul portone d’ingresso. Invece la mia vita sembra lineare, io filtro tutto con infinita cura, senza concedere nulla di più. Realtà meditata, ridotta all’essenziale, al valore. Così scavalco ogni pregiudiziale filosofica. Ramon ha l’abitudine di vivere con una grande intensità emotiva, restando concentrato, quasi involuto. Ma si sa, lui è venuto dal Paese dell’amore per il rituale, l’esaltazione di emozioni che quasi ti estraniano dal mondo. Così la sua tendenza a considerare unica norma e legge il proprio istinto.

Intelletto ed emozione. Normalmente si pongono come contrari; bisognerà trovare una sintesi, o mantenerli debitamente separati? E oggi è ancora l’artista che deve rompere la relazione dialettica, porre il problema in termini diversi, fondere intelletto ed emozione in uno stesso ritmo?

Passo davanti al biasimato graffito sul portone. Lo scarabocchio immondo, lo sfregio, come sdegnati lo definiscono gli altri inquilini. Quanto meno sentito come irriverente, certo verso di loro. Poi attraverso soprappensiero il lungo corridoio, straniero in patria ogni volta, solennemente in punta di piedi, in quel mio insopportabile rito compulsivo.

Dentro, si nota subito qualcosa: Ramon si è portato via uno zaino di libri, per il suo esame. Gli spazi vuoti, nella libreria mezza rotta, in quella disinvolta confusione, sembrano vuoti il doppio. Già, anche Bologna è una città piena di vuoti da riempire. È ancora indecisa se diventare metropoli, o rimanere una città di provincia. Tutto così rimane chiuso nei suoi muri, dove i muri però non sono spazi, ci sono solo per chiudere. Senza poter volare, senza poter scavalcare l’orizzonte, come nei claustrofobici test-a-risposta-chiusa: è così che poi i cervelli fuggono altrove, e certo non per spirito migrante.

Forse i Writer, i graffitisti, sono sfrontati nell’assalire i vuoti, i muri, con quel loro gesto clandestino, semplice e secco, con l’energia. Forse sono aggressivi quando, anche cromaticamente, loro vanno oltre l’infinito. Gli spazi sono inerti, fermi da tanti secoli, e i Writer stabiliscono dei percorsi giocosi o di angoscia, percorsi aperti, e te li impongono, perché la mente impari ad orientarsi in modo indipendente. Una realtà imprevedibile. Perciò, per tanti, spaventosa.

È magia? No, non è un attimo poi tutto torna come prima, un’esplosione, un volo fuori dal cappello a cilindro poi inghiottito di nuovo: da adesso quei graffiti staranno là per sempre. E c’è qualcosa in quel nulla.

Se poi nessuno avrà, con pennellate censorie, coperto tutto.

Sì, perché là in quei graffiti c’è un discorso diaristico, ma c’è anche la denuncia di malefatte degli altri…

Mi trovo con le mani sull’Arcivernice quasi senza propormelo.

Il gesto, nella suggestione, è altrettanto clandestino e rabbioso, ma anche qui è nel contempo tenero, delicato, una carezza su quello sguardo sincero. Anche loro, sono appunto arroganti e sfrontati nell’innovazione frenetica. Eppure delicati, solitari e indifesi, se immaginati in quei momenti notturni.

Spennello anch’io così, con quello stesso furore, su una delle tante foto di Basquiat. E la sua forma si delinea lentamente nell’aria fino a che i lineamenti si completano.

“Maestro…”, inizio allora titubante, poiché non so se gradirà l’appellativo borghese, da vecchio provinciale. Ma lui sembra soltanto attento a stabilire “quel dialogo eloquente di solito impedito dalla solitudine in cui vive gettato l’uomo urbano” [1]. Così continuo, timida e indecisa: “…un destino tracciato, un delitto compiuto con bombolette spray?”

“Certo”, lui mi risponde subito, “uno shock estetico e psicologico! Qui nulla è ovvio e confortante, perché da entrambe le parti non assolve”.

E poi nessun sistema di stabilità: quelle libere aggiunte, l’intercambiabilità, la sovrapposizione evidente di stili diversi, a volte semplicità scheletrica, a volte ridondanza. Un universo gioioso e conflittuale. Certo uno spirito insolente. E quelle generose sovrapposizioni di mani, gli accostamenti – ma dove non si danno gerarchie – anche di intere generazioni attraversate da forze diverse.

“In questi spazi urbani, c’è ancora adesso il rifiuto della prontezza ad accogliere quelle spinte spontanee, espressive e generose. C’è il monopolio, il privato, i filtri dei canali di informazione, la rigida chiusura entro recinti più rassicuranti”. Azzardo poi.

“Tranne per chi possiede, o permette, l’espressione di processi mentali liberi, raffinati, Giulia. Pensa, già il vostro Bruno Maderna: nel consegnare all’editore la sua partitura, la strutturò in singoli fascicoli non rilegati, che non avessero un ordine vincolante per l’esecuzione!”

Già, e penso ogni volta anche a John Cage, con i suoi inserimenti materiali, le interazioni, i tocchi, gli spostamenti coraggiosi, per far esistere sonorità libere e nuove, come lo sono questi dialoghi notturni, queste tracce scoppiate sui muri. E prima ancora Desargues, nel suo libro “Le brouillon”, il “brogliaccio”, lui adottò il “mal parlare in matematica”. Una stramberia, che infatti rimarrà sempre un po’ incompresa, il suo vocabolario nuovo per aprire la scatola buia in cui siamo prigionieri. E così niente più punti, rette, segmenti, in quella scatola chiusa, ma alberi, ceppi, nodi, al loro posto, e ramoscelli… E così gli orizzonti si spalancano.

“E come per le opere Work in Progress”, lui, Basquiat, mi conforta nei miei timorosi ragionamenti, “anche il pensiero dovrebbe poter scorrere, spinto da libertà, riempire i vuoti. Senza pareti nivee, erte e rassicuranti, di canoni, e risposte chiuse. Soltanto in questo modo, di una vita puoi dire che è stata proprio una vita”.

Forse questo c’è stato, in una vita così breve.

Riempire i vuoti.

Solo un istante, poi tutto torna come prima. Esco, e sul portone “il reato” è stato già cancellato. Già, l’estate è finita.

[1] A. Bonito Oliva, “L’ombra perenne dell’arte nella vita breve di Basquiat”, Ginevra-Milano 2005.
* Foto di Giulia Jaculli, “Graffito nel cortile di filosofia”.

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Giulia Jaculli

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