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Copiare: una pratica di consumo amorale

Pubblicato il: 29/07/2013 11:01:58 -


“Copiare è una forma di alienazione che la società del consumo globale, facilona e spensierata, alimenta per mantenere le persone nelle condizioni mentali di bambini-consumatori”.
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L’imbroglio, l’abitudine antica, appartiene al nostro retaggio storico. Giacomo Leopardi, nel “Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani”, costatava la debolezza della società civile del nostro Paese nel primo ’800, le furberie, gli imbrogli, il cinismo delle classi dirigenti e del popolino.

Oggi copiare è solo un segno di arretratezza culturale e civile?
In realtà il nuovo non soppianta l’antico, vi si aggiunge, l’informatica più aggiornata va a braccetto con i vecchi trucchi con il risultato di arricchire e potenziare l’armamentario della frode.

D’altro canto ha acquistato le dimensioni e il significato che ha oggi con l’avvento della scolarità di massa e con la democratizzazione che accomuna tutte le società economicamente sviluppate. In qualsiasi paese gli imbrogli scolastici sono socially embedded, un fenomeno culturale condizionato dal sistema economico. L’economia non è un mondo separato.

Con l’affermarsi delle pratiche della società burocratica e del consumo di massa, si è sviluppata ed è diventata egemone una concezione della società imperniata sull’individualismo e sul modello del libero mercato, che promuove il ruolo di consumatore/cliente a scapito di quello di cittadino. È una tendenza culturale presente in tutti i paesi industrializzati che in Italia si coniuga con una storica scarsezza di senso civico.
Questo Zeitgest informa la vita quotidiana nelle aule e i rapporti tra insegnanti e genitori. I genitori legittimano le loro pretese invocando la pedagogia della comprensione, ma più ancora s’immedesimano nel ruolo di consumatori/clienti della scuola/azienda e in tal veste cercano di tutelare i loro figli nei confronti degli insegnanti, a prescindere. Agli insegnanti non resta altra scelta che adottare delle strategie difensive.

E siccome la formazione del cittadino non è al centro delle attese dei genitori, preferiscono andare al sodo, ottenere un minimo di sapere e tenere d’occhio la manutenzione dei buoni rapporti con i babbi e con le mamme. A mediare tra i “contraenti” provvede il preside, il “dirigente”, sempre più attento a tutelare la sua scuola, la sua reputazione, la sua efficienza e la sua capacità di competere nella platea dell’offerta formativa.

Generalmente si addebita la crisi dell’insegnante e della scuola al famigerato ’68, che distrusse il principio d’autorità. Tutta colpa del ’68. Un dogma di pronto impiego che demonizza l’unico moto di rinnovamento dei costumi negli ultimi decenni nel nostro paese. È difficile immaginare che un movimento di contestazione giovanile riesca a produrre una tale ondata culturale di destabilizzazione sociale che dura da cinquant’anni. Ed è difficile rimpiangere il tradizionalismo e l’autoritarismo che incrostavano le istituzioni pubbliche (università, polizia, burocrazia) e private (famiglia, mondo femminile) prima del ’68.

Il bandolo della matassa sta altrove. Gli sviluppi dell’economia mondiale dagli anni ’80 del secolo scorso: l’affermarsi del modello neo-liberista, la globalizzazione, la pratica della deregulation (“un meccanismo perverso che tende a sottrarre ai cittadini il diritto di autodeterminarsi” Z. Bauman, “Danni collaterali”, Laterza, 2012), il ridimensionamento del welfare sono stati legittimati con ideologie e miti liberisti, e hanno generato un mutamento culturale.

Oramai è common source che nei paesi sviluppati la cultura è orientata all’individualismo, che il modello di mercato deborda dall’economia, che i parametri del capitalismo finanziario sono sovrani, che la cittadinanza è svuotata dal consumo, che c’è tensione tra mercato e democrazia, tra economia ed etica. Basta un (cog)nome per rappresentare la fattispecie nostrana della deriva etica globalizzata e il folklore globalizzato che la circonda.
Non dovrebbe essere difficile comprendere che la decostruzione dell’autorità morale della scuola e degli insegnanti comincia da questa temperie.
E partendo da qua gli insegnanti possono far entrare nella scuola un soffio di pensiero critico. Riflettano sul significato del rispetto delle regole, sui concetti di norma, di sanzione e di responsabilità. Dimostrino agli studenti che copiare è una forma di alienazione che la società del consumo globale, facilona e spensierata, alimenta per mantenere le persone nelle condizioni mentali di bambini-consumatori. Ci penserà la crisi economica a mostrare la fallacia dell’infantilizzazione delle masse, ma c’è il rischio che alla delusione segua il cinismo. Meglio discuterne, magari prendendo spunto dalla lettura in classe di queste righe:

“La nostra cultura premia il facile e penalizza il difficile. Promette profitti a vita a chi sceglie la via più breve e la soluzione più semplice sempre e comunque. La dieta senza esercizio fisico, il matrimonio senza impegno, la musica o la pittura a schema numerato senza esercizio né disciplina, il successo atletico con gli steroidi o l’esibizionismo…(…). Anche gli studenti trovano del tutto semplice e del tutto difendibile imbrogliare nei test e copiare agli esami… il problema non è tanto che sia diventato una pratica diffusa o che molti siti web offrano la vendita di elaborati d’esame, quanto che molti studenti non riescano a capire cosa ci sia di sbagliato.”
(B.R. Barber, “Consumàti. Da cittadini a clienti”, Torino, Einaudi, 2008, pp.127-129).

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Immagine in testata di sercartr / deviantart (licenza free to share)

Marcello Dei

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