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Ricompare la scuola dei mestieri

Pubblicato il: 23/06/2021 06:41:27 -


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C’è un tema ricorrente nelle dichiarazioni del presidente Draghi: il rilancio dell’istruzione tecnica e professionale, soprattutto per allineare il nostro sistema alle indicazioni e ai livelli dell’Europa. Il ministro dell’istruzione Patrizio Bianchi ne ha parlato in occasione dell’esposizione del suo programma politico, motivando l’intervento, che sarà sostenuto dai finanziamenti del PNRR, per rispondere in termini di profili professionali e competenze dei giovani alle esigenze del mercato del lavoro, ma anche perché la società della conoscenza tende a identificarsi sempre più con un nuovo umanesimo tecnologico; è il lavoro che ha bisogno di innovare gli aspetti tecnici, ma anche  di arricchire la componente formativa, con curricoli a orientamento scientifico e operativo e una formazione terziaria con prestazioni di alta qualificazione, capace di offrire una solida base per l’inserimento nelle aziende e di intercettare il rapido cambiamento sul piano produttivo e organizzativo.

La confusione delle competenze tra Stato e Regioni sulla formazione

Questo dibattito è aperto da tempo, sia per quanto riguarda il rapporto tra domanda e offerta di formazione, sia per l’applicazione nel nostro Paese di strumenti didattici e amministrativi elaborati in sede Comunitaria, sia per la revisione della governance di questa parte del sistema che, per i rapporti che deve intrattenere con il territorio ed il mondo del lavoro, ha bisogno di un più elevato grado di autonomia nell’utilizzo delle risorse finanziarie e di personale. Una maggiore capacità di autogoverno degli istituti non serve soltanto a offrire un servizio personalizzato, che dovrebbe essere nella disponibilità di tutte le scuole, a gestire la  collaborazione che gli stessi devono intrattenere con i soggetti esterni, che non può prevedere una gestione uniforme e soprattutto un governo dipendente da un’amministrazione centralizzata.

La constatazione che gli istituti tecnici e professionali avevano una struttura piuttosto rigida e scarsamente relazionabile con le esigenze del mercato del lavoro (domanda e offerta molto disallineate), e che la componente regionale aveva bisogno di riqualificazione, nel 1995 il governo Ciampi, con un patto per il lavoro, cercò di avvicinare i due segmenti, statale e regionale, per ottenere maggiore qualità e costruire una grande area strettamente relazionata al mondo aziendale, tanto che alcune regioni proposero percorsi integrati tra istruzione e formazione professionale.

Gli anni dell’innalzamento dell’obbligo scolastico furono l’occasione per riallineare i due sistemi, con un obbligo formativo e un diploma professionale al quale poteva essere agganciata la formazione terziaria, come avvenne in seguito per gli istituti tecnici superiori. I due canali avrebbero potuto avere  anche un unico governo, quello regionale, come si poteva intendere da politiche di decentramento delle competenze statali, mentre le pressioni incrociate delle rappresentanze del personale scolastico e delle grandi imprese mantennero distinte le appartenenze istituzionali, creando così una confusa azione di orientamento circa le scelte per questo comparto da parte di alunni e genitori. La riforma del titolo quinto della Costituzione provò a riorganizzare tutto il settore con il nuovo indirizzo di ‘istruzione e formazione professionale’, ma ancora una volta si restò solo all’interno di quello regionale. Risultato è stato che nelle regioni in cui la realtà produttiva è forte, la componente formativa è risultata qualificata e adatta ad assecondare il cambiamento in atto nelle aziende, favorendo la prima scelta da parte dell’utenza, mentre dove tale realtà produttiva à devbole, le regioni faticano ad attrezzare il loro sistema formativo e gli istituti professionali di stato fanno supplenza con percorsi a qualifica triennale. Questa situazione, nata come sperimentale, probabilmente 

 durerà a lungo e servirà soltanto ad assicurare i passaggi dalle scuole ai centri di formazione, richiesti perlopiù in presenza di fallimenti o per soggetti a rischio di dispersione.

È dunque un nodo tutto politico che sarebbe ora di sciogliere a beneficio di un vero rilancio del settore tecnico-professionale, sia per consentire un più chiaro rapporto tra domanda e offerta di formazione, sia per favorire una legislazione nazionale con indirizzi per l’intero comparto e una gestione regionale che consenta un più efficace raccordo con le imprese del territorio. Nel dibattito aperto sull’applicazione dell’art. 116 della Costituzione tutte le Regioni in causa hanno chiesto più autonomia proprio su questa questione. È ovvio tuttavia che una maggiore organicità tra il curriculum scolastico e le richieste del mercato del lavoro non si realizza per decreto, e soprattutto con la pretesa di gestire i percorsi didattici in modo uniforme a livello nazionale, ma ciò può avvenire solo sui territori, sia per le tipologie dei profili necessari, sia per le modalità di relazione con gli stakeholder. Il governo locale e la flessibilità dell’offerta stessa saranno la condizione favorevole per la gestione del cambiamento, anche in relazione al recepimento di nuove professionalità, alla rapidità della riconversione e della compensazione tra le aree del Paese, in presenza di norme generali, come indicato dall’art. 117 della Costituzione.

Il PNRR e il rischio di un’occasione che si può perdere

Con il PNRR, com’è stato presentato dal governo, siamo di fronte ad un’altra occasione che si potrebbe definire propizia per una revisione generale del comparto, sia dal punto di vista dei curricoli che della governance, anche se non c’è da farsi illusioni perché già in passato si era andati più volte vicini alla riforma, ma poi si era lasciato che le due gambe continuassero a camminare separatamente, cercando talvolta accordi attraverso la Conferenza Stato-Regioni; Il PNRR che si appresta a finanziare un tale intervento chiederà conto di risultati in termini di successo formativo e occupazionale, nonché di semplificazione, di cui c’è bisogno per mettere in campo una struttura leggera e flessibile che stia in costante rapporto con le imprese. Da una parte il recente decreto ‘sostegni bis’ sembra andare in questa direzione, ma dall’altra nello stesso provvedimento si parla di «un piano nazionale per le scuole dei mestieri» (art. 48), facendo comparire come sponsor il ministero del Lavoro. Anche per questa nuova creatura si parla di maggiore integrazione tra le politiche attive del lavoro, di transizione occupazionale e di formazione dei lavoratori nell’ambito di settori particolarmente specializzati, con fondi a hoc ed un’azione concordata con le regioni. 

Di che cosa si tratta veramente ? È soltanto un diversivo per mantenere in capo a un ministero che non ha competenze di formazione, un finanziamento con il quale potrà continuare a  interferire nell’attività delle regioni: un piano nazionale, per poter gestire attività formative in modo di fatto centralistico anche se deliberate in sede periferica. Tutte le suddette caratteristiche di questo piano appartengono a competenze regionali e non si capisce perché «settori particolarmente specializzati» dovrebbero ricadere sotto l’iniziativa ministeriale. Se invece l’espressione ‘scuole di mestieri’ non è solo una copertura amministrativa allora c’è da capire in quale direzione intende andare la predetta programmazione nazionale, che ovviamente non sarà lasciata alle regioni, così come è stato per  l’avvio del doppio canale ‘all’italiana’ nei centri di formazione professionale, che non è stato in grado poi di arrivare in porto con una vera riforma di struttura. 

Si vorrebbe che il PNRR riuscisse a fare la sintesi di tanti rivoli nei quali si disperdono molte risorse e i cui risultati sono ancora da verificare: magari l’Europa riuscirà a realizzare un monitoraggio di quanto avviene nella formazione professionale, soprattutto dopo la riforma del titolo quinto della Costituzione di cui i ministeri sembrano non tenere conto. Se poi la parola mestieri è davvero legata ai profili o ai contenuti dei percorsi, alla ricerca di quelle competenze per le quali non si trovano più lavoratori, ormai nemmeno immigrati, allora sarà difficile che i giovani dimostrino interesse per una scuola che non considera il lavoro un valore prima di tutto per la persona e il mestiere qualcosa che possa realizzare il proprio progetto di vita. Anche coloro che abbandonano gli studi non accettano facilmente un’occupazione che la società considera di seconda scelta e che il mondo del lavoro non è disposto ad accogliere, in quanto questi ragazzi non hanno una preparazione prontamente spendibile o facilmente riconvertibile. I NEET (Not in Education Employement or Training), di cui il nostro Paese detiene un record europeo, dimostrano che non funzionano scuole di mestieri nate come i funghi dalle maglie di un finanziamento statale assunto spesso per convenienza da qualche Regione. Qui si tratta di agire su diversi fronti: dall’orientamento, a una didattica attiva, a uno stretto rapporto tra le realtà formative il territorio e il mondo del lavoro, nei diversi gradi e ordini di scuole, a partire dal primo ciclo di istruzione. Un’area di Istruzione e Formazione Tecnico-Professionale, come dice la suddetta riforma costituzionale, in alternativa alla formazione liceale (doppio canale tedesco), dovrebbe essere più visibile e facilmente compresa dai giovani, famiglie, amministrazioni territoriali, aziende: oggi il campo è veramente troppo affollato e spesso le offerte non aiutano chi deve compiere scelte o indirizzare i percorsi. 

Chi governerà questa nuova grande area ? Il PNRR potrebbe essere il luogo giusto per definire la filiera e le modalità di organizzazione, a livello nazionale e sui territori.  

 

    

Gian Carlo Sacchi  Esperto di politica scolastica. Ha fatto parte del Consiglio di amministrazione dell’INDIRE e ha fatto parte del comitato Scientifico della Regione Emilia Romagna per le esperienze di integrazione tra istruzione e formazione professionale.

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