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La scuola alla prova

Pubblicato il: 18/03/2020 07:50:57 -


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La pandemia ci ha colto di sorpresa, forse perché siamo restii ad apprendere. Qualcuno aveva previsto che i virus saranno inevitabilmente la risposta della natura alla riduzione del mondo a un villaggio: e in questo secolo, di pandemie ce ne sono già state tante.

Fatto sta che stiamo cambiando in corsa le nostre abitudini e le pratiche sociali. Fra queste il trasferimento massiccio di relazioni, comunicazioni, lavoro, scuola dal rapporto diretto fra persone e fra persone e cose al rapporto mediato dalle tecnologie. L’unico aspetto per cui eravamo relativamente preparati è quello delle relazioni sociali: gli esecrati social network di cui quasi tutti, secondo i loro gusti, hanno imparato a servirsi, sono ora una delle risorse che aiutano a vivere. Lo stesso vale per i mezzi diffusione  di massa, dalla TV a Wikipedia fino a YouTube. Ma già il telelavoro, nonostante che se ne parli da tempo, è più difficile da praticare, salvo che in alcuni settori della ricerca e nelle imprese avanzate. C’è poi la parte del lavoro irriducibile al rapporto mediato, perché legato alla produzione materiale, nell’agricoltura e nelle fabbriche.

La scuola, visto che il suo prodotto, l’apprendimento, è soprattutto mentale, potrebbe adattarsi rapidamente a questa trasformazione. Ma ci sono due aspetti che la rendono difficile. Il primo è che le situazioni di apprendimento hanno anche bisogno di un rapporto diretto dei  bambini e i ragazzi fra di loro e con i docenti. Il secondo è che esiste, anche se spesso marginale, un apprendimento laboratoriale legato a strutture materiali. Ma c’è una difficoltà strutturale. L’utilizzo proficuo della mediazione tecnologica richiede flessibilità organizzativa e, da questo punto di vista, la scuola è più vicina alla fabbrica che a una istituzione di ricerca, basata, com’è, su due punti fissi: l’unità-classe e l’orario.

Tuttavia le scuole, in una misura che sorprende solo coloro che ne parlano senza conoscerle, si sono lanciate in questa vera impresa del trasferimento nella mediazione tecnologica. Come testimoniano le esperienze, i docenti l’hanno fatto anche con grande impegno e spirito positivo. Incidentalmente, sarebbe utile una raccolta rapida di racconti e magari un altrettanto rapida indagine per capire quello che succede e trarne indicazioni e consigli. Il MIUR e qualche agenzia (INDIRE o altri) danno indicazioni e strumenti, ma forse mancano gli strumenti e i recettori per produrre una immagine concreta della situazione.

Inevitabilmente le scuole hanno organizzato la formazione a distanza basandosi sul modello-classe con una varietà di soluzioni che vanno dal semplice uso del registro elettronico, che offre veramente poche possibilità, alle piattaforme  di condivisione. In queste sono possibili interazioni docente-allievi, come nelle conferenze online, magari più ordinate di quelle in classe, ma meno immediate. Niente impedisce la creazione di gruppi di lavoro cooperativi fra studenti, ma la loro gestione complessiva non è banale. Per le lezioni, a parte il rimando ai libri di testo, c’è il dilemma fra lezioni fatte in casa e lezioni di repertorio (l’INDIRE, per esempio offre un archivio), magari di migliore qualità, ma generalmente fuori linea o addirittura incoerenti rispetto ai percorsi dei singoli docenti. Le attività laboratoriali sono un capitolo a parte. Per la progettazione in tutte le aree tecnologiche esistono strumenti informatici professionali, ma non è detto che gli studenti li abbiano disponibili nei loro computer. Per le scienze servirebbero film e programmi di simulazione. Cercando in rete si possono trovare molte risorse, per esempio nei siti dei musei, ma occorre ovviamente dedicare tempo alla ricerca. E’ ovvio che la praticabilità di tutto questo dipende dal fatto che certi strumenti e certe pratiche siano già stati sperimentati in passato. Non bisogna poi trascurare il fatto che una parte dei ragazzi e dei bambini, cioè delle loro famiglie, ha serie difficoltà, economiche, tecniche e culturali, ad agganciarsi a queste pratiche.

Tutto questo induce a qualche riflessione. Da sempre si è praticato l’uso di mediatori tecnologici per consentire alle persone di recuperare abilità perdute o mai avute, fino ai casi limite di paraplegici messi in condizione di comunicare e anche di scrivere, sia pure con molta fatica. Fu molto commentato, molti anni fa, il caso di un bambino che, totalmente privo di difese immunitarie, doveva vivere in una barca e solo per mezzo della formazione a distanza poteva avere una qualche forma di educazione. Oppure, meno drammaticamente, fu sviluppato un progetto “piccole isole” per la formazione a distanza di bambini abitanti di isole come le Eolie. Nessuno ha mai contestato questi usi delle tecnologie, ma nella mente di molti si è creata l’idea che le tecnologie o sono degli utili surrogati oppure sono vezzi superflui, probabilmente dannosi. Una delle conseguenze dell’esperienza che le scuole stanno facendo  potrebbe essere quella di modificare questa visione delle cose, se si riuscirà ad avere risultati sensibili, perché, quando torneremo alla normalità, avremo comunque imparato che esistono altre possibilità che possono essere integrate nella pratica del fare scuola. Qualcosa del provvisorio potrà forse rimanere nel permanente. 

Un insegnamento di questa dura esperienza potrebbe essere, speriamo, che tutti i sistemi sociali resistono tanto meglio alle sollecitazioni catastrofiche quanto più sono flessibili e dotati di intelligenza organizzativa. E che la scuola, da questo punto di vista, è svantaggiata proprio perché è basata su una gamma limitata di pratiche e per di più irrigidite un una gabbia organizzativa rigida. Sia chiaro che la capacità di risposta non riguarda solo le catastrofi, come le pandemie, ma più in generale anche tutte le sollecitazioni sociali.

C’è infine da riconsiderare il rapporto media/cultura. Tutto il dibattito “internet rende stupidi” o “internet rende intelligenti” dovrebbe scomparire di colpo. Ma questo è un altro capitolo.

 

Mario Fierli

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