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L’educazione in metafore (seconda parte)

Pubblicato il: 14/09/2011 19:04:13 -


Riflettere sulle metafore che utilizziamo per caratterizzare la comunicazione ci aiuta a capire meglio, o a porci le domande adeguate, le trasformazioni che le nuove tecnologie sollecitano nella formazione e nei processi di insegnamento e apprendimento.
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(segue)

Ma… Provo ad affrontare la questione per altro verso, anche per non correre il rischio “passatistico” di sottovalutare l’interesse per le nuove tecnologie e alle nuove frontiere della loro applicazione alla formazione.

All’inizio era l’architettura “a stella”. Le tecnologie della comunicazione, anche su base informatica, seguivano l’architettura propria del broadcast. Una pluralità (migliaia, milioni) di soggetti si connettono a un centro che distribuisce informazione e comunicazione a partire da una “propria” disponibilità e “palinsesto”. È una forma di comunicazione uno-a-uno decisamente asimmetrica. Tale asimmetria originaria fu via via corretta, ma non superata, attraverso il costituirsi della possibile bidirezionalità della comunicazione.

In sviluppo fu l’architettura “ad anello”. In essa si apriva la comunicazione uno-a-molti e molti-a-molti superando i livelli di asimmetria della precedente architettura e promuovendo interattività e scambio sia tra eguali che tra diversi.

Naturalmente le due architetture sono sovrapponibili (sono classiche delle reti a gruppo chiuso di utenti). Le figure parlano più delle parole. (Mi scuso della artigianalità dei disegni)

Poi venne l’architettura della “rete”. Ricordo che all’inizio fu pensata in chiave militare e difensiva (ARPANET, l’antenata di Internet). Consentiva di non avere più un “quartier generale” che poteva costituire bersaglio dell’offensiva nemica, ma una distribuzione delle informazioni e del comando, disseminata in modo tale che, se fosse anche andata distrutta una “maglia”, le altre avrebbero sopperito con grande elasticità e flessibilità. L’estensione della architettura e delle sue tecnologie oltre l’ambito militare (o strettamente scientifico) aprì una serie di problemi (molti ancora aperti e all’ordine del giorno): giuridici, di legittimità, di etica, di controllo, di effettiva padronanza delle informazioni, e del loro effettivo “deposito fisico” ecc. La disponibilità in dimensione “personale” di tecnologie un tempo di alto costo e di complessa gestione ha accompagnato il processo. Su ciò non mi dilungo qui.

Mi limito a richiamare, per comprenderne la diffusione capillare, come, lungo tale sviluppo, la semantica stessa del termine “rete” abbia subito uno slittamento significativo: da un originario significato negativo (rete come “trappola”, “cattura”, “intralcio” oppure come attributo di attività negative e misteriose come la “rete di spionaggio”, la “rete di congiura e cospirazione”) si è affermato un significato positivo di “risorsa” direttamente e quotidianamente disponibile di ampliamento e potenziamento della comunicazione.

Mi preme invece interrogare il trasferimento di tali paradigmi della comunicazione, delle metafore che utilizziamo per caratterizzarla, sul piano specifico della comunicazione formativa e nei processi di insegnamento e apprendimento.

L’analisi, nella sua complessità (si pensi alle numerose pubblicazioni che ha sollecitato) si presta molti equivoci e fraintendimenti lungo le due polarizzazioni offerte più immediatamente alla riflessione quotidiana di noi tutti: da un lato le derive passatiste e tradizionaliste, ancorate a paradigmi storici tradizionali; dall’altro le sorti magnifiche e progressive dall’orizzonte digitale. Entro tali polarità si rischia di smarrire la specificità della domanda che interroga la specificità della comunicazione formativa e delle sue sedi “specialistiche”. Per tali motivi preferisco dare alle mie argomentazioni una dimensione interrogativa, anche se da essa traspare la mia opinione.

1. Lo sviluppo della rete ci propone un inedito potenziamento e sviluppo dei registri di comunicazione uno-a-molti e soprattutto molti-a-molti. Tale sviluppo, le cui potenzialità sono evidenti nella vita quotidiana, nella produzione, nel lavoro, come si articola (se si articola) con il registro uno-a-uno del rapporto insegnamento-apprendimento, quale si è sviluppato e si organizza nei luoghi “specializzati” della formazione (i sistemi di istruzione) e nella loro organizzazione “ambientale”? Lo sbaraglia? Vi si sostituisce? Lo rigetta in una inevitabile obsolescenza? Sostituisce, annullandolo, il carattere “dedicato” sia della comunicazione formativa, sia dei suoi ambienti, sia dei suoi strumenti, dissolvendone le “forme” e sostituendole con “l’informalità” potenziata dalla strumentazione delle tecnologie della comunicazione?

2. Lo sviluppo della rete e il suo prospettare la “nuvola” (cloud), che diviene finanche non rappresentabile in figura, delineano una progressiva mutazione di quello che più sopra ho indicato come il “gradiente di gravità” tipico della comunicazione uno-a-uno, che intercorre sempre tra due soggetti “costituiti” e detentori di “padronanza”; e nel caso della comunicazione formativa, sia pure nel gradiente asimmetrico di gravità, tale registro accompagnava il progressivo e crescente “consistere” del “discepolo” (fino al tradimento del maestro avrebbe detto Nietzche).

La rete e in modo drastico la nuvola sembrano annullare tale gradiente di gravità e traducono il “consistere” dei soggetti (e qui mi preoccupa il soggetto in formazione) nella loro “equivalenza e insignificanza”. O se si vuole sostituiscono il suo potenziale “consistere” con la sua “labilità ripetitiva”, per ricca che essa sia. In modo isomorfo nella dimensione cloud perde rilevanza lo stesso “consistere” degli strumenti utilizzati: essi stessi sono trasferiti sul territorio adimensionale e immateriale della comunicazione. Le stesse memorie di massa che accompagnavano la costruzione dell’apprendimento (dal libro a quelle magnetiche e ottiche) sono trasferite in tale dimensione. Padronanza senza possesso? Intelligenza distribuita senza intelligenza implementata sul substrato psico fisico del soggetto? L’interazione “fisica” con la realtà, innanzi tutto con l’interlocutore del “discorso formativo”, trasferita integralmente sulla simulazione e virtualizzazione? (Chi scrive ha cominciato digitando comandi su tastiera e controllando sul video a fosfori verdi l’esecuzione dell’automa. In grado di ricostruire per tempo la pertinenza tra comandi ed esecuzione. Nel cloud sia i “gusci” di software, che, sovrapposti alla “fisicità” dell’automa, mediano istruzioni e esecuzioni, sia le stesse memorie di massa, sono trasferite nella dimensione reticolare. Ammiro la potenza che ciò mi rende possibile, in misura almeno uguale all’interrogativo che mi suscita sul controllo di cui sono spossessato). In modo radicale e dunque un poco tranchant: apprezzando in contesto di lavoro, produzione, progettazione adulta, le potenzialità di tutto ciò, è possibile, e come, la “costruzione” (bildung) del soggetto, la sua formazione culturale e psicologica, a partire dalla “decostruzione” dei materiali e dei costituenti, e la loro distribuzione che rende aleatori e insignificanti gli insediamenti e i giacimenti? Senza approfondire analiticamente uso, in chiave clinica, alcuni esempi portati su Education 2.0. per articolare la domanda cruciale. In “Digital brain e Net intelligenze” descrivendo le mutazioni cognitive connesse allo sviluppo della rete si fanno alcune affermazioni che elenco: sviluppo di “intelligenza utilizzatrice”; “meno concentrata ed analitica”; “scoprire informazioni estraendole off brain … web mediate piuttosto che in operazioni cognitive” per finire con una inquietante “Capaci di risolvere problemi indipendentemente dalle conoscenze” possedute. Capisco che tutto ciò sia la “liquidità” eretta a valore. Ma a prescindere dal giudizio (se penso al chirurgo che mi opera o all’ingegnere che costruisce la mia casa quel “off brain” e quel “indipendentemente dalle conoscenze” mi mettono i brividi) come si trasferisce questo “tipo di intelligenza” come nuovo paradigma del fare formazione? Ma altrettanto da pensare danno alcuni contributi che riportano prestazioni eccellenti offerte da alunni di diversi livelli di scolarità, dagli esami di terza media a quelli della “maturità”. Hanno destato tutta la mia sincera ammirazione: quei prodotti lasciano trasparire capacità di articolare contenuti diversi, di presentarli con efficacia, di argomentare in modo chiaro… Che invidia, e che speranza, se le scuole che quegli studenti hanno frequentato non dico abbiano prodotto direttamente, ma almeno contribuito a produrre tali capacità. Eppure… ho la sensazione che da quei prodotti manchi “il marchio” della soggettività, del contributo proprio, originale. Che l’abilità nell’assemblaggio non lasci trasparire (anzi…) la potestà di “tradire” il maestro che rappresenta il compimento della formazione. In particolare mi ha colpito in “Le eccellenze nella scuola esistono davvero” il testo del compito di un alunno della maturità (di cui per altro avevo già letto contributi di sua mano nelle pagine di Education 2.0 e di cui so l’impegno precoce nel giornalismo locale. Dunque nella “crudeltà” delle mie parole nessuna sottovalutazione delle sue grandi capacità e cultura). Argomento proposto “Amore, odio, passione”. Titolo del minisaggio “L’estremità che dà senso”. Un pezzo mirabile, un vero e proprio esempio di esecuzione pertinente e ottimale del compito assegnato. Ma… in poco più di due pagine ritrovo citazioni (pertinenti) di Schopenhauer, Euripide, Catullo, Nietzsche, Manzoni, De Chirico, Verga, Oscar Wilde, Svevo, Elliot… Fatto l’omaggio dovuto a tale capacità di articolazioni e collegamenti, mi sorge però la domanda inevitabile. “Ma tu, proprio tu, cosa ne pensi del rapporto Amore, odio, passione? E cosa ne pensa di ciò che tu pensi e agisci la persona con la quale fai all’amore? E tu cosa pensi di ciò che lei pensa?”. Certo non sono argomenti da saggio breve della maturità, ma sono domande più che pertinenti sul piano della formazione e costruzione del soggetto, che sono lo scopo ultimo del faticoso lavoro della scuola. Ma qui non posso che rimandare al senso di quanto sostenuto nei paragrafi precedenti.

3. Non ho evidentemente risposte esaurienti alle domande di cui sopra. Accenno a una ipotesi che però costituisce non la soluzione ma “il” problema. Se si tratta di imparare a “navigare” il problema sono le abilità, le competenze, le capacità e le esperienze da “skipper”. Identificare e mantenere la rotta dentro la rete e la nuvola. Identificare la “spirale” potenziale che la attraversa.

Ma ciò richiede la capacità di identificare i punti di riferimento che, nella dispersione, labilità ed equivalenza indifferenziata dei “poli”, sono innanzi tutto dentro di sé, e del sé “in costruzione”. Una condizione per non rimanere prigionieri della rete o della nuvola che riacquisirebbero così l’antica semantica di trappola, impedimento, cattura. E ciò ci riporta al rapporto maestro-discepolo da cui siamo partiti. Forse un maestro che, come il padre dissolto, non può pensare più di interpretare la figura della Legge, e deve invece assicurare la testimonianza. Dovere altrettanto se non più faticoso del primo.

En passant, poiché è fuori dall’argomento di questo intervento, forse le considerazioni proposte hanno un riflesso anche sul piano delle forme di organizzazione collettiva (dall’associazionismo alla politica) nelle quali i paradigmi della rete sembrano avere sostituito e decostruito (entusiasticamente?!) altre forme di organizzazione, comunicazione, appartenenza. Pensiamoci.

Franco De Anna

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