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La forza dell’apprendistato e della formazione

Pubblicato il: 08/10/2014 15:36:33 -


Analisi e prospettive su formazione e apprendistato, un’alleanza favorevole per i giovani.
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Il percorso di un apprendista nell’Italia del boom economico e della progressiva conquista dei diritti sociali è stato un continuo crescere in formazione. Da una parte c’era la trasformazione della bottega artigiana in impresa organizzata, nella quale non era più possibile passare dall’ideazione alla realizzazione, ma occorrevano competenze intermedie nella progettazione e nell’articolazione produttiva, andata via via sempre più perfezionandosi sul piano tecnologico, dall’altra si attribuiva al processo formativo un’importanza decisiva per la costruzione della cittadinanza.
L’apprendista era un po’ la figura simbolo di questo cambiamento. Soprattutto i corsi serali rappresentavano la volontà di avanzare velocemente verso il progresso tecnico e una società più civile e democratica.

L’innalzamento dell’obbligo scolastico, il recupero della licenza media per i lavoratori, affermarono il valore della formazione “dell’uomo e del cittadino”, spostando in avanti l’ingresso nel mondo del lavoro, così da far praticamente sparire quell’apprendista al quale veniva insegnato un po’ di disegno tecnico e di tecnologia meccanica, ma anche educazione civica e la Costituzione.
Prevalse l’idea che fosse necessario prima studiare per dare un’impronta alla personalità dei giovani e attraverso l’orientamento aiutarli a scegliere il proprio cammino per poi esercitare una professione che li avrebbe accompagnati per il resto della vita, migliorandosi sul campo.
Chi voleva progredire doveva andare per quella strada, risalendo nel contempo la scala sociale; chi rimaneva indietro era destinato ai lavori tralasciati dagli altri (di qui la questione degli immigrati) che perlopiù richiedevano una scarsa preparazione. Si pensava che questa fosse la proporzione: la maggior parte dei giovani incamminati nel sistema formativo, una piccola parte ai lavori chiamati in senso dispregiativo manuali.

Qui la prima questione: la nostra tradizione culturale.
Per noi educati all’humanitas classica la via degli studi era la via dell’otium, mentre quella del lavoro del nego-otium, per cui all’ampliamento della prospettiva formativa, dovuta anche ad una maggiore democrazia culturale, corrispondeva un allontanamento dal lavoro come elemento di formazione umana e sociale. Si pensi al sostanziale fallimento delle applicazioni tecniche nella scuola media unica, adeguatesi nel tempo a disciplina tecnologica teorica.
Maggiore istruzione voleva dire aumento della cultura umanistica astratta da apprendere attraverso una didattica trasmissiva.

La seconda questione, la totale mancanza di una pedagogia del lavoro; essa infatti avrebbe consentito ai giovani di sperimentarsi in modo “integrato”, facendoli diventare imprenditori di loro stessi, il che avrebbe contribuito non poco a sostenere il proprio progetto di vita. Anche le più recenti riforme hanno spinto gli indirizzi di studio verso una licealizzazione diffusa, utile sul piano di un sempre valido incremento di competenze che anche il mondo del lavoro richiede, ma non cambia il modo, mantenendo una notevole distanza tra i due mondi, che si sono consolidati in maniera alternativa anche a livello politico, e che invece hanno bisogno a loro volta di integrarsi: la cultura deve incarnarsi e la professionalità arricchirsi.

Su un tale impianto si abbatté la bufera nel momento dell’innalzamento dell’obbligo di istruzione a 16 anni, in cui già c’era il problema dell’abbandono scolastico e si andava alla ricerca di soluzioni perlopiù in un precoce inserimento nel mondo del lavoro. E qui ritorna l’apprendistato come ammortizzatore sociale.
La recente legislazione consente la stipula dei contratti di apprendistato anche in deroga ai 15 anni, limite stabilito dalle autorità internazionali del lavoro, in particolare per gli studenti iscritti agli istituti professionali e la formazione avviene principalmente sotto la responsabilità dell’azienda. Questo vale anche per l’assolvimento dell’obbligo d’istruzione. Le aziende medesime designano propri rappresentanti nei comitati scientifici degli istituti scolastici e i periodi di apprendimento sul posto di lavoro fanno parte integrante del percorso formativo personalizzato, con crediti per la conclusione degli studi. All’apprendista viene corrisposta una retribuzione e la scuola colloca tale esperienza entro un massimo di flessibilità del 35% del curricolo, in coerenza con il “profilo educativo, culturale e professionale dello studente”.
Trattandosi però di un contratto di lavoro con evidenti obblighi formativi si è costatato che risulta ancora poco attraente per le imprese, soprattutto per quelle medie e piccole, che sono molto numerose nel nostro Paese, esse fanno fatica ad offrire a questi giovani un contesto di formazione organizzato.

E allora si torna a chiedere forti sinergie tra i due mondi (alternanza scuola-lavoro), senza vincoli contrattuali, con la creazione di poli tecnico-professionali sul territorio e di laboratori extra-aziendali, così come indicato nel recente documento governativo sulla “buona scuola”. Tali strutture supplirebbero alla carenza di attrezzature aggiornate nelle scuole, e, emulando la Germania, potrebbero essere finanziate con i fondi “interprofessionali”. Vengono riscoperte attività nelle aziende agrarie, nelle prove sui materiali per l’edilizia, ecc., presenti in numerosi istituti tecnici, che avrebbero uno scopo didattico ma anche commerciale per le scuole stesse.
Progetti di apprendistato per i minorenni hanno dimostrato la loro inefficacia, sia per le note difficoltà ad entrare nel mondo del lavoro in tempi di crisi, ma per questione di maturità complessiva degli alunni e della mancanza di competenze adeguate. Così come non agiscono da contrasto alla dispersione.

In passato dunque sull’autobus della formazione gli apprendisti volevano salire per migliorare la propria preparazione e la propria condizione sociale, oggi si vuole scendere, ma non per tornare a fare l’apprendista: forse meglio il neet.
Allora non si tratta solo di nuove/vecchie “scuole-bottega”, che praticano un modello formativo e lavorativo che potremmo definire tradizionali, ma a cavallo dell’obbligo di istruzione, la fase più delicata dello sviluppo personale e dell’orientamento, si dovrà portare un radicale cambiamento, sia sotto il profilo didattico-professionale che in quello relativo al modo di affrontare i giovani d’oggi, per arrivare a proporre una “nuova” pedagogia del lavoro.
È diverso se s’interviene sulle classi quarte e quinte e oltre, con apprendistato professionalizzante e di alta formazione, come avviene nell’attività curata dall’ENEL. È l’azienda che seleziona gli apprendisti all’interno delle classi (prove scritte e orali): il nuovo gruppo seguirà non solo il nuovo percorso formativo, ma anche la vita di quell’azienda. Una potenziale azione di diverse aziende in tal senso sarebbe sufficiente a imprimere una svolta ai curricoli ancor prima del termine del quinquennio scolastico. Se vi aggiungiamo un possibile ERASMUS arriviamo alla conclusione di una chiusura anticipata della scuola a 18 anni; il diciannovesimo potrebbe essere riempito di tutte queste attività, riproponendo una visione fortemente orientativa, come ci sono esperienze nel nord Europa, da porre in relazione con gli ITS.

Un’altra strada di profonda connessione tra scuola e lavoro, ma che non coinvolge l’apprendistato è il programma DESI (Dual Education System Italy) organizzato dalla regione Emilia Romagna in collaborazione con la Ducati Motor Holding e la Lamborghini automobili. Si prendono i giovani che hanno conseguito la qualifica professionale triennale (istruzione/formazione) e si fanno praticare altri due anni in azienda e a scuola. Qui è il curricolo aziendale che viene integrato con competenze prevedibilmente di carattere generale da acquisire a scuola. Alla fine del programma è prevista la possibilità d’ inserimento nel mondo del lavoro o della prosecuzione nel sistema scolastico (diploma quinquennale).

È interessante vedere come per i più giovani il lavoro sia considerato una terapia per l’insuccesso scolastico e il disagio sociale, mentre al termine del secondo ciclo di studi divenga un elemento di transizione, tanto più efficace se ha alle spalle buone competenze.
Un groviglio tra percorsi formativi e tipologia di strumenti di alternanza; da un lato occorre virare decisamente verso una didattica per competenze, e, dall’altro, semplificare la burocrazia per favorire la più ampia compenetrazione tra i settori. Sono infatti le competenze in uscita, rispetto a profili professionali concordati con il mondo del lavoro, e non i vincoli imposti alle filiere formative, a regolare il percorso al quale lo studente deve poter contribuire con un margine di scelta di contenuti, ma attenzione a concentrarci troppo su tipologie di contratti, come l’apprendistato che in un periodo di crisi rischia di frenare l’intero processo.

Non sono i contratti ad incanalare la formazione, soprattutto in una fase recessiva, ma è quest’ultima che deve porsi alla base della crescita.

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Immagine in testata di Wikipedia (licenza free to share)

Gian Carlo Sacchi

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