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Per riformare l’orientamento

Pubblicato il: 13/12/2023 02:33:31 -


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Le recenti linee guida emanate dal ministero per la riforma dell’orientamento hanno il pregio di elencare tutta la normativa precedente, italiana ed europea sull’argomento, emanata in questi anni, alla quale si dice di continuare a riferirsi, aggiungendovi pochi elementi relativi a spazi orari finalizzati, insieme ad altri previsti per le università, con l’indicazione di docenti tutor, reperiti all’interno della classe, di cui però si sa ancora molto poco circa lo status ed il funzionamento, che assomigliano tanto ai PCTO.

Si tratta di indicazioni previste dal PNRR, impostate dal governo precedente, che ancora una volta fanno perdere l’occasione per un intervento approfondito sul sistema e sulla didattica, limitandosi ad un’esegesi pedagogica di pregio, ma la cui efficacia potrebbe essere uguale alle precedenti, cioè poco o nulla, se si guarda a come siamo arrivati fin qui su un tema che negli anni è venuto assumendo una notevole importanza sia all’interno del processo educativo, sia all’esterno, per ciò che riguarda le ricadute sul piano sociale e professionale.

Si deve decidere se si vuole continuare a governare il percorso orientativo ed allora bisogna mettere in sinergia molti strumenti che già ci sono, ai quali magari non servono nemmeno ore dedicate, o lasciare il compito all’autonomia delle scuole con la richiesta di presentare dei risultati, magari da premiare come avviene per l’occupazione dei diplomati degli ITS o con il controllo a distanza come presentato dalla annuale ricerca Eduscopio, altrimenti il rischio è che anche queste linee guida vadano a sommarsi a quelle precedenti, mantenendo il sostanziale immobilismo del sistema.

L’orientamento è innanzitutto conoscenza di sé da parte degli studenti e questo avviene attraverso esperienze orientative che vanno documentate, di cui i giovani devono rendersi consapevoli, per imparare a decidere nel corso delle stesse e non all’ultimo minuto prima delle iscrizioni; tale maturazione sarà in grado di discutere con la famiglia che nell’incertezza tende a prevaricare. Si tratta inoltre di conoscere il contesto economico e sociale, non in modo superficiale, con open day di istituti scolastici o universitari, ma attraverso rapporti strutturali con il territorio e le sue vocazioni, a cominciare dal lavoro a scuola  come previsto nelle indicazioni nazionali per il curricolo ai diversi livelli, che spesso vengono eluse a beneficio delle attività d’aula; questo richiede una didattica per competenze che ponga gli studenti nella condizione di sperimentare conoscenze e capacità pronte per essere impiegate all’esterno.

La conclusione dei percorsi che avviene con gli esami di fine ciclo deve vedere la compilazione del portfolio, che viene riportato alla luce, non come strumento burocratico o semplicemente certificativo, ma capace di autovalutazione da parte del soggetto, che così può partecipare alla costruzione del proprio curricolo di studi, con il quale la scuola abbandona la selezione appunto per l’orientamento. Un portfolio che va oltre il consiglio orientativo che spesso corrisponde a stereotipi culturali dei docenti e si pone come guida di un progetto di vita e di lavoro. Tale strumento serve per recuperare in ogni momento i successi e le criticità del percorso, costituendo un primo baluardo contro la dispersione e la rassegnazione nei confronti dell’insuccesso; una modalità di valutazione qualitativa alla quale contribuiranno i tutor scolastici e quelli aziendali, nei rapporti di alternanza, che sarà utilizzata anche nel riconoscimento europeo dei livelli di competenza e dei crediti.

Qui il sistema deve proporsi in modo aperto, con tutti gli indirizzi alla pari, sapendo che da un lato i giovani chiedono un sapere sempre più applicato e le professioni hanno bisogno di competenze generali e organizzative. Si tratta di rendere più interconnessi i vari indirizzi, favorendo la possibilità di passaggio e di prosecuzione nella formazione terziaria, accademica e non,  permanente. Questo anche sul piano degli edifici, attraverso la costruzione di campus per la secondaria, ma anche degli istituti comprensivi nel primo ciclo, che favoriscano la socializzazione ed il riorientamento.

Una contraddizione che il nostro sistema non è mai riuscito ad eliminare riguarda il rapporto tra orientamento e valutazione. Una valutazione orientativa dovrebbe seguire lo sviluppo delle competenze in relazione alla direzione che si intende compiere, mentre valutare ancora oggi significa selezionare e quindi sbarrare la strada sull’intero piano di studi, anziché lasciare quello che di positivo possa indirizzare verso le scelte future. Se si vuole guardare alla formazione permanente occorre utilizzare i crediti che aiutano a progredire nell’apprendimento e a rinforzare appunto l’orientamento.

A poco servirà un consigliere in questo percorso che cercherà di assumere un ruolo di accompagnatore dello studente in vista del superamento delle sue fragilità, alla ricerca della strada che lo conduca alla scoperta della sua vocazione e quindi al recupero di motivazione e competenze, allontanando così il pericolo dell’abbandono, quando un consiglio di classe in versione plotone di esecuzione impedisce il raggiungimento della media del sei per poter accedere alla classe successiva. Non parliamo poi dell’aggiunta del voto di condotta, con l’obbligo di aggiungersi alla media e quindi aumentando il rischio dell’insuccesso.

Nel recente passato la sostituzione dei voti numerici con i giudizi descrittivi avevano cercato di rendere più trasparente la valutazione e più funzionale alle scelte successive; dal decreto Gelmini fino ai giorni nostri i governi hanno ripristinato i numeri e c’è chi nell’attuale compagine governativa vuole retrocedere anche per la scuola primaria. Da una parte dunque si vuole aiutare gli individui ad orientarsi, e questo sarà più facile con la maggiore trasparenza della valutazione, mentre dall’altra si vanno stringendo i cordoni burocratici della selezione.  

Quando fu introdotto nella scuola l’orientamento aveva un carattere deterministico, mirato a scoprire un’eventuale predisposizione ad opera di un agente esterno, mentre poi divenne parte del progetto educativo-didattico; soprattutto nella scuola media riformata le discipline dovevano avere un carattere orientativo, e quindi non più accumulazione di conoscenze uguali per tutti, ma individualizzazione dell’apprendimento a misura di ciascuno, con la cifra appunto dell’orientamento. La didattica non si adattò a questa indicazione, che pure era ampiamente contenuta nella legge del 1962, e i consigli di orientamento non venivano ricavati da esperienze educative compiute dagli allievi. 

Oggi sembra di essere tornati alle origini, sia per quanto riguarda l’affidamento di tale pratica ad una figura specifica, che magari non ha nemmeno un’adeguata formazione, senza coinvolgere l’intero curricolo, in modo da giustificare di nuovo il disinteresse da parte dei docenti del consiglio di classe, sia per non voler far assumere alla didattica nel suo complesso il carattere orientativo e non selettivo, la flessibilità del percorso nella secondaria superiore anziché imporre la scelta rigida fin dall’inizio. 

Si è cercato fin qui di tracciare un percorso che porti all’orientamento delle persone, ma dall’altro lato, quello aziendale, le richieste si fanno pressanti, sia in termini di profili professionali, sia di competenze innovative. C’è un’esigenza per l’oggi, soprattutto di operai specializzati, ma bisogna pensare a competenze in via di definizione che saranno meglio precisate negli anni successivi, per le quali occorre comunque essere preparati. Le aziende infatti non hanno bisogno di manager tradizionali che sappiano già le strade da percorrere, ma di esploratori pronti a scoprire nuovi percorsi aperti all’innovazione. Sembra una competizione tra Achille e la tartaruga; nel dopoguerra era la scuola a trainare le imprese ed i territori, oggi accade il contrario e sono queste ultime ad “adottare” gli istituti di formazione.

Senza voler affrontare il problema dei contratti di lavoro che pure potrebbero dirci qualcosa circa l’occupazione giovanile, non può essere il rimpallo di responsabilità l’elemento che può indurre scuole e aziende ad un incontro esaustivo. Una situazione conflittuale potrebbe far ritrarre la prima entro i confini della sua tradizione rinunciando all’innovazione, anche per le delicate situazioni che si determinano nei percorsi di alternanza con il mondo del lavoro, e quest’ultimo cercare di sostituirsi ad essa spesso solo per le mansioni di cui c’è urgenza. 

Occorre ripensare ad una grande alleanza utilizzando e qualificando lo strumento dell’apprendistato, sia per la scuola superiore, sia per l’università, dove tra formazione e produzione vi sia una progressiva contaminazione capace di far progredire la conoscenza attraverso il lavoro e, come dicono le linee guida, ricercando nelle scuole sintesi unitarie, riflessive, interdisciplinari. 

Gian Carlo Sacchi  Esperto di politica scolastica. Ha fatto parte del Consiglio di amministrazione dell’INDIRE e ha fatto parte del comitato Scientifico della Regione Emilia Romagna per le esperienze di integrazione tra istruzione e formazione professionale.

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