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Il PCI e la scuola. Intervista a Aureliana Alberici

Pubblicato il: 27/10/2021 08:17:48 - e


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Nota di redazione

Nel febbraio 2021  in una riunione di redazione, in cui abbiamo ragionato dei temi che avremmo voluto proporre durante l’anno, abbiamo deciso di avviare  un  percorso di riflessione, in occasione del centenario della sua fondazione,  sulla  presenza del PCI nella cultura italiana e sui  temi dell’educazione e dell’istruzione, visti come dimensioni fondamentali nei processi di democratizzazione e di modernizzazione del nostro Paese. Senza la pretesa di procedere a  una ricostruzione sistematica, in una prospettiva critica stiamo raccogliendo testimonianze, ricordi, punti di vista di persone che con diverso impegno e responsabilità sono state testimoni e/o protagonisti di questo lungo periodo storico.

È in questo contesto che abbiamo chiesto ad Aureliana Alberici di condividere con noi gli aspetti che ancora oggi ritiene significativi della sua esperienza di studiosa, docente,  amministratrice, militante e dirigente del PCI.

 Se si osserva la tua biografia, il tuo impegno appare molto precoce; potresti ripercorrere le esperienze sociali/politiche/ culturali che ti hanno portato così presto a fare le tue scelte? Perché la scuola, perché l’educazione ?

Ho avuto la fortuna di vivere gli straordinari anni  tra  la fine dei `60 e i `70, quando  le giovani generazioni del dopoguerra hanno creduto, pensato e agito per cambiare il mondo e per costruire, nella democrazia, le condizioni per un futuro migliore. Sono parole certo importanti e impegnative che non ho però paura di pronunciare. Rimandano al tempo dei miei studi universitari, alle aspettative e al fervore intellettuale che li segnarono. I  maestri nell’ateneo bolognese,  il mio rapporto con la scuola pedagogica di Bologna, la laurea con il prof. Gianni Maria Bertin nel 1966, con una tesi su: «Cultura ed Educazione in Antonio Gramsci«.In un anno di studi divorai tutto ciò che era disponibile sul piano scientifico e storico e mi avvicinai materialmente al PCI o meglio alle sue biblioteche di sezione, che molto spesso avevano libri e collezioni di riviste che non si trovavano altrove. Potrei dire, in sintesi, che il mio impegno politico e le mie scelte di campo nacquero da una passione culturale, dall’ incontro intellettuale con   Gramsci che segnerà tutti i miei percorsi di vita e di lavoro. Un Gramsci che proprio in quegli anni emergeva, oltre la canonica lettura togliattiana, attraverso le Lettere dal carcere, in molti scritti inediti e nelle prime biografie, non agiografiche, come intellettuale, uomo e politico di grande tempra morale e rigore rivoluzionario. Gli anni ‘60 e i primi  ‘70 sono anni di formazione, tra il fermento culturale dell’Università bolognese, animato dalla vivace presenza dei movimenti studenteschi e dei docenti democratici, e la scuola di vita di una città come Bologna percorsa da  spinte innovative politiche e sociali. Con un’importanza particolare attribuita ai grandi temi della formazione e della scuola, quindi al diritto di tutti a un’istruzione di qualità, e al valore del sapere come risorsa essenziale  per la qualità della vita individuale e per lo sviluppo civile della collettività. Sono queste, e in quest’esperienza, le ragioni della scelta di un impegno politico complessivo, ma strettamente legato a temi e politiche specifiche.

Gli anni in cui sei stata assessore al Comune di Bologna  sono stati decisivi in Italia per lo sviluppo del tempo pieno, l’integrazione scolastica dei disabili, l’educazione degli adulti nelle 150 ore, la collaborazione tra scuole e comunità locali per il diritto allo studio, lo sviluppo delle scuole per l’infanzia. Quanto questa esperienza,  in un contesto per certi versi speciale e di avanguardia nel panorama nazionale, ha influito sulle tue successive esperienze di parlamentare e di dirigente politica del PCI-PDS  dalla fine degli anni  ‘80 fino al 1996 ? 

In quegli anni ho imparato a trovare soluzioni, risposte a tanti nuovi/vecchi problemi. Attuare concretamente le riforme comporta misurarsi con più variabili: la domanda di istruzione ed educazione di un determinato contesto, le dinamiche interne alla scuola e al suo personale, le disponibilità di bilancio, le strutture edilizie, la configurazione della città. Richiede ascolto ma anche  mediazione, negoziazione, decisione. Le istanze sociali  che diventano strategie politiche, la politica che fa crescere la società, le idee che trasformano la realtà. Cultura, politica, ma anche capacità amministrative.   

 Volgendo lo sguardo a quegli anni, posso dire che proprio  in quell’intersecarsi di esperienze, competenze e professionalità  c’è il filo conduttore del mio operare anche nell’assunzione di responsabilità nazionali: la capacità di coniugare la conoscenza dei problemi, l’ascolto e la necessità di trovare soluzioni e  risposte di qualità, mi hanno  sempre accompagnata sostenendo il mio impegno politico e parlamentare. Sono stata Senatrice del Pci e del Pds dal 1987 al 1996, per  tre legislature (X, XI, XII) e credo di poter dire che ho avuto sempre come ‘centro di gravità permanente’ l’attenzione ai temi della formazione, alle problematiche educative e scolastiche, ai movimenti reali della società,  sempre calati nel più generale contesto politico. Sia la Commissione  Scuola nazionale del PCI  che il lavoro parlamentare si misurano in quel periodo con questioni di grande respiro culturale, molto impegnative anche sul piano della direzione politica dei processi da attivare, intercettare,  favorire. Dall’azione politica e istituzionale per l’innalzamento dell’obbligo scolastico e per la riforma dell’istruzione superiore, dalla scuola elementare  e  il tempo pieno  fino a terreni di azione assai complessi che richiedevano di mettere in campo tutta la capacità nostra e del partito di trovare nuove forme dell’agire politico  su questi terreni insieme specifici e generali, come la revisione del Concordato tra Stato e Chiesa Cattolica,  con le sue  implicazioni di merito e di metodo per la scuola, gli insegnanti, gli studenti e le famiglie, che hanno prodotto anche  momenti di acuto contrasto  con il mondo scolastico  più innovativo e, più in generale, tensioni e sofferenze tra il PCI e la scuola cosiddetta militante. Voglio ricordare anche l’ impegno  in ambito parlamentare sul terreno della lotta alla mafia e sul ruolo della scuola per lo sviluppo della legalità, e una nuova attenzione alle condizioni di vita  e di lavoro delle donne   in ambito scolastico. 

Partecipazione e autonomia sono stati indubbiamente due temi importanti , e con sorti alterne, della vicenda scolastica dagli anni ‘80. Penso agli organi collegiali, una straordinaria esperienza di coinvolgimento e di protagonismo, che perderanno poi la loro forza innovativa per trasformarsi in forme solo burocratiche  della rappresentanza. E al successivo prevalere di un modello di autonomia che avrebbe dovuto/potuto essere  finalizzato alla realizzazione di quel sistema formativo integrato ( Stato, istituzioni locali, soggetti sociali ed economici dei territori), così come proposto dal Pci  e  sperimentato fin dagli anni ‘70 nelle Regioni e nei Comuni governati dalla sinistra, che si è invece sempre più caratterizzato, con le riforme dei governi di centrodestra, con una deriva di  tipo aziendalista. Un modello incapace di assicurare una migliore efficacia ed efficienza del sistema di istruzione e  formazione  e che ha aggravato le forti diseguaglianze territoriali, presenti ancora oggi e ulteriormente peggiorate  nel 2020,  di fronte alla pandemia.  

Un altro tema denso di criticità è stato quello della riforma dell’istruzione superiore. Il clima culturale e i processi di trasformazione sociale che si sono venuti affermando negli anni ‘80-‘90 hanno reso sempre più problematica l’attuazione degli obiettivi sostenuti per decenni dal PCI. In particolare l’innalzamento della  scolarità  obbligatoria, la realizzazione di un biennio unitario fino ai 16 anni o comunque per almeno 10 anni, l’obbligo formativo  fino ai 18 anni, l’ armonizzazione del nostro sistema di istruzione con il quadro europeo, la riforma dell’istruzione professionale e tecnica.  

Negli anni  della mia responsabilità nazionale nella Commissione Scuola e nel lavoro in Parlamento, abbiamo avuto, nel 1993, la possibilità di far approvare in Senato una riforma  che conteneva  alcuni dei punti qualificanti della nostra proposta. Credo che abbiamo sbagliato, forse per una tiepida convinzione di una parte del partito e del gruppo parlamentare  della Camera, a non cogliere questa opportunità che avrebbe consentito di concludere finalmente il  sofferto iter della riforma prima delle elezioni anticipate e dello scioglimento delle Camere. Avremmo potuto  avviare il cambiamento e dare certezze ordinamentali a un sistema scuola già scosso da sperimentazioni e riforme mancate. Ma tant’ è. Eravamo d’altra parte di fronte a molte resistenze al cambiamento e anche al manifestarsi di spinte corporative nella scuola stessa. Dobbiamo  riconoscere che i protagonisti della riforma, insegnanti e studenti, hanno nel tempo allentato il loro protagonismo, anche per l’ allontanamento da questi soggetti del Pci, e che le politiche scolastiche hanno progressivamente assunto forma e sostanza più di decisioni istituzionali  calate dall’alto che di scelte partecipate per dare risposte ai processi reali. È sicuramente uno degli aspetti più preoccupanti per la politica di un partito come il PCI. Continuo però a ritenere che l’esigenza di una scuola pubblica unitaria  di forte impianto culturale per tutti,  capace di sostenere la cittadinanza attiva e di fornire gli strumenti  per affrontare le grandi trasformazioni economiche, sociali, tecnologiche, nella vita e nel lavoro, un approccio fondamentale  delle politiche del PCI in tutti gli anni ‘80 e del lavoro parlamentare nella X, XI, XII legislatura, non sia andato  perduto, e abbia anzi costituito il retroterra culturale e politico della riforma Berlinguer del 1997.

Nella complicatissima fase che ha caratterizzate la conclusione / superamento  della esperienza del PCI, sei stata  tra i  protagonisti di quel ‘laboratorio’ , che si  è chiamato governo ombra, dove sei stata ministro dell’istruzione. Quel passaggio è stato spesso letto come una esplicita candidatura al governo di questo Paese. Qual è il bilancio che ti senti di farne oggi?

Come ho già detto, tutto il mio agire politico  in materia   di educazione, istruzione e formazione  non è stato mai di tipo settoriale, ma il modo specifico per  promuovere  quel rinnovamento della politica della sinistra  necessario a confrontarsi con le grandi trasformazioni degli anni ‘90 e ad affrontare da protagonisti le sfide del terzo millennio.Con questo spirito ho vissuto l’esperienza di quel ‘laboratorio’ , che si  è chiamato governo ombra (GO), uno degli esperimenti più ambiziosi di quel Nuovo PCI uscito dal 18° congresso del 1989,  impegnato a rintracciare nuove forme dell’agire politico. L’ esperienza si colloca in un periodo sicuramente complesso, quello  che avrebbe visto di lì a poco il  cambiamento radicale  dello scenario mondiale  con il crollo del comunismo come esperienza reale  agita nei paesi socialisti. Un cambiamento che interrogava  tutti, anche il Nuovo PCI , un  contesto in cui l’idea di giocare dall’opposizione un ruolo di governo si proponeva di alimentare una cultura nuova, di ‘governo’ appunto, capace di dare maggiore credibilità e forza al partito che aveva voluto recidere, non senza fatica e conflitti, legami, tradizioni e, più in generale, uno schieramento di campo ormai insostenibile, candidandosi così a essere forza maggioritaria nel Paese con  proposte e programmi alternativi. Credo che fosse questo il senso di una sfida, culturale e ‘morale’ prima che politica, in cui si  anticipava la scelta radicale di un nuovo inizio, a pochi mesi dalla svolta della Bolognina e dalla nascita del Pds nel 1992, l’anno in cui finisce anche l’esperienza del governo ombra del 1989-1992. Ho  affrontato  con slancio quella prova, nella convinzione che una dimensione costruttiva e progettuale della politica fuori dal semplice esercizio ideologico e da ogni logica minoritaria potesse dare forza a un progetto di rinnovamento sociale e culturale del paese. Anche in questo caso ha continuato ad accompagnarmi l’importanza della dimensione culturale ed educativa della politica, di gramsciana memoria.

Rileggendo le carte del governo ombra e ripercorrendo i lavori parlamentari, molte sono le suggestioni e i temi che hanno ancora oggi una forte rilevanza. Di fronte a un processo riformatore, sempre interrotto, molto spesso burocratizzato e sempre più lontano dai protagonisti reali, il governo ombra intendeva ricostruire le condizioni di  fattibilità dei processi innovativi  nella scuola, con proposte finalizzate a promuovere il protagonismo di docenti, studenti, interlocutori sociali ed economici in base ad obiettivi chiari e condivisi. Piena scolarità e qualità del sapere,  valutazione del  rendimento  scolastico, contrasto del grave fenomeno degli abbandoni scolastici, innalzamento dell’obbligo scolastico a 16 anni in sinergia con il trend europeo,  diritto all’istruzione e alla formazione non solo come accesso ma come successo nei percorsi formativi, riqualificazione e sviluppo dell’edilizia scolastica come condizione strutturale di qualità della formazione, innovazione organizzativa e didattica.  La brevità del lavoro del GO,  gli intoppi politici e istituzionali  susseguitisi negli anni  anche sul terreno della scuola, (solo nel 1997 sarà approvata la riforma Berlinguer), la complessa vicenda del dopo PCI mi fanno dire oggi che l’obiettivo del rinnovamento delle forme della politica era centrato e tuttora attuale, ma il contesto politico era frantumato e arretrato sul terreno delle riforme istituzionali e della stessa legge elettorale  necessarie per fare funzionare il sistema.

In conclusione, potresti indicare, da studiosa, qual è secondo te il patrimonio di cultura dell’educazione che rimane valido ancora oggi nel centrosinistra e che può essere interpretato come eredità dell’impegno culturale e politico del PCI?  

Ho voluto evidenziare le luci e le  ombre, nel difficile periodo di riforme necessarie non attuate o forse anche debolmente e/o parzialmente attuate,  per ridimensionare una lettura molto settoriale e prevalentemente istituzionale dell’azione di politica scolastica del Pci. Istruzione e formazione  non sono un campo di interesse solo specifico e settoriale, ma il modo stesso di alimentare una politica nuova, oltre i tradizionali ambiti della politica scolastica della sinistra, anche di una sinistra spesso ideologica e in affanno. Rispondo così alla tua richiesta di indicare quale sia il patrimonio che ancora oggi ritengo valido. È nella straordinaria e significativa ricchezza di una storia corale di donne e di uomini che si sono misurati con l’obiettivo del sapere di tutti, dello sviluppo delle capacità di ognuno e della collettività di misurarsi con i problemi dell’oggi e del futuro. Per misurarsi coi gravi e nuovi problemi che abbiamo di fronte, l’idea del PCI di far leva su un protagonismo sociale fondato sul sapere resta viva, vitale, necessaria. Senza non c’è la possibilità, né la fattibilità degli obiettivi necessari ad affrontare le tante transizioni che ci attendono.  

 

 

Vittoria Gallina e Aureliana Alberici professore universitario ordinario, già senatrice del PCI e poi del PDS presidente della Rete universitaria Italiana per l’apprendimento permanente

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