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Educazione o istruzione?

Pubblicato il: 22/02/2023 03:00:53 -


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Forse qualcuno si sarà chiesto come mai il “nostro” ministero oltre al termine “istruzione”, a cui di recente si è aggiunto “merito”, non comprenda anche il termine “educazione”, come avviene in altri paesi europei?

Si pensi al Ministère de l’Education Nationale, de la Recherche et de la Technologie in Francia, al Department for Education nel Regno Unito, al Ministério da Educação in Portogallo e così via.

Di recente in una intervista la preside Katharine Birbalsingh della Michaela Community School di Londra, presentando le attività didattiche/educative che caratterizzano la scuola che gestisce, ha sviluppato il tema merito e disciplina.

La preside ha ribadito che il principio che ispira le attività nella sua scuola punta ad offrire agli alunni disagiati un servizio educativo di eccellenza, al fine di aiutare i ragazzi, provenienti da famiglie economicamente in difficoltà, ad essere preparati per inserirsi attivamente nella società.

La scuola, a suo dire, deve offrire a tutti le stesse opportunità. La scuola deve garantire un servizio pubblico.

Il termine merito intrecciato a disciplina sembrerebbe essere quasi una contraddizione, un ossimoro, in quanto il merito per sua natura valorizza i talenti naturali, mentre la disciplina impone regole che vanno osservate, per cui sovrapporre merito e disciplina, nell’immaginario collettivo, potrebbe voler significare mortificare la “creatività/libertà individuale”.

Recenti indagini sulla società ci dicono che le famiglie fanno sempre più fatica a dare regole certe ai propri figli, manifestando in ciò una palese difficoltà nel “richiedere” che esse vengano rispettate.

La scuola, a sua volta, purtroppo non è da meno. Specchio e anello debole della società, non riesce a svolgere quel ruolo “educativo” che le è proprio, associandolo al ruolo che svolge nell’istruzione.

Il rischio è trasmettere alle giovani generazioni una errata percezione del significato del termine disciplina a scuola, intesa per lo più come rispetto pedissequo di regole, le quali a volte possono essere disattese o se sanzionate potrebbero avvalersi di deroghe e di giustificazioni pedagogiche.

Eppure trasmettere agli studenti il significato profondo della parola “diritti” non può prescindere dal precisare quello relativo ai “doveri”.

E’ possibile che ai ragazzi nell’incertezza pedagogica degli adulti vengano trasmessi messaggi equivoci e fuorvianti, in una terra dei diritti sempre più estesa e in quella dei doveri sempre più ridotta, una sorta di terra di nessuno in cui l’individualismo prevale a discapito della collettività.

Katharine Birbalsingh, come accennato precedentemente, descrive le attività della scuola che dirige e punta a sottolineare come la mancanza di regole rifletta una scarsa attenzione da parte dei docenti, nei confronti del comportamento degli studenti, ma ciò, soprattutto, priva i ragazzi delle norme basilari a una civile convivenza e compromette il livello complessivo dell’istruzione.

Un adulto, che non sa come comportarsi, fa fatica a costruire relazioni, perché ha mancato una fase della crescita educativa, per cui non solo non sa rapportarsi con la realtà, ma non riesce neppure a controllare responsabilmente i propri comportamenti perché privo degli strumenti di lettura della realtà circostante.

L’apparente democrazia mascherata da “comprensione” da parte dei docenti, sempre più propensi a considerare la mala educazione come il lecito diritto delle turbolenze adolescenziali o dei tempi che cambiano, è solo un pretesto per camuffare con la tolleranza pedagogica un certo disinteresse verso il mandato educativo, riconoscendosi impotenti.

Katharine Birbalsingh afferma, inoltre, che a remare contro corrente, non seguendo le mode pedagogiche, si rischiano le critiche e si compromette il quieto vivere, ma si tutelano i ragazzi in un sistema scolastico che ha a cuore la crescita degli studenti[1]. La vera cattiveria a scuola, dichiara Katharine Birbalsingh, è l’eccessiva compassione da parte di alcuni docenti verso i comportamenti inaccettabili dei ragazzi e che, in determinati contesti, solo la scuola può fare la differenza. La formazione per quei ragazzi è affidata esclusivamente alla scuola, “deludere” le aspettative di crescita mascherandole di compassione rivela atteggiamenti di impotenza da parte degli adulti o peggio ancora mancanza del senso della professione docente.

Il magister svolge per qualsiasi ragazzo un ruolo fondamentale, sia nella crescita culturale, sia in quella personale e chiedere conto a ciascun alunno dei livelli di apprendimento e del comportamento che ha scuola, senza abbassare l’asticella, non solo non è “democratico” ma diventa fortemente emarginante e razzista.

Un difetto ricorrente della scuola italiana di oggi è mancare il compito educativo compromettendo la crescita culturale, personale e sociale. La società della Conoscenza[2] investe la scuola di un compito cruciale, istruire i ragazzi perché la conoscenza assume un ruolo fondamentale nella competitività sociale, politica ed economica, ed è proprio grazie al sapere, che si può intervenire nei processi di vita degli uomini in modo che la ricerca e l’innovazione siano costitutive della crescita.

L’istruzione e, quindi, l’educazione possono/devono fare la differenza, intervenendo sui divari territoriali e sviluppando le responsabilità di ciascuno, trasmettendo valori e senso del dovere verso la collettività.

Discutere sulle didattiche innovative e le strategie metodologiche può essere importante ma la vera domanda, su cui la preside della Michaela Community School di Londra pone l’accento, rimane: Il docente deve essere un facilitatore o guidare l’apprendimento?

Tutto ciò rimanda al problema della formazione dei docenti e del reclutamento, con il rischio di sviluppare nei docenti pratiche schizofreniche.

Gli insegnanti si ritrovano sempre più spesso a inseguire quanto i pedagogisti affermano nei corsi ma, allo stesso tempo mancando una adeguata formazione didattica sia in itinere sia strutturata, solo pochi sono in grado di metabolizzare le strategie didattiche, costruendo strumenti di analisi per misurare l’efficacia. Nella formazione si naviga a vista e quella offerta istituzionalmente è molto carente, più basata sulla prassi burocratica che su effettivi modelli di pratiche scolastiche misurabili, così i più volenterosi rischiano la frustrazione e di certo la scuola è destinata a mancare il mandato educativo per cui esiste.

Una attenta riflessione è d’obbligo nella scuola di oggi, lo impone il futuro delle giovani generazioni, lo richiede una società sempre più in crisi, lo affermano le varie indagini nazionali o internazionali.  La verità può fare sentire a disagio ma è la verità che rende liberi Se vuoi aiutare qualcuno digli la verità se vuoi aiutare te stesso digli quello che vuole sentirsi dire, queste le conclusioni di Katharine Birbalsingh, citando Thomas Sowell[3].

[1] E. Cresson –Insegnare e apprendere -Verso la società conoscitiva – 1995

[2] Consiglio Europeo -Lisbona 2000-

[3] T. Sowell –Knowledge and Decisions -1996.

Sebastiana Fisicaro Già dirigente tecnico. Formatrice per Invalsi e Indire. Coordinatrice Rete SOPHIA 3.0.

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  • Ricordo una mia digressione recente sulle diverse “educazioni” in campo e sulla necessità che ne venga superata la loro fittizia e surrettizia distinzione per passare attraverso una salutare fase di descolarizzazione progressiva in funzione della contemporanea costruzione dell’educazione diffusa che le ricompone, le sintetizza superandole mirabilmente. Scrive Paolo Mottana coideatore del Manifesto della educazione diffusa: “Quindi, se si vuole cambiare, il primo passo è FARE FUORI LA SCUOLA (ndr: così come è intesa ormai da qualche secolo) reimmettere bambini e ragazzi nel tessuto della vita reale facendo sì che questa vita reale, la nostra -DI NOI ADULTI- cambi e sia in grado di accoglierli e accompagnarli. Che il disegno dei nostri territori cambi, in modo da poterli ospitare mentre crescono verso la LORO AUTONOMIA, e non assorbendo il sapere che alcuni ritengono utile per loro per inserirsi al più presto nel mondo del lavoro. Per assicurargli, con L’EDUCAZIONE DIFFUSA che alcuni veri rivoluzionari della CONTROEDUCAZIONE hanno messo a punto, di individuare i LORO TALENTI, i LORO DESIDERI, e dare forma alla LORO VITA.”

    https://www.cairn.info/revue-le-telemaque-2016-1.htm
    Nella presentazione, su di una rivista universitaria francese “Le Télémaque”, di un Dossier denominato proprio “L’ educazione diffusa”, dotto e interessante dal punto di vista teorico, Didier Moreau, docente di filosofia ed educazione all’Università di Paris 8, disquisisce sui concetti di educazione formale, non formale ed informale evocando perfino Cicerone e Platone mentre rammenta un primo utilizzo en passant del termine “educazione diffusa” da parte dell’UNESCO in una accezione riduttiva di mera educazione informale, per giungere alla determinazione, fluttuante ancora nelle nebbie della dissertazione filosofica, che l’educazione diffusa è quella che provoca gli choc emotivi e li rende fonti di apprendimento. Si afferma infatti che non è solo la struttura formale che rende possibili i saperi e alimenta i ricordi e la memoria in funzione educativa: “L’esperienza forma e rende attenti e partecipi a tutto ciò che forma.” Questo pare essere in definitiva uno slogan sottotraccia dell’educazione incidentale per aree di esperienza che porta direttamente all’educazione diffusa come la intendiamo noi.
    “Se la famiglia e la scuola sono sempre stati considerati i luoghi per eccellenza dove bambini e bambine, ragazzi e ragazze, acquisiscono una formazione, nella idea di educazione diffusa si decide invece di esplorare un particolare aspetto dell’educazione che prescinde da queste istituzioni: l’incidentalità guidata. Ecco allora che le strade urbane, i prati, i boschi, gli spazi destinati al gioco, gli scuolabus, i bagni scolastici, i negozi e le botteghe artigiane si trasformano in luoghi vitali capaci di offrire opportunità educative straordinarie. Questa istruzione informale, non formale e incidentale, in una unica parola e idea, “diffusa”, volta alla creatività e all’intraprendenza, rappresenta una concreta alternativa a un apprendimento strutturato, programmato e chiuso in genere tra quattro mura che risponde più alle esigenze dell’istituzione e del docente che alle necessità del cosiddetto discente. Si configura così un approccio al tempo stesso nuovo e antico alle conoscenze in grado di fornire un’efficace risposta a quella curiosità, a quel naturale e spontaneo bisogno di apprendere, che sono alla base di un’educazione autenticamente libera ed autonoma, seppure guidata per i saperi da figure come i mentori e gli esperti (trasformazione virtuosa dei maestri e degli insegnanti affiancati da chi nel territorio possiede e usa saperi diversi e complessi che non si apprendono senza esperienza).
    Proprio nella stessa rivista Le Télémaque è uscito uno studio dedicato all‘educazione diffusa, concetto che ricomprende le accezioni dell‘istruzione, (o dressement come direbbero in Francia) della formazione etc.): https://www.cairn.info/revue-le-telemaque-2021-2-page-161.htm

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    https://www.cairn.info/revue-le-telemaque-2016-1.htm
    Nella presentazione, su di una rivista universitaria francese “Le Télémaque”, di un Dossier denominato proprio “L’ educazione diffusa”, dotto e interessante dal punto di vista teorico, Didier Moreau, docente di filosofia ed educazione all’Università di Paris 8, disquisisce sui concetti di educazione formale, non formale ed informale evocando perfino Cicerone e Platone mentre rammenta un primo utilizzo en passant del termine “educazione diffusa” da parte dell’UNESCO in una accezione riduttiva di mera educazione informale, per giungere alla determinazione, fluttuante ancora nelle nebbie della dissertazione filosofica, che l’educazione diffusa è quella che provoca gli choc emotivi e li rende fonti di apprendimento. Si afferma infatti che non è solo la struttura formale che rende possibili i saperi e alimenta i ricordi e la memoria in funzione educativa: “L’esperienza forma e rende attenti e partecipi a tutto ciò che forma.” Questo pare essere in definitiva uno slogan sottotraccia dell’educazione incidentale per aree di esperienza che porta direttamente all’educazione diffusa come la intendiamo noi.
    “Se la famiglia e la scuola sono sempre stati considerati i luoghi per eccellenza dove bambini e bambine, ragazzi e ragazze, acquisiscono una formazione, nella idea di educazione diffusa si decide invece di esplorare un particolare aspetto dell’educazione che prescinde da queste istituzioni: l’incidentalità guidata. Ecco allora che le strade urbane, i prati, i boschi, gli spazi destinati al gioco, gli scuolabus, i bagni scolastici, i negozi e le botteghe artigiane si trasformano in luoghi vitali capaci di offrire opportunità educative straordinarie. Questa istruzione informale, non formale e incidentale, in una unica parola e idea, “diffusa”, volta alla creatività e all’intraprendenza, rappresenta una concreta alternativa a un apprendimento strutturato, programmato e chiuso in genere tra quattro mura che risponde più alle esigenze dell’istituzione e del docente che alle necessità del cosiddetto discente. Si configura così un approccio al tempo stesso nuovo e antico alle conoscenze in grado di fornire un’efficace risposta a quella curiosità, a quel naturale e spontaneo bisogno di apprendere, che sono alla base di un’educazione autenticamente libera ed autonoma, seppure guidata per i saperi da figure come i mentori e gli esperti (trasformazione virtuosa dei maestri e degli insegnanti affiancati da chi nel territorio possiede e usa saperi diversi e complessi che non si apprendono senza esperienza).
    Proprio nella stessa rivista Le Télémaque è uscito uno studio dedicato all‘educazione diffusa, concetto che ricomprende le accezioni dell‘istruzione, (o dressement come direbbero in Francia) della formazione etc.): https://www.cairn.info/revue-le-telemaque-2021-2-page-161.htm

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