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Dirigenti scolastici e la riforma del Collegio docenti – pt. 1

Pubblicato il: 11/10/2016 08:23:41 -


Il Dirigente scolastico, figura fin dalle origini sospesa in una ambiguità irrisolta e proiettata verso una dimensione sempre più managerial-amministrativa.
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Per lunghi mesi il dibattito intorno ai Dirigenti scolastici (Ds) ha caratterizzato il confronto politico e professionale nella scuola e sui media. Per un concorso, forse anche in parte involontario, di cause diverse, i Ds sono diventati il segno distintivo di una legge che si appresta ora a vivere la sua fase più delicata ed importante. Al Miur infatti, ferve l’attività per chiudere i testi delle deleghe che dovranno essere oggetto di parere da parte delle competenti commissioni parlamentari.

In questi mesi, ciò che il governo intendeva fare sui Ds, è intanto diventato norma in via di attuazione. Il Ds si ritrova con due nuove prerogative ( che sono poteri e responsabilità): la cosiddetta “chiamata diretta” dei docenti e l’autorità salariale sulla premialità dei docenti. Sull’una e sull’altra questione, come è noto, si sono sommate crescenti complessità (le precisazioni e garanzie definite nel corso della contrattazione sindacale sulla mobilità, poi smentita dal MIUR e il comitato di valutazione che fiancheggia il ds) che tuttavia non modificano il dato di fondo: la figura del ds non è più quella che avevamo conosciuto.

Si potrebbe aggiungere che la novità è anche la valutazione dei Ds, novità “solo” di fatto, dal momento che sul piano giuridico la norma esiste da lungo tempo.Tutto ciò per sottolineare che la valutazione non può essere letta come “contrappeso” ai nuovi poteri. Modifiche pesanti dunque e per dirla con Gianni Carlini, responsabile nazionale della struttura di comparto della Flcgil, “sbagliate, contraddittorie,controproducenti,.”

(convegno di Torino 2015).

Si tratta di un giudizio ovviamente politico: queste modifiche spingono sensibilmente la figura del Ds, dalle origini sospesa in una ambiguità irrisolta, verso una dimensione sempre più di tipo managerial-amministrativa.Si aggiunga a questo, la progressiva dilatazione della dimensione delle “unità scolastiche”; scenario che benchè talvolta contestato da alcune organizzazioni sindacali, sembra non incontrare particolari resistenze tra gli interessati. E si capisce: in tempi di blocco contrattuale, le indennità di reggenza non sono poca cosa per chi le percepisce ma anche questo concorre a rafforzare la linea governativa e la sollecitazione a caratterizzare sempre più il lavoro nella dimensione manageriale ed amministrativa. Con un netto dissenso verso questa linea di marcia, la Flcgil, insieme a gruppi ed associazioni di diverso tipo, ha optato per una scelta senza precedenti: ricorrere allo strumento del referendum abrogativo. Non so, e forse mi è sfuggita, quale sia stata la riflessione che ha informato questa scelta: il salto dalla democrazia di mandato alla democrazia referendaria è enorme e tocca la natura del sindacato, del suo ruolo, del suo futuro. Avendo una certa anzianità, mi sovviene un solo referendum sostenuto dalla CGIL, in anni lontani. Era segretario Luciano Lama e ricordo che non fu entusiasta dell’ impresa. Ma i tempi certo sono profondamente mutati. Oggi anche la CGIL si misura con nuove dinamiche di partecipazione democratica: basti pensare ai quesiti referendari per modificare i punti ritenuti più dannosi del Jobs-act o la raccolta di firme a sostegno di una legge di iniziativa popolare per una nuova Carta dei diritti del lavoro.

Non c’è dubbio che insieme alla ricerca di nuove esperienze di partecipazione, questa nuova dinamica sia stata alimentata da una strategia lampante di marginalizzazione e riduzione del ruolo del sindacato nella società italiana, condotta in prima persona dal governo e dal presidente del Consiglio Renzi. Al punto che io non riesco a capire come un partito che esplicitamente vuole riconoscersi nella tradizione del socialismo europeo, possa assumere come un tratto della sua identità programmatica, la sistematica svalutazione del ruolo del sindacato in Italia. Indubbiamente il sindacato ha una storia densa anche di limiti ed errori ma se i ceti più svantaggiati hanno potuto migliorare la propria condizione e se la democrazia, nel nostro Paese, ha retto di fronte anche a momenti molto difficili, è perché il sindacato ha saputo svolgere una funzione nazionale di grande rilievo. Certamente la crisi della politica non si è fermata fuori dalle sedi sindacali e forse molto più forte dovrebbe essere la spinta a un processo profondo di rinnovamento della pratiche democratiche e delle strategie rivendicative del sindacato. Ma anche dentro questi limiti , il sindacato confederale resta una grande organizzazione con un rapporto quotidiano profondo con i contesti territoriali e le persone.

Ignorare questo dato o peggio, schernirlo, significa concorrere al degrado della vita civile e sociale del Paese, in una illusoria e perdente apologia della politica. Significa anche aprire spazi pericolosi alla rissosità sociale, alla rabbia, alle spinte più incontrollabili o, ad ogni modo, al crescere sotterraneo di insoddisfazione, malessere, chiusura in se stessi e crescita dell’antipolitica. Questo può accadere se si demoliscono le strutture intermedie della società. Farebbe bene allora il premier e segretario del PD, a trovare un po’ più di tempo per qualche momento di riflessione sulla situazione della scuola. Anch’egli se ne è accorto: qualcosa, sembra affermare, non ha funzionato. E in effetti è proprio così. Se si osservano i dati di fondo della vicenda scuola in questo biennio, si resta quasi sbalorditi.

La scuola è uscita dal tunnel disastroso Gelmini-Tremonti con una velocità inaspettata. Tra stabilizzazioni e nuove assunzioni, ogni prospettiva più rosea di ripresa occupazionale è stata raggiunta e certo non solo per spinta della Corte di giustizia europea. Il premier ha voluto giocare una partita importante e incredibilmente lo ha fatto di fronte a una destra allo sfascio, attonita, neppure in grado di capire quel che stava succedendo sotto i propri occhi.

Se a questo aggiungiamo il bonus ai diciottenni, il bonus ai docenti per l’autoformazione e la cultura, le risorse per la premialità, le risorse per l’edilizia scolastica, emerge un quadro che sul piano delle risorse segna una svolta netta con il passato. Ma la gestione del processo è stata fallimentare. Si è voluto tenere fuori il sindacato, il mondo delle associazioni professionali e della accademia, puntando tutto sul ruolo esclusivo del premier e , in termini di gestione, sulla macchina ministeriale. Che si è impegnata, senz’altro, ma tra fasi in successione, algoritmi, ricorsi e qualche svarione, ha prodotto non poca confusione. Ma soprattutto dal ministero non è emersa l’anima di questa nuova politica scolastica. La legge 107 non ha trovato un Ministro in grado di rappresentarla, di presentarla al mondo degli insegnanti e alla società civile , un Ministro capace di attivare le risorse intellettuali e professionali per dare senso alla politica scolastica.

La scuola è di fronte a sfide straordinarie: la crisi dell’europa, il malessere dei giovani, l’immigrazione, il bisogno di un profondo rinnovamento della didattica a tutti i livelli, il rapporto tra scuola-formazione e lavoro, le nuove domande degli adulti, la crescita delle disuguaglianze; c’è tutto questo ed altro nell’orizzonte della scuola e abbiamo passato mesi a polemizzare su nomine, trasferimenti, concorsi e ricorsi.

Questo vuoto, insieme alla ostinazione a lavorare senza o contro le organizzazioni sindacali, ha condotto alla situazione che è sotto gli occhi di tutti. Una macchina che va alla cieca, tra mille problemi grandi e piccoli di gestione, ricorsi e lamentele; un diffuso senso di scontento e smarrimento tra il personale delle scuole. Paradossalmente le scuole si ritrovano con più docenti e più risorse di prima ma senza un progetto, una politica, un quadro di obiettivi, un Ministro capace di indicare una mission per motivare dirigenti e docenti. Pensare che lo strappo sui dirigenti scolastici avrebbe potuto rianimare questo processo, si è rivelato illusorio e perdente. C’è dunque da augurarsi che il presidente del Consiglio rifletta su questa situazione per un cambio di passo.

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Dario Missaglia

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