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Dove sono finite le politiche lungimiranti per l’integrazione?

Pubblicato il: 19/06/2009 18:18:57 -


Un commento al regolamento sui centri provinciali per l'istruzione degli adulti recentemente varato dal governo.
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C’è qualcuno, con qualche conoscenza della realtà dell’immigrazione, che possa proporre a uno straniero che ha bisogno di imparare l’italiano un percorso formativo fatto di 400+200 ore? Un percorso finalizzato a un titolo, quello di scuola media, che può essere privo di qualsiasi attrattiva per chi, magari, ha già un diploma o una laurea? Evidentemente sì. Lo dimostra la pubblicazione del regolamento sui centri provinciali per l’istruzione degli adulti (CPIA), varato qualche giorno fa, insieme a quello dei licei, dal Consiglio dei ministri. Finora sono in pochi a parlarne, ma la gravità sociale e politica della decisione è evidente.

Il Ministero stesso non ne ha fatto cenno nei suoi comunicati stampa. E anche la politica, finora, ha guardato da un’altra parte. Eppure si tratta di un provvedimento che, per come è congegnato, potrebbe liquidare gran parte dell’offerta formativa (per la precisione il 42% degli attuali centri territoriali permanenti o CTP) per l’educazione degli adulti, e con essa una delle poche politiche lungimiranti per l’integrazione. Del resto, non sono a rischio solo gli stranieri. Il nuovo regolamento, che doveva finalmente designare istituti scolastici autonomi dedicati agli adulti, comprensivi anche dei corsi serali di secondaria superiore, è un testo doppiamente avaro. C’è l’avarizia imposta dalla politica, che è diventata la vera bussola di ogni decisione governativa sulla scuola pubblica. E c’è quella culturale, pedagogica, didattica, incapace di attribuire all’educazione degli adulti nella scuola finalità che non siano solo il conseguimento dei titoli formali dell’istruzione; e sorda alle indicazione dell’Unione Europea sul lifelong learning, sull’importanza cruciale dell’intreccio tra il formale, il non formale, l’informale, e sulla necessità di flessibilità e di modularizzazione dei percorsi.

A rischio, in questo quadro, e anzi chiaramente respinti dalle scuole pubbliche per adulti, sono dunque anche altre tipologie di utenti e di bisogni formativi. Quelli che riguardano i tanti, italiani e non, che vogliono imparare gli alfabeti del nostro tempo, l’informatica e le lingue; o che, pur in possesso dei titoli di scuola elementare e media (il regolamento recita esplicitamente che l’iscrizione è ammessa solo a chi ne è privo), vogliono recuperare o rafforzare le competenze di base, la lettura, la scrittura. Sono milioni: non sono solo anziani che a scuola ci sono andati prima del consolidamento dell’obbligo di istruzione a 14 anni, anche persone più giovani che hanno avuto esperienze scolastiche, e di vita, difficili. Basta guardarsi intorno, come fanno molti CTP, per scoprirli, orientarli, appassionarli con corsi adatti, flessibili, strutturati per moduli, di letteratura, arte, scienze, storia, economia. E poi i giovanissimi drop out che si possono rimettere in pista e recuperare all’apprendimento solo con percorsi misti di istruzione, orientamento, formazione professionale, come fa, meglio di ogni altra esperienza di integrazione, il progetto Polis del Piemonte che in qualche anno ha portato al diploma o alla qualifica diverse centinaia di giovani adulti, italiani e stranieri.

Educazione degli adulti? Scuole della seconda opportunità? Formazione libera? I nomi sono diversi, ma è in questa articolazione dell’offerta che insegue e risponde alla pluralità dei bisogni, la cifra e il successo (più di 400.000 iscritti l’anno) dei nostri CTP. E sono proprio queste esperienze più mature e più evolute quelle che, dal 2010, rischiano di uscire dalla comune. In una situazione, assai diversa da quella dei paesi europei capaci di prendere sul serio il lifelong learning, che in molte realtà territoriali non offre alternative altrettanto diffuse e competenti.. Ciò che resta è un’assimilazione dell’offerta dei CTP al modello dei corsi serali della scuola secondaria superiore, dove la flessibilità si riduce, tranne poche esperienze di eccellenza, a una riduzione della durata dei percorsi (il 30%, secondo il Regolamento). Un modello tutt’altro che vincente, se si guarda all’esiguo numero di iscritti, poco più di 65.000, sgranati su cinque classi, e all’altissimo tasso di abbandoni.

Completa il quadro una previsione di organico, negata in via di principio a ogni ipotesi di flessibilità e modularità, perché basato non sul numero degli iscritti, ma su quello (la serie storica?) di quelli che hanno conseguito certificazioni formali: in alcune realtà, neppure la metà dei frequentanti. Un vero e proprio capolavoro. Ovviamente si tenterà ancora, almeno nelle situazioni più forti, di trovare spiragli evolutivi. Si dovrà lavorare, meglio che in passato, a costruire nuove modalità di certificazione delle competenze già acquisite e di scomposizione/ricomposizione modulare. Si potranno, forse, sviluppare nuove alleanze con enti locali, regioni, imprese. Ma lavorare contro corrente è sempre difficile.

Siamo lontanissimi, un altro mondo, dall’accordo in Conferenza Unificata del 2000. E perfino dalle potenzialità dell’ordinanza ministeriale del 1997.

Per approfondire:
Il regolamento dei Centri per l’istruzione degli adulti

Fiorella Farinelli

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