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Cara integrazione, ti rispondo

Pubblicato il: 02/03/2011 17:30:05 -


Inclusione e sostegno. Luigi Marchese, insegnante di sostegno, risponde all’articolo “Meno sostegno più inclusione” di Claudio Imprudente, in cui l’autore sostiene che sia “assurdo che già alla scuola dell’infanzia venga considerata imprescindibile per il bambino una figura di sostegno”.
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LUIGI MARCHESE A CLAUDIO IMPRUDENTE

“Egregio sig. Claudio Imprudente,
le scrivo perché ho avuto il (dis)piacere di leggere il suo articolo sul ‘Messaggero di Sant’Antonio’ di gennaio. (…)Vorrei spiegarle perché, secondo me, la sua è una visione alquanto miope di quella che è davvero la realtà dei fatti. (…) Il campo dell’integrazione scolastica deve necessariamente prevedere interventi mirati, attraverso progetti e politiche quotidiane che coinvolgono tutto il personale operante nella scuola, ma anche gli Enti territoriali e le famiglie (…). Probabilmente la sua è una concezione datata del ruolo, secondo la quale il/la maestro/a di sostegno è una persona, più o meno preparata (…) che è pagata per assistere un solo bambino disabile al quale dovrà trasmettere una serie di acquisizioni di base; con modalità del tutto differenti rispetto a quelle utilizzate per il resto della classe; anzi meglio se lo faccia, concretamente, fuori dalla classe… Credo che questa non sia la sua visione d’insieme, ma, per scongiurare tali luoghi comuni, devo citare la legislazione scolastica che parla non di insegnante di sostegno del bambino, bensì di ‘insegnante di sostegno della classe’; della quale detiene la ‘contitolarità’ con gli altri insegnanti. Insegnare ad apprendere, insegnare a vivere, insegnare a convivere: per raggiungere tali obiettivi la scuola è uno strumento determinante, ma non solo per chi è in difficoltà, in quanto questi sono obiettivi formativi di ogni essere umano e risultano più facilmente raggiungibili in presenza di una situazione di handicap, che rappresenta un’esperienza altamente formativa, che l’insegnante di sostegno si appresta a mediare, affinché la ‘diversità’ non venga vissuta e interpretata come ‘differenza’ ma come unicità! (…) La invito a visitare le mie classi, a seguire una mia giornata lavorativa: potrà capire veramente che per me il bambino con disabilità è, prima di tutto, un BAMBINO, con gli stessi e identici bisogni e diritti di tutti gli altri. Solo dopo viene la sua disabilità! E che il mio non è un grigio rapporto con un semplice ‘utente’ o addirittura con un anonimo ‘numero’…!

Luigi Marchese”

CLAUDIO IMPRUDENTE A LUIGI MARCHESE

Egregio sig. Luigi Marchese,
sono pienamente d’accordo con quanto riporta nella sua lettera e non vedo una contraddizione insanabile tra il contenuto dei suoi pensieri e i miei. Conosco i dati legislativi ed esperienziali che lei mi ricorda; devo precisare, però, che sono il destinatario di tantissime lettere in cui viene messo in risalto il divario tra le prescrizioni normative e la realtà dei fatti, per cui quello che dovrebbe essere il ruolo dell’insegnante di sostegno non trova possibilità di applicazione pratica secondo quanto previsto dalla legge. Con tutto quello che questo gap comporta sia per l’insegnante di sostegno, sia per l’alunno e la classe “sostenuti”. Stesso discorso per la collaborazione tra insegnanti, enti, famiglie: se questa fosse effettiva e diffusa, non ci sarebbe niente da dire, ma è certo che la situazione sia davvero questa? Come prima, dalle parole delle persone con cui mi capita di intrattenere rapporti epistolari e dagli incontri che la mia attività di formatore mi permette di avere, mi arrivano informazioni non proprio rassicuranti. Se sulle premesse e sul modo di intendere il ruolo dell’insegnante di sostegno siamo d’accordo, divergiamo su un punto, ovvero sul peso che diamo allo scarto tra realtà e “teoria”, “legge”. Quanto alla questione del “numero”, nell’articolo non si intendeva dire che il rapporto dell’insegnante di sostegno con l’alunno disabile sia in genere distaccato, freddo, ma che esiste una differenza “innata” tra il rapporto extrascolastico e quello che può applicare l’istituzione al singolo, ancora prima che inizi la relazione tra alunno e docente. Infatti la sig.ra Trombetta non lamentava una relazione malsana tra sua figlia e l’insegnante, ma, ancor prima, la difficoltà a sottoporre all’attenzione istituzionale la sua richiesta. In tutto questo non c’entra niente la professionalità (e il ruolo previsto dalla legge) dell’insegnante di sostegno, né si intendeva sostenere che l’assegnazione di un insegnante di sostegno sia l’applicazione di un’etichetta sul bambino disabile o che porti all’oscuramento delle abilità e alla sottolineatura del deficit. La mia riflessione si esercitava sulla legittimità della richiesta della sig.ra Trombetta, sulle conseguenze che l’accettazione della stessa, e del principio che la sottende, comporterebbe e al miglioramento, in termini di integrazione, che potrebbe garantire.

Claudio Imprudente

LUIGI MARCHESE A CLAUDIO IMPRUDENTE

“Caro sig. Imprudente,
innanzitutto la ringrazio per l’attenzione e il tempo che mi sta dedicando e colgo l’occasione per scusarmi qualora il tono della mia lettera precedente le fosse sembrato un tantino ‘duro’: non era quella la mia volontà; men che meno farlo verso chi, come lei, sulla tematica del rispetto della diversità non solo ha competenze, ma è un esempio di vita…! Se a volte mi spingo un po’ ‘sopra le righe’ è perché sono veramente innamorato della mia professione e ogni giorno mi spendo affinché anche ai miei bambini arrivi forte il riflesso della mia intensa passione. Come lei ben saprà quella degli insegnanti è una categoria, purtroppo, spesso bistrattata e snobbata (di sicuro non da persone come lei) e questo mi addolora molto. Al tempo stesso, tuttavia, devo ammettere che se ciò accade è anche un po’ colpa nostra, o meglio di tutto un cattivo funzionamento e raccordo tra diversi anelli amministrativi, di difficili coordinamenti tra vari enti ed istituzioni: insomma concordo a pieno sulle sue perplessità sul divario tra ‘teoria’ e ‘pratica’. Potrei portarle tutta una serie di esempi di ‘mala gestione’ di situazioni che orbitano attorno all’handicap: vedi i GLH (gruppi di lavoro per l’handicap) dove, durante l’anno scolastico, le varie componenti e tutte le figure educative che si occupano del bambino si incontrano e dovrebbero confrontarsi e delineare le strategie educativo-didattiche più idonee rispetto alla sua problematica. Uso il condizionale perché spesso le figure medico-professionali che intervengono (solitamente neuropsichiatri infantili o psicologi) anziché dare indicazioni più precise, con un taglio clinico della problematica e quindi suggerire all’insegnante metodologie da poter utilizzare, si limitano ad ascoltare le nostre relazioni sulle diverse situazioni, registrare gli ‘umori’ della famiglia del bambino e andar via, senza fornirci strumenti concreti e spendibili nella nostra relazione con il fanciullo. O ancora la compilazione dei P.D.F. (profilo dinamico funzionale) un documento ove si registrano le difficoltà legate a ciascun area (sensoriale, psico-motorie, mnestica, linguistica ecc.) e si indicano le strategie da adottare per il futuro. Tale documento, come sicuramente lei ben saprà, dovrebbe essere redatto (PER LEGGE!) da tutte le ‘parti in causa’: genitori, insegnanti (di sostegno e non), specialista dell’ASL, operatori scolastici che eventualmente intervengono (assistenti educativi ecc.), eventuali terapisti dell’extra scuola (logopedisti, psicomotricisti ecc.). Ho usato nuovamente il condizionale, perché la trasposizione reale di tale situazione vede (quasi sistematicamente) solo ed esclusivamente l’insegnante di sostegno ‘relegato’ a tale impegno nonostante, alla fine, tutte le componenti vi appongono la propria firma…! Personalmente non ho problemi e timori ‘reverenziali’ a confrontarmi con documentazioni dove si approfondiscono molte tematiche quasi a livello medico, visto che (e non lo dico per falsa modestia) ho una formazione, per così dire, abbastanza ‘robusta’ che mi consente di avere conoscenze e di far fronte anche a situazioni che vanno al di là del campo strettamente professionale dell’insegnante di sostegno; ma molti colleghi che non posseggono tali acquisizioni (e non sono obbligati a farlo) si ritrovano in una situazione di difficoltà creata, a monte, dal mancato rispetto di una chiara norma legislativa.

Insomma, caro sig. Imprudente, questo nostro chiarimento ci ha fatto scoprire di convergere su molti punti; anche perché sarei un’ipocrita se dipingessi solo una realtà rosea e felice: questi problemi sono oggettivamente riscontrabili e sotto gli occhi di tutti. Però, come ormai avrà ben capito, mi piace evidenziare anche le ‘cose che funzionano’, soprattutto quelle legate al lavoro dell’insegnante, e ritengo giusto farlo proprio per evitare che a far notizia siano solo le storture e le negatività, mentre non si dia rilievo a chi, ogni giorno fa (bene) il suo dovere. È per questo che, prima di salutarla, le racconterò brevemente una storia personale che va annoverata di sicuro tra le cose belle e positive intrinseche al mondo della scuola.

L’anno (scolastico) scorso ebbi la fortuna di approdare in quella che è ancora oggi la mia attuale scuola (dico fortuna perché è davvero una bella realtà, dove si lavora bene anche grazie alle doti del nostro dirigente). È un circolo didattico molto grande e comprende tre plessi diversi: io itinero su due. Uno di questi sorge in una zona della città considerata socialmente a rischio. La classe in cui avrei dovuto operare era una terza, composta da 19 alunni ognuno dei quali aveva alle spalle una situazione familiare delicatissima. Per loro la scuola era (ed è) il tempo e lo spazio in cui hanno e si riconoscono come identità: fuori di lì, nelle loro case, quei bambini devono far fronte, quotidianamente, a problematiche da adulti…! Tanto era stato fatto, fin lì, dalle mie colleghe curriculari per creare un’omogeneità e degli equilibri che spesso venivano minati dagli umori dei bambini per le difficoltà che lasciavano in famiglia prima di entrare a scuola la mattina. In questo contesto era stato segnalato (l’anno precedente) un caso di dislessia e disgrafia: dopo le visite dell’ASL locale e l’accettazione della problematica da parte dei genitori, a P. è stato concesso il sostegno. Il bambino aveva un attaccamento affettivo molto forte verso la figura materna, la quale, tra l’altro, non aveva ‘metabolizzato’ a pieno la difficoltà del figlio: pur percependo che si trattasse solo di una problematica legata alla letto-scrittura, la viveva come una ‘macchia’ che rendeva il suo bambino (intelligentissimo) ‘diverso’ dagli altri. Prima dell’inizio della scuola, perciò, convocai più volte i genitori di P., con i quali ebbi degli incontri a scopo ‘distensivo’, per far sì che elaborassero (soprattutto la madre) al meglio la situazione del proprio figlio: spiegai loro che la dislessia non è un deficit ma un disordine qualitativo, che è una problematica che investe limitatamente alcune funzionalità, dalla quale si migliora (seppur non si ‘guarisce’) e con la quale si convive tranquillamente, senza che essa vada ad inficiare aree cognitive particolari e soprattutto senza che (se affrontata con la giusta modalità) impedisca e comprometta un buon andamento scolastico e un’affermazione culturale e lavorativa del soggetto dislessico (d’altronde anche Einstein era dislessico…).

Se forse avevo portato a casa un primo risultato, e cioè quello di tranquillizzare i genitori (per lo meno la mamma aveva smesso di piangere quando pronunciava la parola ‘dislessia’…!), ora c’era da vincere la partita più importante: evitare che P. soffrisse il peso di questa nuova figura che l’avrebbe dovuto accompagnare.

Lui è, infatti, un bambino molto sensibile, introverso, già cosciente delle sue difficoltà nella letto-scrittura e sofferente nel confronto con i compagni: capire di avere un insegnante di sostegno avrebbe avuto solo come risultato quello di una chiusura ulteriore in se stesso e con la sua problematica, accentuando ai suoi occhi il divario tra lui e i suoi compagni di classe. Se dai primi giorni di scuola io mi fossi seduto costantemente affianco a lui, non avrei fatto altro che destabilizzarlo ulteriormente. Per questo, in pieno accordo e sintonia con le colleghe di classe, sono stato presentato ai bambini come un nuovo maestro che era lì per aiutare e stare insieme a tutti gli alunni. Naturalmente, per confermare ai loro occhi tale impostazione, ho attivato una serie di strategie: ad esempio girare continuamente tra i banchi e soffermarmi su chiunque ne avesse bisogno; introdurre insieme alla collega di turno, argomenti di italiano, matematica, storia ecc, o addirittura spiegare e interrogare solamente io in alcune circostanze; quando decidevo di dover fare dei lavori specifici e individuali per P., organizzavo dei piccoli lavori di gruppo o comunque lo portavo fuori dalla classe sempre insieme a qualche altro bambino ecc.

Insomma, per non dilungarmi troppo, ancora oggi, dopo due anni, nessun bambino ha intuito o ha mai affermato che io sono l’insegnante di sostegno di P., tutti si sono legati tanto a me e mi ritengono il ‘loro maestro’. P., da par suo, è migliorato tantissimo, non solo dal punto di vista della letto-scrittura, ma anche sull’aspetto emotivo: si è aperto molto di più con compagni e insegnanti, soffrendo meno il suo disagio interiore.

In tutto questo, la mia gratificazione più grande, oltre naturalmente ai progressi di P., è quella di poter espletare a pieno la vera natura e funzione del mio ruolo: essere l’insegnante di sostegno non del singolo bambino ma della classe!

Ringraziandola per il tempo e l’attenzione che vorrà dedicarmi e soprattutto per lo spazio che ha deciso di concedere già alla mia precedente lettera, le dico che, qualora avrà voglia di proseguire in qualche modo questa nostra corrispondenza, sarò lieto di raccontarle altre storie che, sicuramente, fanno bene alla realtà scolastica e danno giusto spessore e valore alla mia categoria.

Cari saluti.

Luigi Marchese”

Il confronto non si arresta: scrivete a claudio@accaparlante.it o sul mio profilo di Facebook.

Claudio Imprudente

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