Home » Politiche educative » Sguardi che dialogano intervista a Mauro Palma

Sguardi che dialogano intervista a Mauro Palma

Pubblicato il: 13/09/2023 07:29:39 -


Print Friendly, PDF & Email
image_pdfimage_print

Quest’anno la relazione al Parlamento viene nel momento in cui si conclude il tuo mandato di garante delle persone private della libertà, si tratta come al solito di un testo importante, carico di riflessioni su quanto accaduto e realizzato nel corso del tuo lavoro e ricco di indicazioni per chi dovrà raccoglierne gli insegnamenti per … andare avanti, si spera.

1) Mi ha colpito molto il ragionamento che apre la relazione 2023 in cui sintetizzi il valore non solo simbolico di questo consueto appuntamento perché proprio qui, di fronte al Parlamento, “il Garante ha il privilegio di poter dare voce a tutte quelle realtà che è istituzionalmente chiamato a vedere, osservare e considerare nella loro problematicità”.  Ti posso chiedere allora di indicare sinteticamente in che modo, nei sette anni trascorsi, hai operato per rendere queste voci afone e questi luoghi invisibili presenti e percepibili, pezzi non cancellabili delle complessità in cui vive oggi una comunità sociale che vuole continuare a costruirsi come democratica e rispettosa dei diritti di tutti e tutte?

È vero: considero un privilegio la possibilità negli anni del mandato di rivolgermi direttamente, in un giorno specifico, al Parlamento e alle massime autorità del Paese. Questo perché credo nella funzione parlamentare, individuando in quel luogo, in quell’Assemblea, la sede della potenzialità discorsiva dell’agire democratico; non è questo un mio sguardo passatista, quasi d’antan, superato dagli eventi e dalla situazione attuale, perché è dettato invece proprio dal necessario recupero della distinzione costituzionale dei poteri nonché delle specificità di ciascuno di essi. 

La funzione legiferante, infatti, propria del Parlamento, ha il compito di tenere sempre in dialogo due parametri per non cadere nel rischio dell’inutilità della norma prodotta o in quello simmetrico della sua connotazione restrittiva delle potenzialità della comunità a cui si rivolge. Il primo parametro è quello della legalità definibile come formale che comporta la necessità di riconoscere il valore che si vuole tutelare, l’adeguatezza dello strumento legislativo in discussione a rispondere a questo fine, la vitalità del precetto nella dinamica interpretativa che non va confusa con la vacuità o la non tassatività di quanto adottato. Il secondo parametro è la legittimità della situazione che l’applicazione della norma può produrre o che si è sperimentato abbia prodotto. Legalità e legittimità dialogano ma spesso la distanza che le separa è molto forte: non sempre l’applicazione di precetti legali, secondo modalità legalmente corrette, determina una complessiva legittimità dell’esito prodotto. La privazione della libertà è un banco di prova privilegiato, per esempio, per stabilire se ci sia una divaricazione tra questi due parametri: l’applicazione di provvedimenti restrittivi, ciascuno legalmente adottato sul piano formale può determinare una condizione della persona a cui sono applicati non legittima sul piano sostanziale, perché ne limita in modo inaccettabile le potenzialità vitali.

Bene, il compito di un’Autorità di garanzia dei diritti è proprio la valutazione della concreta situazione vissuta da una persona e, quindi, della legittimità complessiva – ben diversa da quello del magistrato che si rivolge, prevalentemente, alla legalità dei provvedimenti. 

Il rivolgersi al Parlamento vuol dire accendere un faro su questa discrasia che è talvolta dirompente e informare il Parlamento su ciò che separa intenzioni, discussioni preliminari, rifinitura dei testi – quantomeno di quelli non approssimativi a cui ci siamo recentemente abituati – dalla concretezza attuativa. 

So bene che si può obiettare che la funzione parlamentare si è recentemente affievolita e, come taluni evidenziano, si è accentuata una funzione di ratifica di provvedimenti adottati in sede governativa: i numeri evidenziano questo rischio e più richiami del Presidente della Repubblica vanno in questa direzione. Tuttavia, è compito di chi ha un ruolo istituzionale, seppure limitato a un ambito specifico quale è quello del Garante nazionale, ripartire sempre dall’ottimismo della ricerca continua della pienezza applicativa della nostra Carta.

Da qui, il privilegio dell’evidenza e del richiamo. Il privilegio dell’allocuzione annuale si inserisce, comunque, in un dialogo continuo, quantunque consultivo e non vincolante, in fase di elaborazione delle norme che coinvolgono la restrizione o la privazione della libertà personale e non posso negare che spesso le osservazioni siano state considerate dalle diverse Assemblee parlamentari – ben tre – con cui il Garante nazionale si è confrontato in questi anni. Resta per me un obbligo di etica laica di dover mettere a frutto al massimo il privilegio del rivolgermi annualmente al Parlamento e alle massime Autorità. Quindi, di rivolgermi sempre con spirito costruttivo.

2) Dimmi se forzo in modo improprio il tuo pensiero. Facendo riferimento alla Costituzione e al suo rapporto con “l’agire politico”, evochi l’evoluzione della cultura dei diritti e la necessità di costruire “una tessitura culturale in positivo divenire”; qui colgo una leggera insofferenza per una politica che, al massimo, si accontenta di “registrare l’esistente limitandosi ad assecondarlo”. Ti stai riferendo a qualche problema, a qualche momento particolare, a qualche “persistente criticità” di cui la nuova Legislatura deve essere edotta in termini di “attese e necessità di intervento”? potresti esplicitare questo passaggio?

Ricordo ancora il mio stupore a Strasburgo, nelle prime settimane del mio precedente incarico come componente e poi Presidente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura, quando osservavo che taluni altri membri attribuivano all’aggettivo politician un valore negativo, dispregiativo. Per me aveva invece un valore positivo perché indicava un impegno e una competenza disciplinare, proprio perché ritenevo il ‘far politica’ non soltanto un impegno nobile, ma anche un impegno che richiedeva studio, competenza, oltre che una dose di sacrificio della propria individualità, anche nell’organizzazione di tempi e giornate. Non ero solo – allora – a pensarla così. Ma nel tempo ho visto che una semantica diversa si faceva largo anche nel mio Paese e che era adottata sempre più anche da settori amicali a me vicini. Era una semantica in negativo. Mi sembra di leggerne una causa e due conseguenze, anche se mi limito a un frettoloso accenno, dal momento che persone ben più competenti di me hanno scritto sul declino dell’agire politico, così come questo era inteso fino a qualche decennio recente.

Sulla causa, il frantumarsi della dimensione collettiva nell’organizzazione del lavoro e della composizione sociale è stato determinato e, a sua volta, ha determinato il venir meno di movimenti di organizzazione collettiva, di lettura comune di bisogni non limitati a propri spazi angusti e in grado di relazionarsi tra loro. Non solo, ma la funzione disgregativa di movimenti settoriali – pur esistenti – operata scientificamente in questi anni dal grande stream informativo ha determinato una politica svincolata dalla positiva dinamica del conflitto e della crescita culturale, soprattutto su temi difficili, per riservarsi invece lo spazio del continuo inseguimento di presunte richieste sociali. Una politica che abiura sul piano costruttivo e si limita a recepire supposte richieste. Sul piano delle libertà e delle difficoltà questo processo determina l’affannosa ricerca di assecondare una mai esaudita richiesta di sicurezza e l’altrettanto affannosa ricerca di soluzioni presuntamente semplici a problemi complessi. Lo stesso aggettivo complesso è diventato fastidioso e rifiutato.

È lontano il tempo in cui il nostro Paese – e il Parlamento in particolare – non fermava il percorso della grande riforma di abolizione dei manicomi a seguito delle tragiche vicende della primavera del 1978 e tale riforma porta, infatti, la data del 13 maggio 1978, quattro giorni dopo il drammatico ritrovamento del cadavere di Aldo Moro. Né si fermava il percorso della correlata riforma che introduceva il Servizio sanitario nazionale, approvata alcuni mesi dopo.

Se è vero che la ricerca continua e preventiva dell’umore positivo della collettività votante è accentuata dalla frequenza delle scadenze elettorali e della continua attenzione al sondaggio preventivo, è altrettanto vero che tale distorsione introduce di fatto un principio ancora diverso da quello della legalità e della legittimità, costituito dalla consensualità, senza affrontare minimamente il percorso difficile dell’innalzamento continuo della consapevolezza democratica.

Sappiamo bene che sul piano generale questa tendenza caratterizza quel fenomeno comunemente indicato col termine populismo. Sul piano penale, esso continua a determinare una vacua richiesta di maggiore penalità, quasi che sia questa la garanzia di sicurezza, di maggiore carcere, più forte durezza nei confronti di chi subisce il ‘meritato castigo’.

Nella Relazione al Parlamento del giugno scorso ho così evidenziato come i numeri dell’area di intervento di natura penale siano andati crescendo – passando da un’estensione che nel 2016 era di 98854 persone alle attuali 137366, tra coloro che sono in carcere e coloro che sono in misura alternativa – mentre, contemporaneamente, i reati di maggiore gravità sono andati diminuendo (gli omicidi volontari, per esempio, sono diminuiti nello stesso periodo del 25 percento, l’associazione mafiosa del 36 percento, le rapine del 33 percento).

Non solo, ma si è accentuata la debolezza sociale di gran parte delle persone recluse: più di 1500 persone sono attualmente ristrette in carcere per scontare una condanna inferiore a un anno e altre circa 2800 per una condanna tra uno e due anni: sono numeri che interrogano la collettività perché certamente quel tempo recluso è mera sottrazione di tempo vitale peraltro destinata a ripetersi in una sorta di serialità che vede alternarsi periodi di libertà e periodi di detenzione con un complessivo inasprimento della marginalità soggettiva.

Sono i risultati di quella volontà di richiudere, di non vedere e di sentirsi apparentemente rassicurati che, come molti hanno indicato, la versione populista della penalità porta con sé.

3) Nel corso di un anno è il titolo della prima parte del rapporto, il calendario delle attività svolte dal garante nazionale, nel contesto di eventi, accadimenti nazionali e internazionali. Uno spazio importante è riservato ad incontri formativi rivolti alle diverse Unità in cui si articola l’Ufficio del Garante. Quale è stato il filo conduttore di questi confronti, soprattutto di quelli che si sono realizzati in relazione a momenti e fatti drammatici, così gravi da mettere, quasi, a rischio garanzia e tutela dei diritti?

 

Non vi è dubbio che proprio la connotazione di costruttore continuo di democrazia e non di mero fustigatore di abusi che abbiamo cercato di dare al ruolo del Garante nazionale comporti l’accentuazione sull’importanza della formazione di chi opera in questi difficili contesti. 

Il complessivo consenso che questa affermazione determina non deve però trarre in inganno: troppi sembrano a volte attribuire una sorta di valore salvifico alla ‘formazione’ senza entrare minimamente su cosa porre dietro a questo termine, formulato invece in modo evocativo. Innanzitutto, va posta la sua non limitazione al periodo iniziale, perché deve indicare – come è ovvio per chi professionalmente si occupa proprio di dare significato a questo termine – un processo continuo e contestualizzato che faccia dell’esperienza stessa e delle difficoltà un motore di riflessione e di conoscenza; così anche degli errori da non leggere come fallimento da nascondere. Inoltre, il processo formativo deve realizzarsi reticolarmente dando la possibilità di condividere quanto vissuto e di riesaminarlo anche con i propri pari, sebbene guidati da chi ne ha la responsabilità di orientamento. Infine, sul piano dei contenuti, occorre dare centralità alla capacità di diminuzione delle potenzialità microconflittuali, di allentamento di tensioni, evitando il rischio di fronteggiare con impropria simmetria gli episodi e gli attori che possano innescarli.  Questi e altri aspetti mancano totalmente nella richiesta di formazione che accompagna ogni episodio negativo, così come manca la riflessione sulla relazione antitetica tra quanto discusso nei momenti formativi ufficiali e il discorso pubblico esterno che si sviluppa attorno agli stessi temi.

Proprio a partire da questa carenza ho voluto sviluppare programmi formativi – e conseguenti progetti specifici – con le Forze dell’ordine: con l’Arma dei Carabinieri in particolare, poi con la Polizia di Stato e, in parte con quella penitenziaria meno disponibile ad accettare contributi esterni in grado di confutare le sottoculture interne. Per esempio, attorno al tema delle modalità operative per l’attuazione dei rimpatri forzati le persone che operano nell’Ufficio del Garante nazionale hanno partecipato come uditori alle sessioni di formazione delle scorte che realizzano le varie fasi di tali complesse operazioni. Questo, proprio in considerazione del mandato istituzionale del Garante nazionale di monitoraggio di tali operazioni e per comprendere i diversi punti di osservazione di azioni condivise sul piano attuativo, ma con ruoli diversi. I Rapporti redatti dai monitor del Garante nazionale dopo le operazioni sono stati così oggetto di analisi e discussione in momenti formativi successivi e anche di eventi di discussione pubblica.

Più complesso è sempre il tema del ricorso all’uso della forza e della rispondenza del suo impiego ai parametri legittimanti, riassumibili nella necessità, nella proporzionalità e nell’adozione come misura estrema. Si tratta di un tema che non riguarda soltanto le Forze dell’ordine perché spesso alcuni strumenti contenitivi vengono utilizzati anche in contesti diversi, quali quello sanitario e talvolta assistenziale. 

Il limite che separa la capacità di valutazione effettiva di tali parametri vincolanti da una tendenza a risolvere rapidamente situazioni critiche è spesso – molto, troppo, spesso – veramente labile. Si finisce col riscontrare a volte un’interpretazione dell’articolo 54 del codice penale relativo allo «stato di necessità» non come una causa oggettiva di esclusione della configurabilità di un reato e quindi della sua punibilità, bensì come una modalità preventiva di pianificazione di un intervento. Perché diverso è stabilire che si è agito, appunto, per necessità, sulla base di una valutazione che si è sviluppata nello svolgersi di un’azione, dal pianificare preventivamente e in modo quasi routinario tale ricorso per giustificare ex ante la modalità d’intervento che si attuerà. Troppo spesso, per esempio, abbiamo riscontrato che il ricorso alla contenzione in strutture sanitarie, soprattutto di natura psichiatrica, era registrato con lunghe sequenze dell’indicazione «sn», quasi come pratica di routine, senza ulteriori specificazioni. Soprattutto senza quella tutela di riserva di giurisdizione che la Costituzione pone per ogni forma restrittiva della libertà personale.

Un tema, quindi, su cui sviluppare formazione non soltanto con le Forze dell’ordine, ma con tutti gli operatori che si misurano con persone vulnerabili, a volte non prevedibili sul piano reattivo, e in contesti spesso difficili. Tuttavia, all’interno dei percorsi formativi sviluppati con Carabinieri e Polizia di Stato, il tema ha avuto recentemente una rilevanza specifica. Il nodo è sempre il rischio di ricorrere a strumenti troppo ‘impattanti’ in contesti risolubili in altro modo – e, quindi, il venir meno del limite tra il ricorso legittimo all’impiego della forza e l’affermarsi di prassi risolutive ‘rapide’. L’attualità è stata data da alcuni casi di impiego della pistola a emissione di scarica elettrica – nota come taser – in situazioni in cui si è fatto uso di tale strumento, introdotto come «arma non letale» e, quindi, destinato alla riduzione dell’impiego di strumenti letali, in situazioni in cui mai l’agente avrebbe fatto ricorso a un’arma classica; forse avrebbe impiegato più tempo, sarebbe stato aiutato da altri colleghi o avrebbe dovuto prospettare altre strategie.

Proprio nelle settimane scorse un giovane che era in evidente stato di agitazione in un piccolo centro della provincia di Chieti è stato prima colpito con i ‘dardi’ del taser e poi sedato farmacologicamente dagli operatori sanitari d’urgenza intervenuti. La persona è morta: sarà l’indagine in corso a stabilire le modalità di ciascuno di questi interventi e la loro rispondenza a quanto legalmente previsto; come Garante nazionale ho però ritenuto «doveroso affermare con chiarezza che non è accettabile che l’operazione per ricondurre alla calma una persona in evidente stato di agitazione e, quindi, di difficoltà soggettiva, si concluda con la sua morte». 

La semplificazione e la banalizzazione della presunta necessità caratterizzano spesso, sui mezzi di informazione, i commenti attorno a episodi che giungono alla cronaca e che riguardano il chiaro superamento di quel confine che separa l’uso legittimo della forza e l’impiego della violenza. Il carcere ne ha fornito diversi esempi durante questi anni del mandato del Garante nazionale.

Si può, tuttavia, partire da un elemento positivo: spesso le stesse inchieste avviate dagli organismi ispettivi del singolo Corpo di appartenenza hanno contribuito all’esito delle indagini. Subito a fianco occorre però mettere un’osservazione grave: mai le denunce sono partite dall’interno; al contrario frequentemente si è registrato un errato concetto di colleganza – di non denuncia del proprio collega – che ha sfiorato l’omertà.

Per esempio, abbiamo visto tutti le immagini di umiliazione e violenza alla Casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere. Tralascio il facile commento sulle inaccettabili affermazioni di solidarietà con gli indagati fatte da taluni esponenti politici, pur con ruolo istituzionale, all’indomani dell’avvio dell’indagine della Procura e sulla loro incidenza formativa. Del resto, affermazioni facilmente smentite dalle immagini di lì a poco rese pubbliche. Mi soffermo invece sul periodo successivo agli eventi: quell’Istituto nel giorno seguente. Coloro che sono subentrati al turno di lavoro successivo, dopo quegli eventi, non solo i poliziotti, ma anche gli educatori, gli operatori sanitari, i medici, il personale amministrativo: tutti si saranno certamente resi conto di quanto avvenuto, tale era la situazione di complessivo disastro. Eppure, nessuno ha sporto denuncia. Nessuno. Nonostante che molti di loro fossero pubblici ufficiali; taluni addirittura operatori di polizia giudiziaria.

Questo silenzio è, a mio giudizio, di una pesantezza e di una gravità analoga – o forse maggiore – di quella che caratterizza l’azione violenta stessa; perché è indicativo di un substrato culturale fondato su un falso concetto di appartenenza, di un nocciolo duro da sconfiggere e non leggibile con quella rassicurante rappresentazione di talune ‘mele marce’ in un contesto di un sano frutteto, che viene propinata nei commenti successivi a eventi di questo tipo. Non è una questione numerica; è piuttosto l’indicatore di una carenza di formazione soprattutto sul proprio ruolo, sulla propria fisionomia di attore in nome della collettività, guidato nell’operare dalla Carta che tale collettività tiene coesa.

Questa è la carenza maggiore che il Garante nazionale ha constatato in questi anni del proprio mandato: la mancanza di quella che gli anglofoni chiamano accountability e che noi dobbiamo riassumere in più parole che vanno dalla responsabilità, al rispondere delle proprie azioni, al riconoscere il proprio ruolo come parte di un ordinamento e non come singolo che opera simmetricamente a chi delinque o esercita violenza. Una carenza la cui responsabilità non può essere ristretta solo a chi opera in questi luoghi e in questi contesti perché si estende alle culture della nostra collettività, spesso compiacenti con il coprire quando la vittima era responsabile di reati. Sono queste culture ad aver tollerato per più di settanta anni che l’unica indicazione penale incisa negli articoli della nostra Costituzione – quella che recita «è punita ogni violenza fisica o morale sulle persone sottoposte a restrizioni di libertà» non trovasse adeguata effettività, non prevedendo una specifica fattispecie penale che punisse la tortura, neppure dopo decenni di ratifica di Convenzioni per il suo bando. Da qui la necessità di rivolgermi al Parlamento proprio su questo tema; per la responsabilità che esso porta con sé – non certamente l’attuale Assemblea parlamentare, ma l’Istituzione legiferante in quanto tale – per tale inadempienza e per il dovuto richiamo che nessun passo indietro su questo tema è possibile.

Questa ricostruzione culturale è, quindi, un percorso formativo di lento e lungo sviluppo, che deve opporsi ai ‘venti contrari’, quale è stata la reazione di taluni esponenti – anche qui con ruolo istituzionale – a episodi come quello dell’umiliazione e della violenza più recente, a Verona, che di fronte a immagini dirompenti di persone offese nella dignità oltre che nel corpo da chi agisce in nome di tutti noi, hanno reagito offrendo subito la via di fuga: modificare la fattispecie incriminatrice, cioè proprio il recente reato di tortura. Vengono in mente alcune parole di Hannah Arendt ne Le origini del totalitarismo «non [è] la perdita di specifici diritti, ma la perdita di una comunità disposta e capace di garantire qualsiasi diritto la sventura che può abbattersi su una società». Le ho ricordate rivolgendomi per l’ultima volta al Parlamento, perché proprio questa appartenenza collettiva che comporta il riconoscimento dell’essere comunità, come base per riconoscere diritti che rischia di perdersi in questi anni. 

4) Per quanto riguarda la specifica condizione di privazione della libertà dei migranti, al di là della sacrosanta denuncia, che esprimi, circa la strumentale rozzezza, perfino del linguaggio usato nella rappresentazione pubblica dei vari aspetti del fenomeno migratorio nel nostro paese, dai una attenzione importante al nuovo Patto per la migrazione e l’asilo ; potresti brevemente indicare in che senso, forse, si sta avviando un percorso di ricerca per la definizione di linee di azione positivamente condivise?

La questione dei migranti e della loro presenza irregolare e talvolta illegale nel nostro Paese è tema che, nella sua continua fluttuazione numerica, si pone oggi, dopo un’estate densa di arrivi, in modo anche più incisivo di quanto non fosse nei giorni del maggio scorso in cui preparavo la Relazione al Parlamento. Partiamo da alcuni aspetti per me essenziali. 

Il primo è la questione del linguaggio che non è soltanto un indicatore della rozzezza del dibattito pubblico sul tema perché è un costruttore di politiche a livello locale, centrate su processi di non integrazione che tendono a rappresentare la persona migrante come esterna e ostile e che si estendono poi anche alla non piena accettazione di persone di generazioni successive alle migrazioni originarie, ormai pienamente appartenenti al nostro Paese anche sul piano del riconoscimento amministrativo: l’indicazione giornalistica dell’origine non italiana di un autore di reato nonostante la sua piena cittadinanza italiana è un rilevatore di questa sottolineatura di diversità. Proprio per questo, l’affermazione della Corte di Cassazione (16 agosto 2023, Terza sezione) che ha definitivamente espunto la parola clandestino dalla possibilità del linguaggio giuridico per indicare chi giunge in modo irregolare nel nostro Paese è una affermazione culturalmente importante, atta a distinguere il nascondimento dalla irregolarità dettata dal bisogno. Qualcuno ha voluto leggerla come vezzo linguistico dettato dall’inseguimento della correttezza formale, mentre invece è un monito per tutti.

Il secondo aspetto essenziale nell’affrontare la privazione della libertà delle persone migranti – perché soltanto sotto questo profilo, quale Garante nazionale, ho legittimità a interessarmi – riguarda il vuoto del tempo che viene trascorso all’interno dei luoghi dove vengono trattenuti, hotspot o Centri di permanenza per i rimpatri (Cpr). Sono configurabili come luoghi di detenzione amministrativa, non coperti però da effettiva tutela giurisdizionale, poiché nessuna Autorità giudiziaria vigila sul tempo che vi si trascorre e sulle relative condizioni. Neppure sono coperti da quella implicita tutela che può venire dall’apertura allo sguardo esterno, perché nessuno e tanto meno la stampa può avervi accesso se non dietro particolare permesso prefettizio.  Né sono luoghi dove sia possibile elaborare la propria sconfitta, perché tale è l’essere ristetti in essi in attesa di una espulsione, con il sussidio di un supporto assistenziale o anche informativo. Restano spazi vuoti e sordi dove attendere l’esito del venir meno di una speranza riposta nell’originaria ricerca di un ‘altrove’ rispetto al proprio mondo. L’anonimia che caratterizza le persone ristrette, la difficoltà di contatto con i propri affetti, l’ininfluenza delle proprie storie e la sistematica negazione del significato del tempo che trascorre determinano uno stato di perenne tensione interna, spesso esplosivo e una volontà di distruzione dei luoghi stessi quali rappresentazione plastica, concreta della propria progettualità fallita. Sono luoghi che di per sé offendono la dignità della persona ospitata, al di là dell’impegno a volte visibile da parte di alcuni operatori nel tentare di offrire qualcosa e anche al di là delle stesse condizioni materiali, spesso inaccettabili, in cui si è ristretti.

Il terzo aspetto è il passaggio, ormai inevitabile e non solo a livello italiano, da un approccio sostanzialmente emergenziale, quasi si tratti di un tema destinato a scomparire dall’agenda europea e come tale da affrontare con provvedimenti che si susseguono affannosamente, a una strutturazione strategica che tenga insieme il dovere di accogliere, quello di aiutare a rimuovere la cause del dover partire e anche il dovere di aiutare le comunità locali a comprendere la positività anche in termini di sicurezza di una integrazione ordinata, solidale, controllata.

Questi tre aspetti hanno costituito lo sguardo del Garante nazionale verso la drammaticità di popolazioni costrette a emigrare e le difficoltà delle comunità locali a inserire. Ben sapendo che al di là delle affermazioni volte a garantire una facile spendibilità elettorale e del loro tono roboante, gli esiti non mutano, nonostante il cambiamento di impostazioni concettuali del quadro politico: gli arrivi aumentano, i rimpatri sono pochi e costosi, l’accoglienza in grandi Centri determina maggiore difficoltà per tutti. Ciò che cambia – a volte drammaticamente – è la sofferenza delle persone.

Del resto, la parola emergenza non compare mai nella nostra Carta e l’aggettivo eccezionale vi compare soltanto in pochi articoli per attenuare l’esercizio di particolari poteri, quali il privare della libertà o legiferare per decreti. La parola solidarietà compare invece subito: al secondo articolo e nelle sue determinazioni economiche, politiche e sociali. È bene ogni tanto ricordarlo.

5) Il problema della salute come diritto ti porta a ricostruire un aspetto importante del ruolo del Garante in relazione ai luoghi di “connotazione sanitaria e socioassistenziale”, come li indichi, in cui le persone possono essere ristrette: le Rems, ma non solo. Non ti chiedo di affrontare questo enorme problema, ma solo di indicare sinteticamente aspetti e situazione in cui si evidenzia bene la necessità di garantire, proprio in queste realtà, la piena applicazione del dettato costituzionale

Ho parlato di solidarietà rispondendo alla precedente domanda. Ma questa dimensione si applica a tutti i settori di azione di un’Autorità di garanzia – quale è quella che ho presieduto per più di sette anni – che deve vigilare sulla tutela dei diritti fondamentali delle persone più vulnerabili rispetto all’effettività di quanto riconosciuto e affermato dalla Costituzione. Perché sono persone private della capacità o della possibilità di determinare il proprio muoversi, il proprio agire, il disporre del proprio tempo.

L’attenzione alle situazioni residenziali, sanitarie o socioassistenziali è stata una dimensione del lavoro del Garante nazionale forse non immaginata dallo stesso Legislatore nel redigere la norma iniziale. Ben chiara però, sul piano internazionale, agli estensori del Protocollo opzionale delle Nazioni Unite alla ‘Convenzione contro la tortura e gli altri trattamenti o pene crudeli, inumani o degradanti’. Si tratta di uno strumento di diritto internazionale che ha avuto una lunga gestazione e ha riprodotto a livello globale l’esperienza attuata in ambito europeo con la ‘Convenzione sulla prevenzione della tortura’, alla cui redazione diede un sostanziale contributo Antonio Cassese: tutelare attraverso la possibilità di andare a vedere, di essere intrusivi, di entrare senza richiesta di autorizzazione. Il Protocollo prevede che ogni Paese che lo ratifichi – e l’Italia lo ha fatto alla fine del 2012 – debba prevedere una propria istituzione indipendente, denominata Meccanismo nazionale di prevenzione (Npm) che abbia illimitato accesso, senza autorizzazione o altro, a qualsiasi luogo dove una persona possa trovarsi privata della libertà, de iure o de facto, da parte di un’Autorità pubblica o di chi agisce sulla base di una funzione pubblica; che abbia accesso alla relativa documentazione e che possa avere con chi è ristretto colloqui riservati. Nell’indicare cosa si intenda per «privazione della libertà personale» il Protocollo indica semplicemente, ma inequivocabilmente «l’impossibilità di lasciare quel luogo sulla base della propria volontà»; non aggiunge altro, non l’esistenza di un atto specifico ricorribile. 

L’Italia ha indicato il Garante nazionale come proprio Npm e da qui si è aperta la via verso l’attenzione crescente alle residenzialità chiuse; a quei ricoveri a volte iniziati volontariamente e proseguiti però senza lo specifico consenso; a volte adottati dal Giudice tutelare su proposta dell’Amministratore di sostegno, con il rischio che il sostegno si traduca in sostituzione della volontà della persona. Non sono numeri banali: sono 12630 i presidi residenziali socioassistenziali e sociosanitari, per un totale di più di 400mila posti letto e attualmente sono 305750 le persone anziane, autosufficienti o meno e le persone adulte o minori con disabilità in essi ospitate. Sono situazioni di cui si sono talvolta interessati anche gli organi d’informazione e che si sono accentuate nel periodo di chiusura di tali residenze per motivi di profilassi nel periodo del Covid. Ma, come sappiamo e come si è verificato dal punto di vista scientifico e da quello dell’accertamento giudiziario, sono stati luoghi ove la sofferenza dell’isolamento non ha neppure determinato l’impermeabilità al rischio di contagio; bensì il contrario. 

Nel rivolgermi al Parlamento negli ultimi due anni ho sottolineato come sia «doverosa una complessiva riflessione sul sistema in sé delle residenze sanitarie assistenziali che sono nella maggior parte dei casi strutture private accreditate; nonché sui criteri di accreditamento che proprio perché calibrati sull’organizzazione a stanze e relativo numero di letti, a cui si aggiunge qualche ambiente comune, hanno finito col configurarsi nel periodo dell’impossibilità di attività comuni per il rischio di contagio, in qualcosa di simile a piccoli reparti ospedalieri, dove il letto diveniva il ‘luogo’ della giornata, peraltro trascorsa in assenza di figure esterne». 

La sfida che il Garante ha voluto porre e dovrà continuare anche con il futuro nuovo Collegio è sempre il «sostegno all’autonomia», ricordando che tutti devono contribuire al potenziamento dell’autodeterminazione, anche di quel margine limitato che in taluni casi può apparire meramente residuale, ma che costituisce il germe del riconoscimento dei diritti di ogni persona.

 

Grazie sempre per quello che fai, che ci insegni e continui ad insegnarci. Non ti chiedo quindi in conclusione di fare un bilancio dei sette anni da garante, perché mi pare di leggerlo nella citazione di Hannah Arendt, che chiude la parte introduttiva della tua relazione: «non [è] la perdita di specifici diritti, ma la perdita di una comunità disposta e capace di garantire qualsiasi diritto la sventura che può abbattersi su una società» e per questo il primo diritto, che l’umanità deve garantire, è l’appartenenza a essa. 

Vittoria Gallina

95 recommended

Rispondi

0 notes
1120 views
bookmark icon

Rispondi