L’Italia e il muro alle riforme
Tra stagnazione e cambiamento, tra vecchie pratiche e riformismo: lo sguardo analitico dell’autore sulla situazione dell’educazione universitaria nel nostro paese.
Il contesto italiano non è tra quelli che preferisco analizzare, soprattutto per una caratteristica: la sua atavica propensione alla conservazione.
Al di là delle classi politiche e amministrative succedutesi negli anni, questo sembra essere un dato strutturale.
È dunque estremamente difficile rilevare degli elementi che vadano nel senso del policy change.
Gli unici tentativi riusciti si sono avuti da parte di veri e propri imprenditori di politiche che hanno sfruttato delle finestre di opportunità che si ponevano loro davanti.
Storicamente, tuttavia, il quadro che sembra delinearsi è quello di uno stallo e della presenza di un doppio livello nell’elaborazione delle proposte riformatrici: uno informale, ove ottime idee, spesso provenienti anche dalle best practices internazionali, si formulano e si propongono; e un altro più formale, che ha a che fare con la cristallizzazione di norme e assetti di potere immutabili da decenni, i quali rendono de facto molto faticosa una riforma del sistema di educazione universitaria.
Si tratta di quello che è stato definito in diversi casi internazionali un “implementation gap”, che nella specificità italiana è sistematico e riguarda anche altri ambiti di policy.
Le ragioni di questa situazione di stallo storico sono, a mio modo di vedere, individuabili in tre fattori:
– innanzitutto la maggior parte degli attori del settore dell’higher education italiana è assai resiliente al cambiamento, e tradizionalmente votata a un mantenimento dello status quo;
– in secondo luogo la società italiana percepisce ancora il mondo universitario come sostanzialmente irrilevante;
– in ultimo, le politiche di higher education non sono mai state centrali nelle agende dei partiti politici, poiché non pagano in termini di consenso elettorale.
Dunque quanto detto prima ha portato alla conseguenza storica che, prescindendo dai cambiamenti apportati al settore durante il regime fascista, per i quaranta anni successivi al sistema di higher education vennero apportate soltanto modifiche marginali e minime.
In due casi questa continuità è stata rotta in modo deciso; si tratta delle due riforme di cui andrò ora a parlare.
La prima vera riforma di un certo peso ebbe luogo nel 1989, a opera del ministro Antonio Ruberti che agì in modo innovativo per iniziativa personale.
Egli fu l’artefice della Legge 168 nel 1989 e della 341 nel 1990, che segnarono l’inizio di un processo di innovazione legislativa che è durato a lungo.
Grazie a lui si ebbe l’istituzione di un nuovo ministero, quello dell’Educazione, con struttura centralizzata, ma che agiva come un’agenzia in grado di controllare l’implementazione delle direttive a livello periferico.
La caratteristica più importante di questa riforma, della quali a oggi non rimane che qualche frammento, è stato però l’aver segnato da un punto di vista normativo il passaggio da un sistema universitario centralizzato a uno basato sull’autonomia – fattore implicante, tra l’altro, per la prima volta la possibilità di entrata nel mondo universitario di capitali privati.
Tale riforma non ha tuttavia minimamente interessato il sistema di governance (organizzazione del processo decisionale e di governo in una data istituzione), il quale non è stato sostanzialmente cambiato.
La seconda riforma fondamentale in questo difficile percorso è stata quella messa in atto dal ministro Berlinguer nel 1999, in applicazione degli accordi del processo di Bologna.
Il decreto ministeriale 509 implementò il nuovo sistema pochi mesi dopo la dichiarazione (l’autunno successivo, la dichiarazione fu firmata in primavera).
Si trattò di una riforma radicale in controtendenza con la tradizione di politiche italiane nel campo, che mise fine al sistema universitario a ciclo unico, sostituendolo con il modello bachelor+master, (3+2).
Venne introdotto il sistema dei crediti formativi, e venne significativamente rafforzato il grado di autonomia dei singoli atenei, in linea con gli ordinamenti europei.
L’importanza di queste due riforme non è mai stata abbastanza riconosciuta e apprezzata nel contesto italiano, ed è stata, e anzi è ancora oggi, soggetta a critiche e tentativi di controriforma.
Questa è un’ulteriore dimostrazione di quanto sia difficile instaurare un percorso di cambiamento in un Paese che stenta ad avere nel suo DNA un’autentica cultura riformista e che preferisce, a tutti i livelli, il ritorno ai vecchi adagi e alle vecchie pratiche, anche quando questa malsana abitudine rischia di isolarlo sempre di più a livello internazionale; e di isolare di conseguenza sempre di più gli studenti italiani.
PER APPROFONDIRE:
• MIUR – Regolamento recante norme concernenti l’autonomia didattica degli atenei
• Looking for serendipity: the problematical reform of government within Italy’s Universities
***
Immagine in testata di Leo Reynolds / Flickr (licenza free to share)
Damiano De Rosa