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Istruzione e formazione: la galassia degli apparati

Pubblicato il: 15/05/2014 14:46:32 - e


Un’analisi attenta e dettagliata del reticolo burocratico(tra Stato, Regioni, Enti Locali e Scuole) che ha rallentato, e a volte bloccato, il buon funzionamento del sistema scolastico. Anche la revisione del Titolo V della Costituzione ha cambiato tutto per non cambiare molto.
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La revisione del Titolo V della Costituzione, diretta a creare un sistema multilivello meno conflittuale, e la spending review, come pilastro per il recupero di spese improduttive, costituiscono l’attesa occasione per riorganizzare e snellire gli apparati dell’istruzione.

Il principio costituzionale dell’autonomia delle istituzioni scolastiche giunse, nel 2001, al culmine di un lungo percorso, iniziato negli anni ottanta, che, in assenza di una legislazione di sistema, aveva visto estendersi un protagonismo scolastico particolarmente dinamico.
Sembrava, dunque, essere arrivati in quel breve arco temporale, tra la fine di un secolo e l’inizio di un altro, alla conclusione di una fase e al decollo di un’altra già consolidata negli assetti ordinamentali.
Non tutto è andato così, com’è noto, per una moltitudine di fattori – non ultimo l’aspra battaglia ideologica sulla scuola nel primo decennio di questo secolo –, ma ora, a distanza di tempo, e in una fase che si annuncia riformatrice, appare interessante esaminare uno dei principali fattori di resistenza: quello della rete degli apparati gestionali. Un’articolazione organizzativa a processi decisionali diffusi che, lungi dall’essere funzionale allo sviluppo dell’autonomia delle scuole, ha finito con l’essere invece funzionale solo al mantenimento di uno statu quo di scarsissima efficacia ed efficienza.
La pluralità degli enti e degli apparati che sono riusciti a ritagliarsi potestà e competenze in tema di organizzazione scolastica e curriculare – di fatto imbrigliando il dinamismo e l’innovazione che sono tipiche espressioni del principio di autonomia – ha certamente consolidato le singole maglie di quella rete, provocando, per altro verso, un effetto di disarticolazione del sistema d’istruzione e di formazione.
Gli apparati gestionali dell’istruzione e della formazione in Italia, in nome di un pur necessario decentramento amministrativo, hanno proliferato e frammentato le competenze con un allungamento dei processi decisionali e un aumento del volume di spesa improduttiva. Nel 1998 il decreto legislativo n. 112 fu in grado di fornire la configurazione delle attribuzioni, in tema d’istruzione, dello Stato, delle Regioni, delle Province e dei Comuni in una galassia di funzioni e competenze che successivi regolamenti hanno poi dettagliato a livello di uffici centrali, regionali e provinciali del Ministero dell’Istruzione.

1. La situazione attuale e i fattori di crisi

La riforma del Titolo V del 2001 – di cui oggi a buon diritto s’invoca la revisione – anche nel settore in questione ha deluso le aspettative, anzi le ha eluse.
Infatti, se con un passo avanti rispetto al precedente dettato costituzionale, ha fatto ricadere nella potestà legislativa esclusiva delle Regioni l’istruzione e la formazione professionale (art. 117), poi, di fatto, tale potestà non è stata mai esercitata, perché lo Stato ha confermato la sua legittimazione a intervenire con la legge Fioroni n. 40/20. Detta legge, in nome della diffusa quinquennalità dei percorsi educativi negli istituti professionali e del loro esito conclusivo con l’esame di Stato, ha saldato sul piano normativo l’istruzione professionale con l’istruzione tecnica.
Ordini di scuole che avrebbero potuto generare circuiti virtuosi con i corsi di formazione professionale regionali a tutto vantaggio delle fasce di studenti più deboli.
La soluzione data al problema ha aggirato il dettato costituzionale, allontanando ancora una volta il raccordo imprescindibile tra istruzione e formazione professionale. Si è trattato di un’occasione in parte mancata rispetto a due principali fattori:
– un più stretto coordinamento tra le politiche educative e le politiche formative, attraverso l’integrazione dei due sistemi indicata dall’art. 117 della Costituzione;
– la necessaria sinergia finanziaria e degli apparati, che avrebbe realizzato un’auspicata economia di scala a tutto beneficio del settore.
Se invece si fosse voluto rafforzare un sistema di governo multilivello bisognava anzitutto puntare su un radicale dimensionamento degli apparati dello Stato e degli Enti locali, avviando così nei tempi opportuni un processo ormai ineludibile.
Infatti, il risultato di questo spicchio di riforma del Titolo V è stato quello di cambiare tutto per non cambiare molto, se non in termini di revisione degli indirizzi di studio, che nel settore tecnico e professionale viene comunque periodicamente effettuato.

La potestà legislativa concorrente in tema d’istruzione – introdotta dalla legge costituzionale n. 3/2001, che riserva alla legislazione dello Stato la determinazione dei princìpi fondamentali – poteva poi rappresentare l’opportunità, anche per le Regioni, di azionare la “leva istruzione” nello specifico culturale e produttivo del proprio territorio.
Viene da pensare che nei vari snodi del sistema abbia prevalso la necessità della sopravvivenza degli apparati, intesa come loro prioritaria ragione sociale rispetto alle esigenze d’integrare i settori e renderli, con minore spesa, più efficienti e produttivi.



Con ciò evidenziando una sostanziale doppia natura degli apparati pubblici:
• senza la loro struttura non è possibile esplicare pienamente le funzioni amministrative;
• la loro struttura determina spesso una prevalenza su quelle stesse funzioni.
E questa prevalenza conduce inevitabilmente a una concentrazione sulle esigenze vitali dell’apparato in quanto tale.

Questa sembra essere la colpa esclusiva della burocrazia di fronte alle potenziali virtù della politica. Diciamo però che il mondo delle colpe e delle virtù è assai più variegato e nessuna lama ideologica può operare una separazione così netta.
Tanto più che l’ambizione della politica è stata sempre, con diversa intensità a seconda dei periodi, quella di creare delle protesi operative negli apparati statali, sotto diverse forme e sotto l’egida di una fitta selva di norme apparentemente di stampo privatistico, ma in realtà tutte dirette a ostacolare l’imparzialità prescritta dall’articolo 97 della Carta. Se la meritocrazia irrompesse nelle strutture degli apparati, le protesi e i comportamenti gattopardeschi sarebbero notevolmente ridimensionati.
La contiguità del burocrate, realizzata attraverso lo spoils system, può anche avere effetti positivi in tema di efficienza e di raggiungimento degli obiettivi fissati dal potere esecutivo, ma, se generalizzata, determina una confusione di ruoli destinata ad appannare proprio l’imparzialità della pubblica amministrazione, fattore ineludibile di garanzia della legittimità dell’azione amministrativa.

Ci sono oggi tre diverse linee d’intervento che offrono nuovamente l’occasione per riordinare taluni assetti: la spending review, l’abolizione delle Province (enti che hanno frammentato le competenze e aumentato le spese) e la riforma della riforma del Titolo V della Costituzione.

2. La spending review

La spending review è diventata l’elemento qualificante della politica economica dei vari Governi che si sono succeduti alla guida del Paese nell’ultimo triennio. Per l’attuale Esecutivo costituisce il pilastro più importante per il taglio delle tasse, considerato che consentirà di recuperare risorse per circa 32 miliardi di euro e di “spostarle dalla spesa improduttiva agli investimenti per la crescita e l’occupazione”. Inoltre, similmente a quanto già accade nella maggior parte delle democrazie occidentali, il processo di revisione dovrà essere assunto anche dalle PP.AA. come strumento ordinario e permanente di pianificazione dei programmi di spesa.

La spending review, che ha oggi un referente normativo nella legge 7 agosto 2012, n. 135 (di conversione del D.l. 95/2012), si pone sostanzialmente tre obiettivi: la modernizzazione dei processi di spesa pubblica, il contenimento dei costi e il miglioramento della qualità dei servizi pubblici offerti ai cittadini. Il raggiungimento di questi traguardi, ma soprattutto la necessità di rendere più sostenibili per la collettività i costi degli apparati, dipenderà in grandissima parte dalla capacità delle PP.AA. di auto-rinnovarsi e di auto-promuovere azioni di efficientamento complessivo della loro organizzazione.
In quest’ottica, le misure disposte, anziché essere percepite come minaccia, possono rappresentare una straordinaria opportunità di trasformazione dell’intera macchina pubblica e di rilancio della sua dirigenza. Difatti, il modello da esse prefigurato è quello di uno Stato/apparato decisamente più “leggero” da realizzarsi, fra l’altro, anche attraverso una più razionale allocazione delle sue funzioni a livello territoriale, con una progressiva eliminazione dei livelli di governo intermedi (Province) e l’accorpamento degli enti locali con popolazione sottodimensionata (piccoli Comuni). Ne deriva, in primis, che dalla spending review può (deve) scaturire l’avvio di un serio piano industriale di riorganizzazione strutturale innovativa delle amministrazioni pubbliche, all’interno del quale dovranno trovare logica e funzionale sistemazione il complesso d’interventi volto a:
– razionalizzare le risorse umane, strumentali e finanziarie;
– riallineare le funzioni svolte e i servizi erogati alla specifica “mission” di ciascuna struttura, cancellando sovrapposizioni, duplicazioni e diseconomie;
– implementare, sviluppare e diffondere l’utilizzo delle nuove tecnologie digitali per favorire maggiore trasparenza, partecipazione, rendicontazione sociale, accesso e facile fruibilità dei servizi.
Un piano industriale con il quale, evidentemente, si deve misurare anche il MIUR, cui spetta, oggi più che mai, la delicata responsabilità di ri-definire con chiarezza e certezza l’assetto del sistema dell’istruzione pubblica nel complicato intreccio di competenze tra Stato, Regioni, Enti Locali e Scuole.
Il punto di partenza indicato dai dispositivi di legge è la riduzione, in misura non inferiore al 20%, del numero degli uffici dirigenziali, anche di livello generale, e delle relative dotazioni organiche (art. 2, comma 1, lettera a, del citato D.l. n. 95 del 2012). Il previsto Dpcm (registrato dalla Corte dei Conti il 18 marzo 2013), con cui sono state disposte le riduzioni in esame per cinquanta amministrazioni, accogliendo la proposta del MIUR, ha prodotto il seguente risultato: rispetto alla dotazione organica prevista dal vigente regolamento di organizzazione (Dpr 20 gennaio 2009, n. 17), i posti di dirigente di prima fascia scendono da 34 a 27, mentre quelli di seconda fascia (inclusi i dirigenti con funzioni tecniche) da 672 a 413. Se si considerano anche le riduzioni del personale non dirigenziale, la dotazione organica complessiva del Ministero passa da 9475 a 6418 posti, con un taglio di poco inferiore ai 3000 posti.
I risparmi di spesa relativi al personale con qualifica dirigenziale sono immediati con riguardo al taglio dei posti di prima fascia, proiettati nel futuro per quelli di seconda fascia in quanto effettuato in prima battuta su posti attualmente non ricoperti, fatti salvi da subito, i minori oneri conseguenti alla riduzione del contingente degli incarichi dirigenziali a titolo fiduciario conferibili a esterni, da calcolarsi in percentuale alla nuova dotazione organica.
È evidente che queste misure di contenimento della spesa per il personale non siano neutre rispetto ai pregressi assetti di ciascuna organizzazione coinvolta e comportino di conseguenza la necessità di dimensionare le strutture in funzione delle diminuite consistenze organiche, salvaguardando l’efficienza dei servizi erogati. Tant’è che non solo è disposto che si dia luogo, con procedura semplificata rispetto a quella ordinaria, all’adozione dei rispettivi regolamenti di organizzazione, ma sono anche indicati i criteri generali da applicare:
a) concentrazione dell’esercizio delle funzioni istituzionali, attraverso il riordino delle competenze degli uffici, eliminando eventuali duplicazioni;
b) riorganizzazione degli uffici con funzioni ispettive e di controllo;
c) rideterminazione della rete periferica su base regionale o interregionale;
d) unificazione, anche in sede periferica, delle strutture che svolgono funzioni logistiche e strumentali, compresa la gestione del personale e dei servizi comuni;
e) conclusione di appositi accordi tra amministrazioni per l’esercizio unitario delle funzioni di cui alla lettera d), ricorrendo anche a strumenti d’innovazione amministrativa e tecnologica e all’utilizzo congiunto delle risorse umane;
f) tendenziale eliminazione degli incarichi di cui all’articolo 19, comma 10, del citato D.l. n. 165 del 2001 (consulenza, studio e ricerca).

Ma il riassetto organizzativo deve, altresì, tenere conto, delle misure volte a ridurre la presenza degli apparati statali sul territorio. Queste valorizzano il ruolo delle Prefetture – uffici territoriali del Governo quali sedi di “uffici unici di garanzia dei rapporti tra i cittadini e lo Stato”, cui è rimessa la responsabilità diretta ed esclusiva dell’esercizio delle singole funzioni logistiche e strumentali di tutti gli uffici periferici delle amministrazioni statali. Il riordino e l’individuazione di queste ulteriori funzioni assegnate alle Prefetture erano stato affidato ad apposito regolamento, mai emanato, secondo puntuali indicazioni che, in coerenza con l’obiettivo di contenimento della spesa pubblica, dettavano i principi generali a cui attenersi per definire le modalità di costituzione e funzionamento dei predetti uffici unici, l’utilizzo in comune delle risorse e gli ambiti di operatività.

3. L’abolizione delle Province: un processo in fieri

In coerenza con il quadro degli interventi previsti dalla spending review la recente legge sulle città metropolitane, le Province e le unioni e fusioni di Comuni costituisce una prima tappa in attesa della riforma del Titolo V che inciderà in maniera definitiva su questi esiti, passando dalla modifica delle strutture alla modifica delle funzioni. Due interventi, peraltro, correlati.
Infatti, il passaggio delle Province da enti elettivi a enti non elettivi, dettato dalla contingenza del momento, necessita di un intervento più determinato relativamente alla programmazione della rete scolastica e alla gestione degli edifici scolastici della secondaria superiore.
Riguardo al primo punto è bene notare che l’offerta formativa in un determinato ambito territoriale non può che essere programmata in coerenza, da un lato, con le potestà regionali e, dall’altro, con le determinazioni dei princìpi e dei livelli essenziali delle prestazioni a livello nazionale.
È solo con queste due coordinate che le scuole autonome possono muoversi con maggiore speditezza e in assenza d’inutili programmazioni provinciali.
Riguardo poi alla gestione del patrimonio edilizio di proprietà dell’ente locale provinciale va rilevata, anzitutto, l’anomalia dell’attuale frammentazione, nel medesimo ambito territoriale, della gestione del patrimonio edilizio a seconda del diverso ordine e grado di scuola: la scuola primaria ai Comuni e la secondaria alle Province, in base appunto alla proprietà degli edifici scolastici. Atteso, oltretutto, che il problema è prevalentemente finanziario – come messo in luce dal recente dibattito sulle condizioni dell’edilizia scolastica in Italia – le funzioni inerenti a tale gestione patrimoniale e alle connesse tematiche della sicurezza potrebbero ricadere in capo ai Comuni, riaccorpando le relative competenze.

4. Titolo V della Costituzione: la riforma della riforma

Il disegno di legge costituzionale di revisione del Titolo V dovrà finalmente riequilibrare gli interessi nazionali e regionali per politiche d’investimento nel settore dell’istruzione e della formazione, riequilibrio che permetterà di realizzare economie di scala attraverso la riorganizzazione degli apparati: migliore organizzazione = maggiori risorse.
C’è una grande necessità di un innalzamento dei livelli d’istruzione in Italia per interrompere il cortocircuito innescato tra bassa istruzione e alta diseguaglianza. Infatti, le indagini effettuate in quest’ultimo decennio, ultima quella pubblicata dal Centro studi della Confindustria, hanno dimostrato che insufficienti livelli culturali e di formazione tecnico-professionali sono strettamente associati a lavori poco qualificati con un basso reddito e con un alto rischio di disoccupazione.
Nel progetto di revisione costituzionale dovrà finalmente trovare soluzione il problema della potestà legislativa concorrente tra Stato e Regioni che, in tema d’istruzione, dal 2001 a oggi non è stata mai esercitata, come pure la situazione avrebbe richiesto.
Ciò comporterà la ridefinizione dell’attuale scacchiera di potestà esclusive che ha alimentato un significativo contenzioso costituzionale. Laddove uno dei nodi irrisolti è la connessione tra la funzione ordinamentale, affidata allo Stato, e quella organizzativa, affidata alle Regioni, fatta salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche.
Se è vero che è il tipo di ordinamento a determinare la tipologia organizzativa da adottare, è anche vero che quest’ultima, come apparato esistente, condiziona in buona parte le stesse scelte ordinamentali. Un esempio lampante è rappresentato dagli organici delle scuole, una leva rilevante in termini finanziari e organizzativi, che lo Stato non ha mai voluto cedere alle Regioni e che è trasversale a tutto il sistema d’istruzione.
Una scelta difficilmente comprensibile anche alla luce del percorso interpretativo tracciato dagli orientamenti, ormai consolidati, della Corte Costituzionale, che vedono le Regioni titolari dell’organizzazione e della gestione territoriale del servizio scolastico, ivi compreso il personale, mentre le scuole, nella loro autonomia funzionale, responsabili, in via esclusiva, di tutti i profili connessi all’erogazione (sentenze n. 14/2004, n. 200/2009, n. 235/2010 e n. 92/2011 e n. 147/2012). Particolarmente emblematica, perché coinvolge proprio aspetti correlati alla gestione degli organici delle scuole, è la recente sentenza n. 147 del 2012 che dichiara incostituzionali le disposizioni del d. l. n. 98 del 2011 in materia di rete scolastica e dimensionamento degli istituti. L’art. 19, comma 4, infatti, conteneva due previsioni, strettamente connesse: l’obbligatoria e immediata costituzione di istituti comprensivi, mediante l’aggregazione della scuola dell’infanzia, della scuola primaria e di quella secondaria di primo grado, con la conseguente soppressione delle istituzioni scolastiche costituite separatamente, e la definizione della soglia numerica di 1.000 alunni che gli istituti comprensivi devono raggiungere per acquisire l’autonomia; soglia ridotta a 500 per le istituzioni site nelle piccole isole, nei comuni montani e nelle aree geografiche caratterizzate da specificità linguistiche. I giudici, partendo dalla considerazione che la materia regolata, attenendo all’istruzione, rientra sicuramente nell’ambito della competenza concorrente, negano tuttavia alle suddette previsioni la natura di principi fondamentali e le considerano invece espressione di una disciplina di dettaglio, in quanto tale esorbitante e invasiva della potestà regionale.
Ora è vero che, in materia di organizzazione territoriale del servizio scolastico, la stessa Corte, per evitare soluzioni di continuità nella fruizione del diritto all’istruzione, ha ritenuto, fin dalle prime decisioni sul riparto di competenze, ammissibile che lo Stato eserciti, in via suppletiva, i compiti da trasferire alle regioni fino a che queste ultime non abbiano approvato le rispettive leggi di settore e non si siano dotate degli apparati necessari al loro svolgimento. Ma, trascorso oltre un decennio dall’approvazione della riforma costituzionale, è tempo che si compia senza ulteriori indugi un deciso passo avanti verso quella prospettiva attraverso la formalizzazione di un percorso istituzionale che definisca da subito, e con estrema chiarezza, sia l’assetto organizzativo che il Ministero dovrà assumere nell’arco di un termine breve e predeterminato (massimo tre anni), sia i tempi e le modalità della transizione, da concordare tempestivamente con le Regioni nelle sedi deputate al confronto interistituzionale, in base al principio costituzionale di leale collaborazione.

5. Riprogettazione dell’apparato scolastico

Questi sono, dunque, i punti cardine che, almeno nella situazione data e in attesa degli sviluppi dell’annunciata riforma della riforma del Titolo V, dovrebbero orientare il MIUR nella riorganizzazione delle sue strutture centrali e periferiche e nella scelta di un modello di gestione non solo coerente con il vigente dettato costituzionale, ma soprattutto funzionale alla centralità del ruolo ricoperto dalle autonomie scolastiche all’interno dell’attuale sistema “multilevel governance”.
La spending review, se interpretata come riordino delle priorità e utilizzata come leva del cambiamento, potrebbe realizzare nel settore un duplice salutare risultato: il recupero del grave ritardo accumulatosi nella definizione di un assetto organizzativo stabile e certo; il rilancio del Ministero nel suo ruolo di garante dei diritti fondamentali tutelati dagli articoli 33 e 34 della Costituzione, restituendo allo stesso quell’identità perduta – o comunque col tempo fortemente appannatasi in conseguenza del distacco dalla realtà educativa che la funzione ispettiva contribuiva a realizzare – di principale promotore di sviluppo della scuola italiana, oltre che luogo di sintesi di tutte le politiche territoriali, a salvaguardia dell’unitarietà del sistema nazionale d’istruzione e formazione.
Muovendo da questa consapevolezza, l’apparato burocratico andrebbe ri-progettato intorno al nucleo essenziale di funzioni disegnato dal processo di riforma che, partendo dal riconoscimento dell’autonomia scolastica e passando per il decentramento amministrativo e burocratico delle funzioni, è infine approdato alle modifiche costituzionali approvate nel 2001: indirizzo, programmazione e regolazione; supporto allo sviluppo dell’autonomia responsabile delle istituzioni scolastiche; valutazione, controllo e rendicontazione sociale (accountability).

Le scelte finora adottate hanno tradito l’auspicio formulato sopra e restituiscono l’immagine di un apparato che gioca la partita delle riforme in difesa (di se stesso), ancora non in grado di affrontare obiettivi sfidanti come quello di costruire una governance capace di proiettare il sistema scolastico e formativo in una virtuosa prospettiva di medio e lungo periodo. Difatti, il Ministero, conservando una struttura organizzativa articolata su tre dipartimenti e 23 direzioni generali (di cui ben 9 operano a livello centrale), continua a essere sovradimensionato rispetto alla mission e alle competenze che, come si è visto, sono sostanzialmente tutte riconducibili a funzioni di policy. Un assetto difficilmente comprensibile non solo alla luce dei richiamati indirizzi interpretativi della Corte Costituzionale; ma, soprattutto, a fronte delle aspettative di tutti gli utenti e operatori dell’istruzione, che in luogo della descritta galassia di organi e funzioni, vorrebbero un apparato snello, altamente professionale e specializzato, oltre che nella regolazione, pianificazione e valutazione del sistema, anche nella progettazione/erogazione di servizi innovativi per lo sviluppo dell’autonomia delle scuole, quali, ad esempio, il supporto al “fundraising”, alla costituzione di reti, all’implementazione delle nuove tecnologie per la didattica, alla costruzione dei nuovi ambienti per l’apprendimento, alla gestione del contenzioso e delle altre attività gestionali complesse.

Da qui la necessità di un’inversione di rotta, anche rispetto alla proliferazione e alla frammentazione delle funzioni dei vari altri enti, nella consapevolezza che l’attuale sistema di apparati dell’istruzione (una galassia di direzioni, assessorati e uffici) non è coerente con lo sviluppo di tutte le componenti di una società della conoscenza, fondata sul merito e sull’abbattimento delle diseguaglianze. Un ecosistema educativo i cui poli sono, appunto, le scuole e tutti quegli altri luoghi di produzione culturale e d’innovazione che ne potenziano e completano i compiti.
Perché, come disse Calamandrei nel 1946, “nessuno sogna sul serio una società in cui a tutti gli uomini sia concesso ugualmente di essere scienziati o artisti, ma quel che si chiede perché le diffidenze e i malintesi spariscano, è che la scelta delle diverse sorti dipenda soltanto dalle attitudini individuali e non dal privilegio ereditario”.
E la grande crisi economica e sociale di questi ultimi cinque anni rende attuale perfino un monito così antico.

Giuseppe Fiori e Fabrizio Manca

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