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Il PCI e la scuola – L’alto e il basso nei processi del cambiamento scolastico

Pubblicato il: 12/05/2021 05:48:40 -


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Se prendiamo in considerazione le molte tematiche di tipo scolastico, ma anche quelle di carattere più ampiamente educativo, con le quali ci si sta misurando all’interno di un’emergenza che da sanitaria s’è fatta politica e pure istituzionale, arrivando a toccare non poche questioni di cultura, sensibilità, comportamento individuali e collettivi, e se vediamo in che termini queste tematiche sono trattate e discusse non solo nella stampa e negli altri media ma anche nei social, è pressoché impossibile trovare una convergenza di vedute dentro l’area che un tempo avremmo etichettato come ‘progressista’. Nelle ore in cui scrivo questa nota, per esempio, si discute molto del caso Fedez, che mette in gioco  per un verso  il rapporto fra diritti civici e diritti sociali e per un altro la dialettica fra libertà e controllo dentro la comunicazione pubblica;  ma, su un ambito più “scolastico”, ci si confronta anche sul Piano ponte per la scuola e dunque sui 150 milioni di euro destinati a supportare, nella prossima estate, gli istituti nella gestione delle situazioni emergenziali, questione che tocca anche la relazione, non solo di tipo istituzionale, tra saperi curricolari e altri saperi. 

Chiedo: siamo in grado di dire che tra i progressisti o tra quanti si professano ‘di sinistra’ c’è, su questi come su tanti altri temi, omogeneità di vedute e di giudizi? La risposta è sicuramente negativa. Certo, abbiamo un po’ tutti imparato a cogliere quanto di complesso si nasconde anche dentro temi del presente che sembrerebbero semplici, ma una questione più impegnativa va posta, a questo proposito: la complessità è nelle cose, e lo era anche prima, o è, invece, il frutto di una nostra maturazione conoscitiva, dovuta anche ai contraccolpi subiti dalla realtà dei fatti?  

Una egemonia durata trent’anni ma rapidamente conclusa

All’interno di una simile prospettiva, tutt’altro che ‘accademica’, la decisione di misurarsi con le analisi e i racconti inerenti alla politica scolastica del PCI acquista un’importanza del tutto particolare.  Personalmente sono intervenuto sull’argomento, non molto tempo fa, con uno specifico saggio intitolato La formazione sparita. Essendo questo scritto di dominio pubblico, e scaturendo da un impegno personale attorno alle prospettive di sviluppo dell’assetto culturale e didattico della scuola nazionale i cui prodotti sono ugualmente accessibili, avrebbe poco senso darne sinteticamente conto, qui. 

Piuttosto, procedendo a una ricostruzione delle vicende del passato che non escluda l’intervento dei parametri del pensare complesso, credo possa essere di una qualche utilità chiedersi come mai la funzione egemonica ampiamente esercitata dall’azione dei comunisti italiani al culmine di un trentennio (anni ‘60 – anni ‘80) di crescita della sensibilità collettiva per i problemi della scuola sia così rapidamente venuta meno, nei decenni successivi. Escludendo che le ragioni di questo cambiamento di prospettiva siano totalmente esterne alla vicenda scolastica, un’ipotesi che, se assunta, minerebbe anche la legittimità della prospettiva precedente, quella della crescita, resta da vedere quali siano i nodi irrisolti che in quel contesto di crescita e successiva decrescita della cultura scolastica e formativa di stampo comunista hanno trovato la loro originaria manifestazione, perlopiù ignorata, allora, ma ancora oggi non sufficientemente colta e trattata.

Riforme dall’alto e cambiamenti strutturali dal basso: il nodo irrisolto della  Sinistra

Nello spazio limitato di un intervento come l’attuale non posso che indicare uno di questi nodi, che però, secondo la logica del complesso, rimanda a tanti altri.  Si tratta del rapporto fra l’azione politica che sbrigativamente veniva e viene tuttora chiamata ‘dall’alto’ e quella ‘dal basso’. Il nodo su cui propongo di attirare l’attenzione, insomma, consapevole del fatto che ogni ragionamento di questo tipo, almeno per la mia generazione, vale anche come testimonianza e quindi presenta punti di forza e di debolezza, è quello dell’incontro/scontro tra la prospettiva delle ‘riforme strutturali’ o globali, da una parte, e quella dei ‘cambiamenti interni’ o ‘molecolari’, dall’altra. È indubbio che nella fase ascendente, il primo dei due orientamenti abbia nettamente sopravanzato il secondo e soprattutto lì si trovi la giustificazione del successo della visione ideale che veniva proposta. Riforma della scuola non era solo il titolo della ‘nostra’ rivista, era una filosofia politica e della politica, era ed è stata la chiave del successo ideologico. 

Com’è che, poi, quella linea di intervento e di pensiero è entrata così rapidamente in crisi, dando l’impressione che l’altra, quella dei cambiamenti molecolari, perseguita esplicitamente dagli eredi della pedagogia comunista nazionale, ma già prima in atto, figurasse come soluzione ‘di ripiego’?  Se si pensa che tutto questo sia avvenuto per ragioni esterne all’ambito scolastico si va poco lontano, e soprattutto si resta sprovvisti di strumenti più efficaci del ‘rimpianto dell’età che fu’ con i quali far fronte a un presente non proprio roseo e comunque non univoco, come quello che sta vivendo la cultura formativa di stampo e derivazione progressista.

C’è qualcosa, sotto, che richiede più coraggio nell’analisi. Questo qualcosa richiama, a mio avviso, un tema delicato, che appartiene alla tradizione pedagogica e scolastica nazionale e che noi, comunisti e progressisti, non siamo riusciti sufficientemente a elaborare, ricevendolo e dunque riproducendolo nel suo vizio di fondo. Alludo al rapporto fra educazione e istruzione, un tema che trovava le sue radici antiche nella fondazione della scuola nazionale, la Casati, dunque dentro un impianto concettuale di tipo centralistico, rigidamente istituzionale, fortemente istruttivo, aristocraticamente umanistico, che considerava la scuola come apparato di formazione della classe dirigente, e che collocava la prima formazione in una posizione marginale, sia dal punto di vista istituzionale sia da quello culturale. L’istruzione al centro, sempre, l’educazione ai margini, quando e come possibile. Questo vizio concettuale è rimasto, e ha segnato buona parte della politica scolastica dei comunisti nel trentennio montante. Tutto ciò malgrado che, nel frattempo, si fossero raccolti i frutti migliori proprio nell’area negletta: penso alle esperienze originarie del tempo pieno, della gestione sociale, dell’agire didattico inscritto nella legge 517. 

Ma basterebbe ricordare il diverso atteggiamento tenuto sul versante dell’associazionismo professionale (quello di stampo secondario, inteso come emanazione, quello di stampo primario, vissuto in parte come alieno) per dar conto degli effetti, inconsapevoli (?), di questo che ho designato come ‘vizio’ (e che, detto fra parentesi, era perfettamente in linea con una visione umanistico/letteraria della tradizione marxista, poco disponibile a interagire con le culture novecentesche della scienza e della tecnologia). 

Se ne può ricavare l’idea, io credo, che la fortuna del movimento dall’alto fosse strettamente legata al tipo di immagine che proponeva, fosse insomma proprio un fatto di immagine, e che questo tendesse a oscurare quanto di positivo, ma anche di non positivo, stava avvenendo ed era già avvenuto sul versante del movimento dal basso, e delle relative ‘politiche entriste’, comprese quelle sindacali.  

A un certo punto i due movimenti si sono incontrati e scontrati. E questo è avvenuto proprio quando, con Luigi Berlinguer, per la prima volta un politico di derivazione comunista si è trovato al governo della scuola. Il generoso progetto di riforma complessiva dell’intero sistema di formazione da lui formulato e parzialmente messo in atto trovò, come sappiamo, forti opposizioni proprio in ordine a quello che ne costituiva l’elemento strutturale di maggior peso, vale a dire l’ipotesi di unificazione, in una scuola di base, dei due spezzoni dell’allora formazione obbligatoria. E furono opposizioni dall’interno, non solo dal di fuori dell’area politica di riferimento. Segno, questo, che non si era sufficientemente elaborata la questione, nella sua serietà e complessità. 

La difficoltà a leggere i nuovi strumenti di comunicazione

Il nodo irrisolto del rapporto fra alto e basso ne richiama altri, come ho anticipato.  Uno è particolarmente “doloroso”, come dovremmo vedere bene oggi, nel conflitto tra i media che si sta sviluppando sul terreno della scuola, in parte paralizzandoci (ma non paralizzandola). Riguarda il rapporto fra le tecnologie della conoscenza: la chiave istruttiva (e casatiana, prima che gentiliana) cui ho fatto cenno risulta intimamente connessa all’idea di una superiorità ed esclusività della cultura della stampa nei confronti delle altre culture, quelle promosse dai media della comunicazione sociale, quelle che, affermatesi lungo tutto il Novecento, a livello planetario, hanno profondamente influito, anche in termini qualitativi, sulla crescita delle sensibilità esistenziali, civiche, democratiche, politiche di tutti, e di tutto, si direbbe, ma non della scuola ‘immagine’ (anche nostra). 

Con Tullio De Mauro si è convenuto che la televisione era riuscita a unificare il Paese. Ma lì ci si è fermati. Non si è stati in grado di convenire, con Umberto Eco, che l’unificazione era e stava avvenendo attraverso una semiosi di tipo diverso da quella ottocentesca. Con quella sensibilità e con quella mentalità sarebbe stato necessario e urgente fare i conti, non già evitando di condannarle perché ‘diverse’ e ‘inferiori’ e dunque ‘analfabete’, ma impegnandosi invece a capirle. Con quest’altra dimensione, educativa più che istruttiva, bassa più che alta, avremmo dovuto sporcarci le mani e la testa sì da accoglierla nelle scuole, e nel nostro pensarle e agirle, in quanto realtà degne di essere messe in un costruttivo rapporto di dialogo con la migliore e più profonda tradizione nazionale in fatto di artigianato, musica, arte.

Roberto Maragliano Pedagogista, professore ordinario presso l’Università di Roma 3

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