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L’autonomia delle scuole: transizione incompiuta

Pubblicato il: 07/01/2013 21:35:57 -


Anni fa, durante un convegno, un Direttore Generale, dopo un misurato e a parole valorizzante richiamo alle “novità” dell’autonomia, concluse il suo intervento affermando con forza “l’autonomia non è però anarchia…”. La sala scrosciava di applausi. E il pubblico era costituito da dirigenti periferici, dirigenti scolastici e qualche imbarazzato “tecnico” dissenziente come il sottoscritto.
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Ho letto con attenzione e partecipazione gli ultimi interventi di Allega attorno a questioni che investono sia problemi emergenti di gestione economica delle istituzioni scolastiche autonome, sia di assetto fondamentale delle stesse, con una interessante esplorazione del rapporto pubblico-privato. Attenzione diretta anche a distinguere tra la passione che le anima (e che considero un “valore”) e la necessità di procedere con un’analisi altrettanto determinata ma che si misuri con la “generalità” delle condizioni “di sistema”. Le considerazioni che seguono, adottando quest’ultima ottica, tentano di risalire dalla “emergenza” della fenomenologia che anima la “passione” di Allega, alle questioni generali che vi sono sottese.

Come si sa l’autonomia delle istituzioni scolastiche è fondata, nell’ordinamento, a partire dal tentativo di riforma complessiva della Pubblica Amministrazione che, nel dibattito corrente, continua a essere identificata con la Legge “Bassanini”. (Da essa ci separano dunque ben 15 anni di “transizione riformatrice” incompiuta).

La delega contenuta in quel provvedimento fu interpretata, nel caso della scuola, assegnando bensì un ambito di “autonomia” a ciascuna istituzione scolastica (vedi Regolamento) ma estendendo, a ciascuna scuola il profilo e l’assetto di “Ente Pubblico”.

Fu una scelta politica, non una inevitabile conseguenza, o un passo obbligato. A partire dalla medesima Legge molti Enti Pubblici persero infatti tale configurazione per trovare altri assetti: Fondazioni (vedi gli Enti Lirici…), aziende pubbliche, “agenzie”… Anzi, vi sarebbe da ricordare che, a partire dal più lontano “rapporto Giannini” sulla Pubblica Amministrazione (1979), l’orientamento riformatore poneva il problema di superare proprio la cultura e la pratica “dell’entismo” e la proliferazione di enti pubblici che ne era derivata. Nel caso della scuola, in contraddizione con quella ispirazione, se ne crearono oltre 10 mila nuovi.

I (pochi) rilievi contrari (quorum ego) si ritrovarono a dover rispondere all’accusa di voler “privatizzare”. Una accusa che fu ripresentata a più riprese in tutti gli anni seguenti. Un grande amico che purtroppo non c’è più come Piero Romei potrebbe ampiamente testimoniare in merito.

Ricordo inoltre che non si trattava di “dislocazioni” politiche in senso stretto, ma di una palese “insufficienza culturale” che estendeva i suoi effetti a ispirazioni politiche apparentemente opposte.

Due aneddoti sono più efficaci di molte analisi. Il primo: in un convegno nella fase iniziale dell’autonomia sostenevo che si trattava di un break point e che la transizione richiedeva la capacità di definire un assennato e coerente break through. (Un “attraversamento”. Conservo ancora le slide che avevo preparato per quella relazione). Venni redarguito (amabilmente) da un Direttore Generale del “superiore” Ministero, a non usare il termine “break point”. Stavamo (secondo lui) sulla linea della continuità. Incidentalmente era, in quel momento (gestione da centrosinistra) responsabile proprio dell’autonomia ai vertici del Ministero. Mota quetare, queta non movere (ricordate il “Maestro di Vigevano”?).

Un paio di anni dopo (mutato il colore politico della legislatura), in altro convegno, un altro Direttore Generale, dopo un misurato e a parole valorizzante richiamo alle “novità” dell’autonomia, concluse il suo intervento affermando con forza “l’autonomia non è però anarchia…”. La sala scrosciava di applausi. E il pubblico era costituito da dirigenti periferici, dirigenti scolastici e qualche imbarazzato “tecnico” dissenziente come il sottoscritto. (Nella polemica politica quella era una legislatura accusata di mirare alla “privatizzazione”. In realtà si miscelava, come in ogni politica liberista, statismo e privatismo. Ma il primo aveva alleati inconsapevoli).

Mi scuso della chiave anedottica, ma in essa sono rintracciabili tutti gli ingredienti di una riflessione politico-culturale assai più ampia e profonda, le cui emergenze stanno nel “grido di dolore” attuale.

Il riformismo del nostro Paese soffre delle combinazioni variamente congiunte di una insufficienza culturale e tecnica (come riconfigurare istituzionalmente le scuole autonome, senza ripercorrere la rassicurante strada dell’ente pubblico?); di una “esilità” di consenso (un riformismo “senza popolo”?); e di una “irrisolutezza” gestionale (affidare la realizzazione delle riforme ad apparati amministrativi che ne sono strutturalmente avversi e lontani. Che, dunque nella gestione ne “mandano fuori bersaglio” i contenuti innovativi).

L’esito di quel mix, variamente combinato, ci si presenta oggi in una fase drammatica sotto il profilo del governo della spesa pubblica: l’autonomia è soffocata sotto il profilo gestionale (la fenomenologia varia che descrive Allega, dalla gestione del FIS all’oggettivo azzeramento di ogni flessibilità gestionale della cassa…), attraverso una ri-centralizzazione sia della gestione contabile sia dei margini di gestione complessiva delle risorse (da quelle economiche, a quelle umane, a quelle che derivano dalla combinazione delle due, cioè la flessibilità organizzativa).

Ma, ahimè, si vedono tanti e sparsi momenti di “mobilitazione” (più spesso all’insegna dell’indignazione che non con determinazioni strategiche). Dal generoso (!?) “bisogna investire di più” al “non si tocca l’orario di lavoro”. Nessuno che faccia della autonomia, della sua difesa, del suo valore, la “chiave strategica” della mobilitazione.

Aggiungo solamente che i medesimi ingredienti variamente combinati presiedono a un’altra transizione incompiuta come quella disegnata dal Titolo V della Costituzione. (Se 12 anni vi sembran pochi…) nel rapporto tra autonomie locali e autonomia scolastica. Con ritardi e incertezze, fino alla insolvenza, della Conferenza Unificata e del sistema delle autonomie, come si sa politicamente “variamente colorato”.

La scelta conservatrice di mantenere ed estendere l’assetto tradizionale di “Ente Pubblico” al quale fu ricondotta la scuola autonoma nella stessa fase nascente, comportò qualche straordinaria “afasia” nel configurare quello “specifico” Ente, non chiarendo mai i rapporti di “strumentalità” che esso aveva con “l’Ente emanatore” (il Ministero). Ente “strumentale” (le medesime finalità, e solo quelle, dell’ente emanatore?) o Ente “ausiliario” (le finalità dell’Ente emanatore ma anche potestà nel definire “proprie” finalità?). La “teoria” del Diritto Amministrativo le contemplava entrambe. Si trattava di scegliere. Ma era una scelta politico-culturale innanzi tutto.

Sembrano questioni “tecniche” eppure attraverso esse passa la “costituzione materiale” della gestione dell’autonomia, e questa si configurò sulla prima scelta (ente strumentale) con qualche “concessione” (una “quota” di autonomia progettuale, più ampia, nelle affermazioni, di quanto effettivamente esplorato, ma destinata sempre più a “marginalità” a prescindere dal suo valore intrinseco). Di fatto la scuola autonoma come “filiale” del Ministero.

Una scelta culturalmente e politicamente “rassicurante”, per una gamma molto vasta di interlocutori (alleati più o meno consapevoli?): per gli apparati della burocrazia ministeriale, per il “corpo” (e l’anima?) docente, per il sindacalismo scolastico, e finanche per i cittadini, stakeholders si direbbe oggi, sollevati dall’avere a che fare, e a parteciparne al governo, con un “oggetto” che sarebbe stato troppo “divergente” dalla memoria della esperienza scolastica vissuta in prima persona come studenti. (I “guai” positivi della “scuola di massa”: poiché tutti ci sono andati ciascuno sa come dovrebbe essere la migliore, come per la formazione della nazionale di calcio).

La conseguenza più “materiale” di tale scelta fu la subordinazione al Diritto Amministrativo. La “produzione” di attività concrete, “economiche”, di servizi alla cittadinanza, come l’istruzione, viene “regolata” dalla pura “formalità” della norma. Come mi diceva un vecchio maestro: il diritto penale ha a che fare con le “passioni” delle persone, il diritto civile ha a che fare con “gli interessi” della persone; il diritto amministrativo è “il nulla”, la pura “forma”.

In termini più stringenti: la gestione “dell’impresa formativa” fu affidata alle regole della “gestione finanziaria” propria del Bilancio dello Stato. Non una “gestione economica”.

Ciò che lamenta Allega riguardo ai residui attivi (lo Stato debitore insolvente) ha senso solamente nel contesto dato da quella scelta a monte (Enti Pubblici, diritto amministrativo, contabilità pubblica, di tipo finanziario e non economico).

Nel bilancio di una impresa (Codice Civile), un credito non riscosso non potrebbe essere posto in bilancio per più di un paio di esercizi, pena l’accusa di “falsità” del bilancio stesso.

Ma siamo nella “contabilità pubblica” e nella sua indifferenza ai risultati economici: quello che conta è la corrispondenza formale tra le poste in entrata e uscita. E il “debitore” insolvente è lo Stato, dunque… Ciò sembra da un lato assolvere tutti (lo Stato siamo noi…) da ogni accusa di falsità, e dall’altro abilitare tutti a ogni “lamentazione.

Sia detto tra le righe: se sollevassimo il velo dei formalismi della contabilità pubblica (veli analoghi sono presenti nei bilanci dei Comuni, delle Province, delle Regioni…) a quanto ammonterebbe “davvero” il deficit pubblico? E da quanto tempo? E con quali responsabilità “diffuse”?

Ci si può “indignare” (e con ragione) dei residui attivi non onorati dal debitore pubblico. Ma se si considera che il fenomeno è presente da diversi anni nel determinare l’opacità reale (fino al falso) dei Bilanci delle scuole (i pochi che se ne sono occupati sono sempre stati accusati di “aziendalismo”), risulta assolutamente giusta la denuncia, ma non ci si può non porre qualche domanda scomoda sull’esercizio di “responsabilità dirigenziale” praticato per anni dai responsabili di tali bilanci, e più in generale da parte di tutti coloro che in quelle “aziende particolari” che sono le scuole autonome hanno variamente operato e plasmato la “programmazione” delle attività.

E che dire di chi ha esercitato le funzioni contrattuali, l’esercizio dei diritti di informazione, la gestione delle relazioni sindacali, il controllo contabile?

Insomma la fenomenologia che qui si sta commentando è solo la “parte emergente” di una “cultura della gestione pubblica” che unifica variamente chi se ne lamenta e chi in essa trova declinazione accomodante delle proprie responsabilità. Sabino Cassese aveva un detto lapidario per caratterizzare questo versante della cultura della gestione pubblica: “autonomia senza potere e potere senza responsabilità”.

Vi è una terza serie di considerazioni che l’analisi di numerosi Bilanci delle scuole effettuata per diverse ragioni in questi anni mi suggerisce di proporre (ancora?) alla riflessione.

Se il passaggio a una autentica autonomia non può che accompagnarsi alla assunzione di effettivi criteri gestionali di tipo “economico”, non accontentandosi della corrispondenza tra le poste in bilancio, bisognerebbe anche esplorare criticamente per esempio la quantità e la distribuzione delle risorse relative alla progettazione autonoma delle scuole (l’aggregato P del Bilancio), e sottoporre innanzi tutto quest’ultimo (assurto a simbolo dell’autonomia) a qualche validazione economica.

Basta applicare qualche semplicissima indicizzazione a un campione sufficientemente ampio di Bilanci per constatare che il tratto più diffuso (sempre salve le eccezioni) è una accentuata opacità economica. Risorse spesso distribuite a pioggia su numerosi progetti di dimensione micro, assenza di espliciti criteri di selezione degli impegni (investimenti?!), progettazioni delle quali non si riesce a recuperare il significato generale e che perciò restituiscono il forte sospetto che l’attività aggiuntiva premi un unico fattore (il costo del lavoro e la sua distribuzione eguale nel Collegio).

Forse giudizi ingenerosi sui quali non voglio insistere: sta il fatto che anche l’analista più neutrale non riesca a recuperare trasparenza delle scelte economiche e del loro senso.

C’è da stupirsi se in fase di accentuata limitazione generale delle risorse, il loro “taglio” proceda con la medesima “cecità” con la quale sono state erogate nelle fasi di maggiore disponibilità?

Il concetto di “investimento” ha due tratti connotativi: il primo è che si tratta di “risorse dedicate a un risultato”, che ne rappresenta il “rendimento”. Dunque va controllato, verificato, corretto se del caso, ne vanno valutati i rischi e i risultati… Vogliamo parlare (ancora?) di “cultura della valutazione”? Si troverà ancora incertezza tecnica (indifferenza reale?) del decisore e opposizione “popolare” pregiudiziale variamente combinate e alleate…

Il secondo è che (etica del capitalismo?) “investire” significa sempre rinunciare a un beneficio immediato in nome (appunto) di un “risultato futuro” più importante. Le decisioni di investimento sono sempre esito di “alternative”, non di “interessi immediati” (a differenza della “spesa”).

Trovare traccia di tutto ciò nei Bilanci delle scuole (ma anche nei documenti essenziali come le Relazioni al Programma Annuale che li accompagnano) è francamente difficile. Ovvio che tali condizioni si prestino a dare spazio anche al più lineare “mani di forbice” in circolazione, che se ne potrà fare vanto verso i responsabili politici: “risultato raggiunto, Ministro!”.

Fino alla “abilitazione” di veri e propri “trucchi”. Per esempio in una fase di “stretta” che tutti ci coinvolge e che ci richiama alla necessità/responsabilità di introdurre dosi supplementari di efficacia ed efficienza della spesa, nei Bilanci delle scuole di questi ultimi anni (non di ieri, insisto…) è cresciuta la dimensione dell’aggregato Z (risorse poste in bilancio ma non coperte da programmazione).

Sembra un paradosso: mentre si lamenta il venire progressivamente meno dei finanziamenti alle scuole, queste ultime nei loro bilanci conservano “a pareggio” e in quantità crescente nel tempo, una posta che non corrisponde ad alcuna attività programmata… La posta formale a cosa corrisponde realmente? Un “tesoretto” accantonato? Un modo per mantenere in bilancio risorse incerte tipo i “residui attivi”, senza procedere a radiazione (falso in bilancio…)? Una vera e propria insufficienza programmatoria? Anche solo tali domande, che hanno risposte ovviamente non equivalenti, testimoniano “opacità”. Il “Bilancio Sociale” (che è altra cosa da quanto paia dalle parole di Allega) avrebbe proprio il compito di ”rendicontare” pubblicamente e di superare tale opacità: la “cultura” e la “responsabilità” dell’autonomia è in definitiva questa.

Infine la questione dell’afflusso di risorse “private”, i suoi effetti economici e le condizioni istituzionali che occorrerebbe coerentemente cambiare (se aumenta significativamente la quota di risorse extra finanziamento pubblico, perché mai la scuola dovrebbe gestirle e rendicontarle attraverso le regole formali della contabilità pubblica. Dovrebbe misurarsi con la contabilità economica e con il Codice Civile, non con il Diritto Amministrativo). Ma chi vuole esplorare tale orizzonte, è consapevole appieno delle modifiche che ciò comporta in termini di cultura gestionale e di responsabilità, a partire da quelle dei Dirigenti Scolastici?

Non bisogna dimenticare che il panorama del finanziamento extraministeriale è assai vario, sia per ordini di scuola sia per fonti di finanziamento. I Fondi Europei hanno regole contabili specifiche. Ma con diversità al loro interno. I fondi europei delle “Regioni obiettivo” (PON) conformano i Bilanci di molte scuole meridionali con livelli più che confortevoli rispetto a molte scuole confrontabili del Centro Nord. Ma sugli esiti dell’impegno di tali risorse a volte “tacere è bello” (lo affermo per esperienza diretta di ispettore). Se ne sta (stava) occupando il Ministro Barca, con un programma al quale avremmo dovuto maggiore attenzione, partecipazione e divulgazione.

Per altri contributi di diversa fonte (dalle Autonomie locali alle famiglie), si tratta spesso di finanziamenti vincolati. A volte vere e proprie “partite di giro” (vedi i viaggi di istruzione all’estero). Laddove è privo di vincoli di spesa si pone con forza l’adozione di metodologie di Bilancio Sociale o di Rendicontazione Sociale, per “legittimarsi” e legittimarne gli impieghi.

Il rapporto con le imprese è invece quasi esclusivamente presente nella secondaria Superiore e di indirizzo tecnico-professionale. Mai vista una impresa che finanzi scuole del primo ciclo.

La pluralità delle esperienze è strettamente collegata con l’incertezza o il non (ancora?) avvenuto consolidamento di una autentica e socializzata cultura dell’autonomia (una transizione incompiuta), che acuisce la debolezza delle scuole a fronte del “tagliatore” ministeriale.

Alcune proposte per consolidare e “istituzionalizzare” il fund raising sono interessanti, ma devono misurarsi con tale frammentazione di esperienze cercando soluzioni “unificanti” con declinazione sistemica.

A suo tempo, anche su queste pagine (vedi il mio “Debito pubblico, risparmio privato: istruzione come ricchezza pubblica”), indicai due possibili prospettive con tale carattere. La prima era l’esplorazione del “terzo settore”. Una scuola, o meglio una rete di scuole “dà vita” (non “diventa”, e qui è la differenza con proposte Aprea) a un soggetto del terzo settore: basta un notaio e la registrazione di una Fondazione, di una Onlus, di un Consorzio. Si crea un soggetto che accede al Codice Civile e che può esplorare il rapporto con la “ricchezza privata” attraverso una pluralità di strumenti “trasparenti” (dal 5‰, a contratti specifici). Una rete di scuole “in verticale”, costituita in Fondazione potrebbe per esempio ridistribuire l’interesse dell’impresa anche verso la scuola di base, altrimenti non significativamente investita da tale interesse.

La seconda aveva valore di “politica generale”. Con una battuta sintetica: l’idea di varare “bond per la scuola” costituendo un fondo sul quale far convergere in modo finalizzato il risparmio privato per un impiego pubblico esplicitamente diretto allo sviluppo dell’istruzione come “ricchezza pubblica”.

Era una proposta “politica” con una base economica realistica. La crisi ha poi corroso il risparmio privato (che rimane il più elevato di Europa), ma credo che stia ancora in piedi.

Inutile dire che entrambe le proposte avrebbero un corollario necessario nel consolidamento di pratiche di “rendicontazione sociale” che superino, il formalismo delle regole della contabilità pubblica.

Franco De Anna

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