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Monetizzare il sapere

Pubblicato il: 24/11/2011 18:55:50 -


Una riflessione sulla proprietà intellettuale si impone con il progredire delle possibilità messe a disposizione dalla rete. Al posto di una prassi mirante a definire dall’alto, nel corso dei secoli, ciò che è giusto sapere e ciò che giusto non sapere, si sta sostituendo un orizzonte sterminato di possibili vie d’accesso alle informazioni e ai saperi contenuti in rete. Il tema costituirà certo il centro di un dibattito per larga parte ancora a venire, come Maurizio Matteuzzi intende dimostrare con il suo articolo “Tutti gli uomini tendono alla conoscenza per natura”. La domanda attorno a cui tutto ruota è probabilmente non come regolamentare l’accesso all’informazione, ma come regolarsi di fronte alla possibilità di carpire l’informazione anche contro la volontà di chi la produce o di chi ne è, solo per ragioni sistemiche e commerciali, il custode.
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Le parole non sono monete. Il linguaggio non è una forma di alienazione oggettuale. Se dico qualcosa a qualcuno, per comunicargli un mio pensiero, quel pensiero non sarà ceduto da me alla persona cui il mio discorso viene rivolto, ma diventerà una conoscenza condivisa, un sapere, per così dire, moltiplicato, un’informazione di cui entrambi siamo a conoscenza. La parola chiave in questo caso è informazione. La comunicazione può essere considerata, in effetti e a tutti i livelli, uno scambio di informazioni. Con il progredire degli strumenti comunicativi, come è ovvio, l’aspetto informativo della comunicazione ha assunto sempre più importanza, generando una serie di questioni non marginali.

Se si guarda alla comunicazione privata, allo scambio che avviene fra due o più persone di contenuti riconducibili a un orizzonte di interesse personale, il problema che si pone a livello filosofico ed etico è quello di stabilire gli elementi in gioco negli scambi linguistici, come è stato sottolineato dalle varie teorie sugli atti linguistici prodotte nel corso della seconda metà del ventesimo secolo. Se si affronta la questione da un punto di vista pubblico, i termini del problema cambiano, anche se alcune istanze restano invariate. Si pensi, solo per fare un esempio, alla questione dell’affidabilità della fonte, che riguarda sia gli scambi privati sia quelli pubblici.

La diffusione di informazioni a livello pubblico è abitualmente regolamentata da una serie di precetti e norme che stabiliscono che cosa può essere detto pubblicamente, e quali sono gli obblighi e le responsabilità di chi comunica l’informazione e di chi la riceve. In molti contesti, ad esempio, un contenuto informativo deve essere ritenuto vero, nel senso che si accetta tacitamente che non ci sia un intento ingannevole da parte di chi lo comunica, anche se esso si rivela in un secondo momento falso o errato, per cause indipendenti o a motivo di ulteriori controlli non praticabili in un primo momento. Così dovrebbe essere in ambito burocratico o giornalistico, o in tutti quegli ambiti che non ricadono esplicitamente dentro la categoria della fiction. Così, a maggior ragione, deve essere in ambito scientifico.

La comunicazione scientifica pubblica, sia quella specialistica che quella divulgativa, incorre una volta di più nell’obbligo di rispettare il requisito di verità o veridicità. Questo per una ragione tanto semplice quanto importante. Il suo valore, in molti casi, sta, oltre che nel contenuto informativo, anche, e in modo preponderante, nell’impegno morale che si assume chi comunica un certo contenuto. Nel caso della divulgazione scientifica il requisito della correttezza informativa è preponderante. Nel caso della comunicazione scientifica specialistica chi comunica un qualche risultato è tenuto – o si assume che lo sia – a compiere quanti più controlli è in grado di fare, dichiarando anche il modo in cui altri potrebbero mettere in pratica gli stessi controlli o protocolli sperimentali.

Tuttavia, l’ambito della conoscenza scientifica non è monolitico. La sua multiformità ha diversi risvolti per quanto riguarda l’aspetto comunicativo. Un ricercatore, uno scienziato, uno studioso hanno tutto l’interesse a comunicare le loro acquisizioni per accreditarsi nella cerchia più o meno ristretta dei loro pari e per avere un riscontro al proprio lavoro. Questo è il fine principale dell’editoria scientifica, cui si aggiunge anche un non secondario compito di selezione qualitativa e quantitativa delle produzione, per il quale inevitabilmente nascono problemi. Da un punto di vista qualitativo, al controllo che il ricercatore effettua sulle proprie ricerche si aggiunge la valutazione dell’importanza della ricerca, della correttezza delle metodologie impiegate, dell’assenza di plagio. Un board editoriale di una rivista scientifica ha questi specifici compiti e dovrebbe avvalersi di processi di peer review, cioè di revisione attraverso esperti del settore, per arrivare a compiere tutti i passi valutativi in modo rigorosamente anonimo. Questo è l’optimum esigibile. Ci sono poi casi differenti, come quando è una rivista ad invitare un esperto, sollecitando un suo contributo. Da un punto di vista quantitativo, l’editoria scientifica effettua un compito di selezione fra i sempre più numerosi contributi che la ricerca produce nel corso del tempo (anche a causa del noto imperativo del publish or perish), pure in questo caso applicando, presumibilmente, criteri legati all’importanza della ricerca e all’originalità dei contenuti. Non è difficile accorgersi che l’applicazione di questi criteri ha sempre una qualche caratteristica soggettiva ineludibile, legata alla circostanza che la valutazione viene compiuta da esseri umani sulla base delle loro conoscenze “esperte” del settore in cui operano. Ma cosa succede se l’editoria scientifica comincia a introdurre costi di pubblicazione sempre più elevati? Il rischio è che la comunicazione dei contenuti venga deformata.

Ritorniamo per un attimo ai contenuti dei prodotti della ricerca scientifica. Abbiamo già detto che essi possono essere di diverso tipo. Una ricerca può produrre dati e questi dati possono essere “sensibili”, cioè relativi a un qualche ambito privato, oppure utilizzabili in una serie di applicazioni pratiche in grado di portare a un qualche tipo di commercializzazione. In questo caso, un’eventuale pubblicazione dovrà tenerne conto e salvaguardare i contenuti, magari ponendo l’accento sulle metodologie e tralasciando il dettaglio dei risultati raggiunti. In molti casi, però, ciò che una ricerca produce non è solo un insieme di dati, ma anche una loro interpretazione teorica. Il sapere che così si produce non ha alcun interesse a essere nascosto. A differenza di ciò che succedeva nell’antichità o anche in epoca moderna, le forme che ha assunto la comunicazione nell’era contemporanea fanno sì che un’idea, un’ipotesi, una teoria acquisiscano importanza nella loro diffusione, anche se in futuro si riveleranno errate. Anche le teorie, dunque, non sono come le monete. Trasmetterle non toglie nulla a chi le produce, ma aumenta la conoscenza in chi le apprende, con un corollario importante, quello di maggiorare le possibilità offerte dalla teoria: di essere convalidata ulteriormente e, soprattutto, di essere criticata in un processo di produzione del sapere. Infine, le teorie sono anche il fondamento della didattica e dell’apprendimento di alto livello. Sulla comunicazione delle teorie, in forma manualistica o attraverso libri e riviste, si fonda la formazione dello studioso, così come del professionista che ci costruirà sopra le basi delle sue tecnicalità.

Cosa succede se poniamo dei paletti alla diffusione delle teorie e delle idee? La ricerca si blocca, la formazione vacilla per incompletezza, lo scienziato ha meno occasione di contribuire alla pratica scientifica, il professionista ha meno competenze, nel senso di conoscenze da tradurre in prestazioni operative. D’altra parte, vale anche la pena chiedersi cosa succede se non poniamo dei paletti alla diffusione delle teorie e delle idee. La ricerca si satura di innumerevoli costrutti, disorientando l’acquisizione di informazioni da parte dello scienziato e del professionista, e la persona in formazione non ha effettivi punti di riferimento stabili cui agganciare il progresso delle sue conoscenze e competenze.

Dunque, una soluzione sembra stare, come sempre, nel mezzo. Occorre un giusto equilibrio fra pubblicazione e diffusione delle idee, e selezione delle stesse attraverso opportuni meccanismi di filtraggio degli articoli che vengono sottomessi ai board scientifici. Una volta stabiliti i criteri, i paletti sono dati. Se si riduce ulteriormente l’accesso attraverso restrizioni di tipo economico, tutto il sistema rischia di saltare. E le idee di non circolare. Porre un prezzo alle riviste vuol dire riconoscere che una certa quantità di lavoro viene fatta con l’acquisizione e la selezione dei contributi, che si somma ai costi materiali, i quali con la diffusione attraverso la rete vanno via via assottigliandosi. Ma il prezzo non deve essere esorbitante, in modo che, se non gli individui, almeno le istituzioni possano sempre disporre dei contenuti delle riviste di contro a una somma ragionevole.

Se, inoltre, come sempre più spesso accade, si chiede anche un obolo o contributo a colui che vuole pubblicare le sue idee, i criteri di selezione rischiano di avere un diverso potere o una diversa funzione. Ad esempio, chi non ha fondi per pubblicare potrebbe essere scoraggiato dal sottomettere i suoi articoli. Oppure, in casi peggiori, potrebbe anche trovarsi di fronte a un ostacolo che non ha nulla a che fare con la valutazione, pure se essa dà un esito positivo.

Vediamo come tutto questo discorso si applica alla ricerca in generale e, in seguito, a quella “in formazione”. Per quanto riguarda la ricerca in generale, chi potrebbe avere interesse a diminuire la diffusione di una teoria, prodotto di un lavoro compiuto nell’ambito delle ricerca di base, se non un sistema editoriale basato quasi esclusivamente sul lucro? Non può esserci, infatti, un copyright su una teoria che descrive, poniamo, i fondamenti fisici dell’universo o i principi della giustizia penale. (si parla, a ragione, di proprietà intellettuale inalienabile). Sarebbe un controsenso, come se, appunto, le parole fossero monete che cedono, e non comunicano, il significato che esse portano con sé. Il discorso è più complesso, come si diceva in precedenza, per scoperte che possono portare ad applicazioni e innovazioni dal punto di vista industriale e commerciale (in senso lato). Ma qui le tutele già esistono. Si pensi al campo della genetica e ai risvolti in sede di industria chimica e farmaceutica che certe scoperte possono avere. E tuttavia, che senso avrebbe bloccare per ragioni economiche non commerciali la pubblicazione di un articolo che avanza ipotesi in merito alle cause geniche di una qualche malattia ereditaria?

Per quanto riguarda la ricerca “in formazione”, con questa espressione intendo riferirmi al ricercatore nella sua fase di passaggio dal periodo della formazione a quello dell’affermazione del proprio ruolo nel mondo accademico e scientifico. Oggi, sempre di più, specialmente in Italia, i “giovani” ricercatori sono costretti ad operare in condizione di svantaggio rispetto ai ricercatori senior e per una banale ragione: spesso le borse con cui i giovani ricercatori lavorano non hanno con sé una dotazione di fondi di ricerca adeguati. Il problema di dover pagare per documentarsi e accedere alle ricerche altrui può essere aggirato ricorrendo agli strumenti bibliografici delle università e degli istituti di ricerca, sempre che non siano decurtati i fondi e dunque le acquisizioni delle biblioteche. Tuttavia, il problema di dover contribuire alle pubblicazioni rende la barriera in molti casi quasi insormontabile al giovane ricercatore, che avrà solo la possibilità di aggregarsi ad altri ricercatori senior per pubblicare le sue ricerche o dovrà elemosinare contributi rimettendosi al buon cuore e al buon senso delle persone con cui lavora. Siamo sicuri che solo il buon senso di chi ha più esperienza, e deve metterci i soldi, possa bastare ad aprire la strada alle nuove idee e ai fertili contributi che un giovane ricercatore può dare negli anni in cui spesso è più produttivo, anche se è ancora parzialmente manchevole della disciplina dell’esperienza? Siamo sicuri che il miglior modo di fare ricerca è quello di basarla sul volontariato, anche se da una volontaria adesione a questo tipo di lavoro, pur tra mille ostacoli, deriva proprio la ricerca migliore?

Note bio:
Francesco Bianchini è ricercatore a tempo determinato presso il Dipartimento di Filosofia e Comunicazione dell’Università di Bologna. Nel corso degli anni si è occupato di tematiche legate alla filosofia della mente e dell’intelligenza artificiale, alle scienze cognitive, alla logica e alla filosofia della scienza. Ha trascorso un periodo di studio presso il Center for Research on Concepts and Cognition dell’Indiana University (U.S.) sotto la supervisione di Douglas Hofstadter. Ha pubblicato vari saggi e volumi miscellanei sul tema dei concetti e dell’analogia, sulla coscienza e su tematiche legate alla storia e all’epistemologia dell’intelligenza artificiale, quali “Concetti analogici” (Quodlibet, Macerata, 2008), “Instrumentum vocale”, (a cura di, insieme a Maurizio Matteuzzi e Alfio Gliozzo per Bononia University Press, Bologna, 2007), “Imitare la mente” (a cura di, per Quodlibet, Macerata, 2011) e The Search for a Theory of Cognition (a cura di, insieme a Stefano Franchi per Rodopi, Amsterdam-New York, 2011).

Francesco Bianchini

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