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Sesso a scuola: i “quasi bimbi” e i finti adulti

Pubblicato il: 19/07/2011 15:07:00 -


I quasi bimbi “lo” fanno, le femmine a undici, dodici anni, i maschi sembra un po’ più in là, ma di poco. Ma oltre a farlo, lo fanno preferibilmente e agevolmente a scuola. Qual è dunque il ruolo dei docenti e degli adulti (se c’è)?
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Desta allarme venire a sapere che una cospicua percentuale di undici e dodicenni, di entrambi i sessi, ma con prevalenza femminile, fanno sesso o comunque giochi sessuali di vario genere e spessore a scuola, e in taluni casi perfino in classe, in presenza di insegnanti che posseggono anche una vista lunga ma di certo uno sguardo corto. Ci riflettevo all’ombra di un pino insieme con un amico psichiatra al quale stavo leggendo una prima bozza dell’articolo-recensione sull’ultimo libro di Marida Lombardo Pijola (“Facciamolo a skuola” GrandiAssaggi Bompiani, 2011) che avevo in mente di inviare a Education 2.0. Gli avevo dato una impostazione un po’ severa e scudisciante nei confronti del solito adulto assente o, peggio, non vedente, non udente, non intuente. Dopo aver lanciato un accorato appello perché si riprenda a parlare seriamente della condizione cui continuano a versare dopo cinquant’anni di dibattito i “non in grado”, mi sembra sia il caso di spostare la riflessione su un’altra categoria di infelici verso cui l’insipienza del mondo adulto infligge giornaliere scudisciate, “i quasi bimbi”.

Il libro, attraverso la storia di Nina che a scuola fa mercato del suo corpo, denuncia infatti che i quasi bimbi “lo” fanno, le femmine a undici, dodici anni, i maschi sembra un po’ più in là, ma di poco. Ma denuncia altresì che oltre a farlo, lo fanno preferibilmente e agevolmente a scuola. Vale a dire che tra i tanti luoghi dell’assenza e dell’indecenza, oltre ovviamente alle case private, le disco, le auto, i parchi, i parcheggi delle discoteche c’è la scuola, anzi, la skuola. E questa mi sembra la ragione per cui forse è opportuno occuparsene in questa sede. Nel senso che gli adulti di riferimento sono qui non i genitori, i nonni, le zie, gli amici del vicinato o i coinquilini del condominio ma i bidelli, gli insegnanti della classe e della scuola i presidi e i vicepresidi e perfino il personale amministrativo.

Taluni potrebbero obiettare: ma che c’entrano questi signori con quanto fanno i “quasi bimbi” a scuola, (possiamo dire?) a loro insaputa? Altri potrebbero osservare: perché, cambia qualcosa? I primi: ma si tratta degli adulti che fanno funzionare la macchina organizzativa grazie alla quale i ragazzi ricevono dallo Stato la formazione culturale che serve loro per divenire uomini e donne e cittadini e non certo quelli chiamati a fornire loro una educazione sessuale che li preservi dagli incontri furtivi in bagno per prestazioni gratis o a pagamento. I secondi: perché questi adulti, occupati a insegnare materie scolastiche o tenere in piedi la struttura sarebbero esentati dal compito primario loro assegnato dalla condizione adulta, di farsi sentire, percepire vivi e presenti, attenti e pronti a rispondere alle sfide estreme e capaci di contrastare, di ergersi a freno, di esserci, sempre e comunque. Il tema è intrigante e controverso.

Lo psichiatra seduto accanto a me, a fine lettura mi guarda con una vistosa smorfia di dissenso: quello che fanno i ragazzi a scuola appartiene ai ragazzi, da sempre, non li ho mai notati e comunque non me li ricordo questi adulti che oggi sarebbero latitanti e che ieri sarebbero stati superpresenti e superattenti. Quello degli adulti, fuori o dentro scuola, è un altro mondo, ed è bene che resti tale.

Ascolto lo snocciolarsi dei suoi pensieri e mi chiedo se ha veramente senso tutto questo bisogno di denuncia, questo allarme e questo scalpore che trasuda dal libro della Lombardo Pijola e se il suo sgomento per i giochi erotici dei quasi bimbi non sia in fondo una indebita intrusione in una sfera che riguarda solo loro. E soprattutto avverto che l’amico stia dicendomi: dove sta il danno?

Mi industrio a rispondere allo psichiatra, come se non lo sapesse o come se lo volesse ignorare per darsi ragione che ritengo che ciò che rende il libro degno di interesse è l’idea in esso contenuta, e forse condivisibile, che la accelerata anticipazione di alcune esperienze che attengono alla scoperta di sé e dell’altro nell’ambito della sfera sessuale non solo non giovi ma forse possa danneggiare lo sviluppo dei quasi bimbi, proprio in quanto più bimbi che altro.

Si legge a tal proposito in una delle pagine finali del libro: “E intanto, avvertono gli esperti, l’erotizzazione precoce e anaffettiva contamina l’infanzia, erode lo sviluppo sessuale, personale, cognitivo, provoca depressioni, disordini alimentari, persino idee suicide”.

Mentre rifletto su questa questione mi ritorna alla mente un flash televisivo che in qualche modo rimanda a questa precocità ma anche all’atteggiamento adulto nei suoi confronti. Nella prima metà degli anni 2000, nella trasmissione di Vespa “Porta a porta”, Catherine Spaak, invitata a fornire le sue opinioni sull’adolescenza difficile (forse in qualità di nonna?) raccontò con tono certo allarmato ma con una sequenza di particolari ancora più sconcertante che le era giunta voce di un gioco molto in voga a quell’epoca presso i ragazzini di dodici, tredici anni, che si chiamava “L’Arcobaleno”. Confidando nell’assenza dei genitori, sempre attenti a non infastidire i figli con la loro presenza almeno fino all’una di notte, i pargoli organizzavano festicciole a casa di uno di loro. Qui le femminucce andavano in frotte in bagno a darsi sulle labbra un rossetto dalle tonalità sempre diverse le une dalle altre e poi tutte insieme correvano a nascondersi in una stanza. I ragazzini nel frattempo, rimasti nella grande sala, provvedevano a togliersi i pantaloni e gli slip e ad aspettarle dopo aver spento la luce. A un segno convenuto, le pargolette entravano e avvolte nelle tenebre discrete si industriavano ad agganciare un loro coetaneo prendendolo là dove quest’ultimo sembrava proiettarsi più in avanti. Una volta presolo, la bimba si dava da fare per lasciare su di lui un segno del suo passaggio. Finita la “marcatura” dei pargoletti, le bimbe fuggivano leggiadre come libellule per raggiungere la stanza accanto. Si riaccendeva la luce e ci si ritrovava tutti insieme nella grande sala. Qui i quasi bimbi, a turno mostravano fieramente il segno delle labbra fugaci e tutti, uno per volta, maschi e femmine, indicavano, ad attrezzo spiegato, a chi fosse collegata quella sfumatura di rosso cardinale, quel tono deciso di magenta, in una variegata gamma di sfumature cromatiche che dal fucsia spaziava nel vermiglione per toccare il cremisi e l’amaranto ed esplodere poi nel rosa shocking, senza trascurare l’incarnato, con un vago sentore di prugna…

Il tutto tra risate, sguardi divertiti, in un, mi verrebbe di dire, arcobaleno di gridolini trasognati e di ispezioni sempre più attente e scrupolose alle zone su cui il rossetto aveva lasciato il suo segno spiritoso perché, ovviamente a chi ne indovinava di più di colori, sarebbe stato assegnato un premio che, per fortuna, non era chiaro alla Spaak quale fosse, anche se non ci pare difficile intuire di quale meteorologica natura potesse essere.

Dopo aver sentito il racconto, l’amico psichiatra mi rimanda il suo sguardo interrogativo, come a dirmi: e poi che ne è stato?, niente penso, no?, il tutto è rimasto lì, non credo che ci sia stato qualcuno che abbia pensato che data la gravità della cosa bisognasse provvedere in qualche modo? Infatti aveva ragione, non era successo nulla. Ma entriamo nel merito del libro.

Per buona parte di esso la Lombardo Pijola ci presenta la storia di Nina, la storia vera di una dodicenne sfigata subito maltrattata dalla vita, a lei raccontata da una psicoterapeuta e da lei rielaborata in chiave narrativa, ampliata e arricchita attraverso numerosi dettagli di fantasia. E partendo da questa storia intende denunciare che, secondo le sue indagini, gran parte delle coetanee di Nina, “in un sottosuolo di riti e di pensieri quasi del tutto sconosciuto al mondo degli adulti”, conduce una vita analoga alla sua, da sfigata o da fighetta, ma sempre dentro lo stesso cliché e con la medesima attribuzione di valore conferita al proprio corpo: zero.

Perché accade? Per la Lombardo Pijola i quasi bimbi lo fanno per farsi scoprire, per farsi vedere, per punire, a loro modo, gli adulti che non guardano, o per sfidarli tutti quanti, per degradarli, per strappare, dice, dalle loro spalle le mostrine. E qui entra in campo il mondo delle scuola, con le sue regole, i suoi divieti, i suoi controlli. Sostiene l’autrice, che lo fanno a scuola con la fierezza di aver profanato le regole, svilito l’autorità, che ha perso il suo carisma. Che li ha lasciati soli, pure lei. Insomma i loro gesti hanno un destinatario, preciso, l’adulto assente, fuggiasco e inadempiente. Pur di farsi notare si fanno del male, fanno cose che lasceranno segni profondi nella loro vita e che spezzeranno inesorabilmente la loro giovinezza. Ma è così?

Questo fenomeno, ci dice l’autrice, “sta dilagando alla velocità della Rete, a ogni latitudine e in ogni ambiente sociale”. E perché gli adulti ne sono pressoché del tutto all’oscuro?

In forma non troppo mascherata il libro denuncia, pertanto, non saprei come definirla, non la limitata disponibilità, non la ridotta capacità, forse la scarsa o nulla attitudine di buona parte degli adulti a fantasticare sul mondo interno dei preadolescenti. Operazione che alla Pijola riesce in modo straordinario, supportata in questo fervore empatico da una prosa leggera e spumeggiante, sempre interna al mondo di Nina e mai solo descrittiva, come una che ci sta dentro insomma, che vive in diretta ciò che scrive, che prova e trasmette ciò che racconta, come Nina in una parola.

La Marida-Nina avverte e trasmette quel che gli adulti non vedono, non sentono, non toccano con mano; quel che accade molto vicino a loro e certamente anche nei luoghi in cui loro vivono e lavorano. Intendiamoci, toccare con mano non situazioni ma sensazioni, non fatti, ma stati d’animo, entrare in quel mondo non svelandolo ma intuendone i risvolti oscuri, le pieghe senza ritorno, gli angoli perversi e le impennate autolesioniste. È come se ci dicesse: è questo lo sguardo salvifico, quello che può sottrarre i quasi bimbi dalla perdizione, che può renderli capaci di stare con se stessi senza averne paura, senza scivolare nella noia e da lì smettere di guardarsi dentro e precipitare in un gioco infernale.

Ma questo sguardo non c’è. Non c’è a casa e non c’è scuola.

Usando l’artificio della psicoterapeuta sensibile e intuitiva, la Lombardo sviscera una serie sconvolgente di manchevolezze croniche, di soporose, imperdonabili distanze, di colossali distonie, una sorta di cloroformizzazione relazionale degli adulti, che vengono descritti avvolti in uno straniamento sensoriale e affettivo che li esclude tragicamente dalla comprensione del mondo dei quasi bimbi. I quali, dinanzi a quegli adulti che la Lombardo definisce “risponditori automatici, macchine che forniscono risposte predeterminate senza mai aver ascoltato le domande, per risarcirsi cercano diversivi per anestetizzarsi da qualcosa che trasforma la loro giornata in un burrone: la noia. La vertigine del vuoto li proietta verso la ricerca del successo, immediato. Cominciano a consumare i propri corpi nelle loro riproduzioni immateriali e poi passano a quelli in carne ed ossa, senza percepire l’oscenità del gioco, manca l’investimento di dolore e ‘si fa’ per non guardarsi dentro, per non conoscere quel che si vuole continuare ad ignorare”. La scuola si presenta come il territorio ideale nel quale trasformare in tattile ogni esperienza immateriale, in un gioco di temerarietà e trasgressione, di sfida al rischio e di ricerca di popolarità.

Dove attingono i quasi bimbi questa percezione di fruibilità dello spazio scolastico come perimetro possibile di azione? dove sono i precettori-protettori-contenitori del loro marasma emotivo?

La Lombardo riferisce che “ci sono stati in certe scuole insegnanti e presidi che hanno capito, intercettato e che hanno provato a strappare il velo della rimozione ma che sono stati costretti ad indietreggiare davanti all’ostinazione irriducibile di madri e padri che rifiutano di raccogliere indizi, di organizzarli nell’ordine che potrebbe rivelarne la natura”: quindi adulti hanno incontrato altri adulti resistenti e recalcitranti e si sono fatti da parte strozzando in un lamento flebile il loro smarrimento.

La sensazione che da questa lettura si ricava è che aleggi e si diffonda un fenomeno di rimozione collettiva che fa sprofondare e disperdere le segnalazioni, le denunce, gli indizi, i segnali, una gigantesca negazione adultocentrica che non consente che la bomba esploda. I mancati atteggiamenti adulti costituiscono un utile manuale di analfabetismo emotivo grazie al quale, sostiene la Lombardo, “non è stato possibile generare il microclima indispensabile per permettere ai bambini di essere bambini: cure, attenzioni, ascolto, armonia, accoglienze, accudimenti; non è stato insegnato l’alfabeto che disciplina il linguaggio della vita: regole, sentimenti, conoscenza, progetti, sensibilità, passioni, rispetto per gli altri e per se stessi”.

C’è ancora tempo per fare qualcosa? E cosa?

Elio Nicolosi

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