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Pubblicità, per gioco, in classe

Pubblicato il: 29/07/2009 17:50:19 -


A volte ciò che sembra inesorabile può essere affrontato... cambiando punto di vista.
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Terza elementare, in una scuola di Roma. Prima settimana di dicembre. Ricreazione in classe. Qualche bambino gioca, altri parlano, altri colorano, altri ancora litigano. Da giorni in aula non sento che ripetere la stessa domanda: cosa ti fai regalare per Natale? Riaffiorano alla mente vecchi ricordi. L’emozione del 25 mattina, la fretta di alzarsi dal letto per andare a cercare i regali, la curiosità davanti a quelle carte colorate, la gioia o la delusione nello scartarli. Invece i bambini che ho di fronte già sanno cosa ci sarà in quei pacchi. Cosa deve esserci in quei pacchi. Perché i loro desideri sono legge. Comincio a incuriosirmi tra tutti quei nomi stranieri che sento sempre sulle loro bocche in accese discussioni sulla superiorità dei superpoteri di un personaggio rispetto ad un altro. Sembra parlino di fatti accaduti a loro, invece no. Questi bambini non si frequentano tra di loro fuori dalla scuola, se non a qualche corso di calcetto o di danza, ma hanno tutti un’esperienza in comune, virtuale: guardano la tv alla stessa ora, vedono gli stessi programmi e naturalmente le stesse pubblicità. Ed ora, ovvio, hanno tutti la stessa risposta alla mia domanda: che regali desiderate ricevere a Natale? Tutti vogliono gli stessi giochi: quelli più reclamizzati, quelli più costosi.

No, così non va, qui bisogna fare qualcosa. Sono bambini o cloni? “Allora ragazzi, inventiamo una pubblicità. Forza, qui, tutti insieme”. “Una pubblicità? E’come si fa?” dice Carlo, mentre altri già si solo lanciati in improbabili ma fantasiosi slogan ripetuti a memoria dalla tv. Metto da parte per qualche ora le “materie” e al loro posto lanciamo in campo idee in libertà. Un brain storming. A turno mando ogni bambino alla cattedra.

“Prendi un oggetto, uno qualsiasi, una penna, una gomma, un quaderno, un gioco, quello che vuoi tu e cerca di convincere i tuoi compagni a comprarlo. Vedi la lavagna dietro alle tue spalle? È la cornice della tv, attorno al tuo volto. Sei dentro la pubblicità. Forza, vai, in libertà”. Sono venute fuori esperienze divertentissime, surreali e tante risate. Alla fine avevamo gomme che cantavano, righelli che suggerivano, penne che assicuravano tutti ottimi in matematica. Un vero successo, tanto che i bambini cominciarono poi a ripetere “il gioco” da soli, anche nei giorni seguenti, durante l’intervallo. Io partecipavo per lo più osservando, poi toccava a me e allora inventavo anche io delle pubblicità aggiungendo di volta in volta un elemento in più, sempre più sottile, sempre più difficile. Dal potere dei colori al potere dell’ordine delle parole nella frase, dalla musica al bombardamento di ripetizioni. Dopo qualche settimana era diventato “il gioco della pubblicità” completamente autogestito da loro. Per me è stato come assistere a un parto, alla nascita di qualcosa. Stavo assistendo al risveglio del loro senso critico, anzi per essere più esatti, li guardavo mentre loro scoprivano di avere un senso critico. E allora perché non dargli una fisionomia? Ho quindi disegnato questo “signor senso critico” alla lavagna. In una prima vignetta, dormiva beato, mentre i bambini guardavano la tv. Nella seconda si svegliava e andava a bussare alle loro spalle. Nella terza diceva: “Ehi, mica ti sarai dimenticato di me? Hai due occhi, un naso a patata, tanti capelli e me? Io sono nella tua testa! Mi dimentichi solo perché non mi vedi? E cosi, all’infinito. Questo “signor senso critico” cominciò a indossare mille vestiti, mille colori, divenne la mascotte della classe, il personaggi che poi ci accompagnò in ogni lezione. Tanto che alla fine dell’appello, al mattino, chiamavo anche lui: “Signor senso critico” e tutti i bambini in coro “presente!”.

I bambini delle altre classi si affacciavano incuriositi alla porta e io li invitavo ad entrare, a partecipare. Dopodiché tornavano nelle loro aule e lo insegnavano anche ai loro compagni di classe. Non senza critiche da parte dei colleghi.

L’ultimo giorno di scuola prima delle vacanze di Natale, diversi bambini mi fecero un “pensierino”. Io non insegnavo italiano, ma mi vidi arrivare sulla cattedra una marea di fogli a righe, alcuni strappati male, altri colorati, altri disegnati. “Maè’ – mi dice Marco – ho rifatto la lettera a Babbo Natale. Non le voglio più quelle cose, so’delle sole. Te fanno vedé che il robot cammina e non è vero, se non lo movi tu non fa niente. Te fanno vedè che la macchina si trasforma in un carro armato ma poi te ce devi mette tu mezz’ora a trasformarlo e io non so’bbono a’ffa ’ste cose, devo chiamà papà e poi succede un casino perché lui si arrabbia se lo chiamo mentre lavora… insomma, secondo te Babbo Natale me fa sostuire la lettera di prima con questa nuova o è troppo tardi?”.

Anna Maria De Luca

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