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In prima elementare, nel dopoguerra

Pubblicato il: 23/01/2019 11:03:28 -


Raccontando la scuola.
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Iniziamo con questo  racconto a pubblicare  alcuni ” ricordi”, perché nello sgangherato dibattito che  ormai ritualmente si apre e si chiude sulla scuola, si dimentica il senso, il valore e le emozioni di questo importante rito di passaggio, che  viene qui così ben evocato.

La redazione

 

Nel 1948, quando nacque la Costituzione, andavo in prima elementare, alla “Mazzini” a Roma, con un grembiule blu, un colletto rigido dal quale usciva un fiocco bianco, e sul braccio un’unica strisciolina di cotone che mia madre aveva cucito a indicare che facevo, appunto, la prima.

Non era una gran cucitrice, mia madre, e la stanghetta le venne un po’ storta, ma non mi importava: io stavo andando a scuola! La situazione, se non era proprio quella di Alice che passa  Attraverso lo specchio e s’imbatte in un mondo fantastico, ci somigliava terribilmente.

Ripensandoci a distanza di anni direi che il paradosso della scuola è tutto nella contemporanea presenza di due fattori: quello della sua ordinarietà e della sua straordinarietà. Perché varcata quella soglia niente più sarà come prima e avrà inizio il grande spettacolo della metamorfosi del nostro corpo e della nostra mente.

A sei anni, nel 1948, io e i miei compagni non sapevamo leggere e quanto a scrivere pensavamo che fosse un’astrazione irraggiungibile, ma con quel buffo grembiule “da femmine” – che lo avevano infatti identico, ma, au contraire, era bianco con il fiocco blu –  e una cartella marrone di cuoio rigido, la mattina attraversavamo tutti lo specchio al suono di una stridula campanella. I grembiuli blu separati dai grembiuli bianchi, una distinzione cromatica che anticipava già la divisione in classi maschili e classi femminili, che ci sembrava buffamente naturale.

Credo che, a dispetto della totale diversità delle forme e dei contenuti quella piccola epifania non sia andata ancora perduta anche se facciamo del tutto per ridurla a una banale consuetudine, un rito stanco celebrato da una minoranza di adepti.

Con la differenza che nella scuola non c’è proprio quasi nulla di rituale e, nonostante le apparenze, dentro le sue stinte mura si muovono una moltitudine di pensieri, di persone, di sentimenti, di storie, di insegnamenti, di relazioni, di colori e di immagini … insomma un caleidoscopio di vita le cui combinazioni rimangono a lungo nella memoria.

In quella cartella di cuoio c’era l’astuccio di legno con la penna e il pennino, poche matite colorate, una gomma, il temperamatite, poi una fetta di pane e una mela in un sacchetto di carta. E, cosa più inquietante di tutte, un quaderno con una copertina nero opaco e la relativa carta assorbente.

Il quaderno nero con le righe larghe – in terza gli spazi si sarebbero fatti più stretti – sembrava costruito apposta per suscitare apprensione nello scolaro. Sopra quelle righe avremmo cominciato a tracciare incerte linee, qualche curva e i cerchietti per poi asciugare frettolosamente il tracciato con la carta assorbente. E se qualche pelo rimaneva nel pennino potevamo pulirlo nella manica del grembiule, che tanto aveva lo stesso colore dell’inchiostro.

Certo avremmo potuto contare sul fatto che l’uomo da qualche millennio aveva inventato la scrittura, ma questo pensiero non sembrava arrecarci alcun sollievo. S’intingeva il pennino nel calamaio, e si proseguiva stando attenti a non sbavare sulla pagina bianca.

Il calamaio di vetro era inserito nella cornice esterna del banco, a metà strada tra me e il mio compagno: lo avevamo in comune, partecipi di una stessa sorte, tutto il blocco compatto del banco di legno ci rendeva complici. Uno stesso sedile, un calamaio, una stessa pedana, si trattava solo di scegliere il lato destro o sinistro del blocco, poi una volta seduti i movimenti per tutta la durata della mattinata si sarebbero ridotti al minimo indispensabile.

Le file di banchi nelle aule della Scuola Elementare Mazzini, nel quartiere Trieste a Roma, erano di solito quattro e i banchi che tutti intendevano evitare erano quelli delle due file di mezzo posti davanti alla cattedra, di compensato lucido, sotto il tiro diretto della “Signora Maestra”. Che, nelle scuole di borgata, dove insegnava mia zia Luisa, veniva chiamata “Sora Maé”.

La mia scuola, invece, era in un quartiere borghese (una parola dal significato mutevole con i tempi) e le sue mura confinavano con un grande parco. Un confine che segnava una separazione, perché Parco Nemorense era il luogo dei giochi mentre la scuola Mazzini… no! Quel nome “Nemorense” mi incuriosiva, ma nessuno ne conosceva il significato, fino a quando, in un’altra stagione della vita, non scoprii in un libro la sua origine.

Rinchiusi nei banchi di legno, il nostro desiderio spesso varcava quel confine e si muoveva libero per i sentieri di Parco Nemorense, un luogo più visitato con l’immaginazione che con i nostri passi. Ma il suo stesso nome, come appresi più avanti, invitava a fare questa scelta…

Quando, negli anni ‘60 tornai nelle aule della mia scuola, che per l’occasione erano diventate sezioni elettorali, mi guardai intorno e l’emozione del primo voto fu stemperata da un curioso pensiero, che non ho più dimenticato.

Guardavo i banchi di legno provvisoriamente sistemati nei corridoi e le carte geografiche appese alle pareti, vicino agli attaccapanni di ferro battuto a cui erano stati appesi i piccoli e goffi cappotti, anni ’50, con la martingala; tutto era rimasto più o meno uguale, in fondo erano passati poco più di dieci anni dalla mia prima elementare e la povertà di quegli arredi balzava di nuovo davanti ai miei occhi con una curiosa evidenza.

Il senso delle cose… già, sembrava che gli oggetti avessero acquistato col tempo un senso che l’immanenza del presente non aveva potuto certamente loro conferire. Ma ora, dopo un paio di lustri, era come se quelle cose avessero una densità di significato finora sconosciuta, e un pensiero si agitava nella mia testa, sotto forma di domanda. Com’è possibile che in queste stanze, con pochi e semplici strumenti, immersi in un’atmosfera di trasandata dignità, una maestra che aveva passato buona parte della sua vita professionale a insegnare ai figli della lupa, com’è possibile che sia riuscita a farci scrivere e leggere, non tralasciando troppo neanche il far di conto e a interessarci a tutto ciò che era contenuto nel favoloso Sussidiario, com’è stato possibile?

Incastrati in quei banchi scomodi la guardavamo rapiti e preoccupati nello stesso tempo mentre alla lavagna, sul versante a quadretti, ci spiegava le addizioni e le sottrazioni con un piglio severo: la signora maestra era esile, con una crocchia di capelli grigi sulla nuca, il gessetto tra le sue dita ossute lasciava un arabesco di segni, come strisce di nuvole nel cielo. Poi, con la sinistra, la Bonsignore, prendeva il cancellino – una fettuccia di feltro arrotolata a chiocciola – e faceva sparire le sottili nuvole nella disperazione di chi non aveva fatto in tempo a coglierne il significato.

Certo, nonostante le condizioni avverse, una sorta di fascinazione narrativa era presente nell’atmosfera dell’aula… non sempre, non per tutte le lezioni, ma spesso il livello di attenzione era alto.

Una figura femminile parlava ininterrottamente rivolta a un gruppetto di bambini: i toni non erano proprio rassicuranti e, soprattutto, non raccontava ma insegnava. E noi scolari eravamo in una condizione di dovere (imparare) e non del piacere (di ascoltare), ma era pur sempre una situazione archetipica capace di proiettare nel tempo l’immagine di una figura femminile e del potere della sua voce.

Giuseppe Fiori

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