ClanDESTINI (trentesima puntata)

“Un’altra nottataccia sulla volante!” disse il primo poliziotto toccandosi il cranio da poco rasato.

“Cominciamo bene.” borbottò il secondo sedendosi accanto al guidatore.

“Ormai non si può più andare avanti. Senza soldi non si canta messa.”

“Di che soldi vai parlando?” volle sapere il secondo poliziotto.

“Che poi i soldi sono solo una parte del problema…” borbottò l’altro.

“Ad averne!”

“Pensa se ci capita di vedere qualche extracomunitario che ciondola sotto un lampione, tu che dovresti fare?”

“Niente.”

“Come niente, dovremmo chiedergli come minimo il permesso di soggiorno, no?”

“Va bene, gli chiediamo il permesso di soggiorno.”

“E se è un clandestino?”

“Lo tiriamo su e lo portiamo…”

“Dove lo porti?”

“Be’… sempre per amor di discussione…”

“Al carcere no, che sono pieni, da noi in Questura no, che non abbiamo il posto, e poi però lo devi almeno far mangiare, deve bere, e assicurargli che può pisciare e tutto…”

“Lo portiamo con noi in macchina e prendiamo qualche snack alla macchinetta che abbiamo su…”

“Con i nostri piccioli…”

“Ma che vuoi dire?”

“Che secondo me quel negrone vicino alle macchine senza ruote il permesso di soggiorno ce l’ha!”

“E voltiamo la testa da un’altra parte.”

“Un posto sarebbe la morte sua, il CPT!”

“Non si chiama più così, non è il Centro di Permanenza Temporanea, è il Centro di Identificazione ed Espulsione, CIE.”

“Sempre campo di concentramento è… E dovremmo andare a Contrada S. Benedetto, ai capannoni industriali dismessi. O ai container.”

“Troppo fuori mano. Ci mettiamo tutta la notte. Secondo me, il permesso di soggiorno quello ce l’ha!”

“Prendiamoci un caffè che qui siamo fuori città e gli hanno dato il permesso di comprare una miscela buona, è una crema!”

“Niente roba di don Gerlando?”

“No, non lo so come fa ma qui il caffè è roba da paradiso, come in televisione!”

Entrarono, c’era poca gente, quattro giocavano a biliardo, un ubriaco dormiva e Didier e Kamal mangiavano brioches farcite di gelato e panna e bevevano cappuccini.

“E quei due ragazzini? Ci faccia due caffè marocchini. Macchiati caldi e con un po’ di cacao.”

L’uomo al bancone socchiuse gli occhi e si volse alla macchina. “Quali ragazzini? Quelli che mangiano le brosce col tuppo?”

“Ci sono solo loro… Quei due, un negro e un arabo, che si portano appresso quelle sacche… Ladri?”

“Hanno pagato.”

“Non lo so, ma sono ragazzini, io li fermo.”

“Aspetta, prendiamoci il caffè, tanto non scappano, hanno una fame arretrata.”

“E tutto quello che hai detto?”

L’altro alzò le spalle.

Didier e Kamal nello specchio del bar guardavano i due uomini in divisa.

“Scappiamo?”

“Troppo tardi.”

“T’avevo detto di non portare la Glock. Col numero grattato via!” disse Kamal.

“Già e andavamo da quel tipo disarmati. Il guaio è che ho messo fuori anche un diamantino, ne avessimo avuto bisogno.”

“Se ce lo trovano siamo veramente rovinati.”

“Glielo lasciamo e ci fanno andare via!”

“Con quelle facce?” Kamal guardò lo specchio ma non vide i due poliziotti.

“Dici che ce lo fregano e ci prendono uguale? Hai ragione, quello che mi preoccupa è la pistola. Dove ne trovo un’altra?” Didier inzuppò la brioche nel cappuccino.

“Secondo me ci dobbiamo preoccupare di che fine facciamo, ci portano dentro.”

Kamal sentì una morsa che improvvisamente gli serrava il polso sinistro, mentre l’altro anello delle manette si stringeva sul polso di Didier. La brioche cadde per terra, spargendo la panna e il gelato.

Il primo poliziotto la scansò col piede guardandola compassionevole “Non fate storie, non vi succederà niente di male.”

***

Nonostante lo spazio del capannone, che era notevole, la gente era affollata e raggruppata attorno ad alcuni container, molti dormivano avvolti in una coperta e qualcuno in un sacco a pelo. Avevano detto che volevano chiedere asilo, ma non c’erano ambienti separati per i richiedenti asilo, come del resto non c’erano per gli ex carcerati e le donne, molte delle quali avevano bambini piccoli che piangevano sommessamente. Kamal provò ad andare in bagno, ma tornò senza niente di fatto, le condizioni igieniche erano non solo carenti, insopportabili.

Didier temeva gli facessero anche una lastra, ma poteva stare tranquillo perché l’assistenza medica era del tutto inadeguata, a parte la prescrizione di sedativi e tranquillanti che lui finse di prendere ma sputò via, come faceva con la droga in guerra. Aveva finto di capire l’italiano solo sommariamente e ascoltava ciò che gli italiani dicevano di lui e di Kamal con gli occhi sbarrati del negretto spaventato di un film che gli avevano fatto vedere alla scuola-ospedale.

Come gli altri, erano ormai chiusi in una specie di prigione senza sapere nulla né del perché si trovavano lì dentro né di cosa sarebbe accaduto in seguito. Certo c’entrava la Glock, l’avevano trovata subito, ma il diamante no, quello era al sicuro.

Chi poteva essere ad aiutarli? Ci voleva davvero l’Uomo Mascherato per una situazione così! Didier pagò per farsi prestare un telefonino, qualche euro dall’Ospedale lo avevano portato via, e chiamò Linda. Lei disse che anche i rappresentanti delle ONG avevano difficoltà ad essere ammessi dentro i Centri, ma ci avrebbe provato, poi gli passò un attimo Tina e suor Annunciazione. Dovevano essere tutte insieme a tramare contro i loro ragazzi. Brave donne. Un calore gli salì dalla pancia e lo rincuorò un poco. Soldi ben spesi quelli per la telefonata.

La vecchia Panda verde penicillina superò il cancello del recinto di filo spinato e lamiere arroventate dal sole.

Il professor Natis parcheggiò l’auto nello spiazzo davanti agli uffici ed uscì, aveva un’aria accaldata e seccata, ma la sola vista del mare color azzurro cobalto, in lontananza, lo investì come una ventata d’aria fresca.

Il Centro di detenzione per immigrati e rifugiati era situato vicino a Capo Passero, la punta più estrema della Sicilia, non lontano dalle spiagge dove nel lontano agosto del ’43 erano sbarcati gli anglo-americani al comando del generale Montgomery, ma anche di Lucky Luciano. Quello di Agrigento lo avevano chiuso da poco.

Tirò un sospiro, chiuse a chiave l’auto ed entrò nella prima baracca-ufficio della Guardia di finanza, ficcandosi tra le labbra un mezzo toscano.

I due finanzieri gli andarono incontro.

“Ogni volta che c’è una grana mi mandate a chiamare?” li investì Natis.

Aveva guidato per più di cento chilometri sotto un sole cocente e con l’aria condizionata della vecchia auto che sembrava uscire direttamente da un fon.

“Già, ma le ultime volte non siete affatto venuto.” Replicarono i due finanzieri.

“Non ho nessun obbligo istituzionale, né con voi, né con altri… la mia organizzazione si chiama non governativa proprio per questo, altrimenti invece che un volontario sarei uno stipendiato, come voi.”

“Per me prendo meno io da stipendiato di un volontario. E va bè” fece Gino “allora mettiamola così: come mai questa volta siete corso appena vi abbiamo telefonato?”

“La risposta, voi carcerieri, l’avete già data: uno dei due bambini era armato e viene dal cuore dell’Africa, le probabilità che abbia un passato da bambino soldato sono molto elevate, dopo tutto la capacità di usare un’arma da fuoco non è innata nella razza umana, per fortuna!”

“Già, e Urgently è presente in qualche territorio dove si fronteggiano truppe di boy soldiers” disse Pino offrendo una sedia a Natis “che poi, secondo me, sono gli unici a meritarsi questo Centro di detenzione o prigione dei bambini, come la chiamate voi e i vostri amici giornalisti. Ognuno di loro ha sulla coscienza la sua pila di morti. Come in Ruanda, appunto, il paese da dove viene uno dei due clandestini…”

“Basta! L’ignoranza non è più sopportabile, in Ruanda tutto questo avveniva anni e anni fa, in Italia il fatto che un minore clandestino meriti la prigione avviene oggi!”

“Non si scaldi prof” lo invitò Gino “e non dica assurdità, l’abbiamo chiamata soltanto per andare a fondo della vicenda, per non rimanere nell’ignoranza. Lei è un esperto di questi meccanismi di massacro, del reclutamento dei boy soldiers e, per giunta, la sua ONG non è distante dall’Ospedale dove sono stati ricoverati i due bambini che abbiamo in custodia.”

“Come lo sapete? Come sapete che i vostri due prigionieri vengono dall’Ospedale di Montelusa?”

“Lo hanno detto loro” gli rispose Pino “quando gli abbiamo chiesto da dove venivano, noi intendevamo da quale parte dell’Africa venivano, loro si sono guardati, e ci hanno risposto ridendo ‘Dall’Ospedale di Montelusa, siamo scappati dalla scuola!’ Così abbiamo telefonato e abbiamo parlato con una dei vostri, si chiama Linda, e ci ha dato i loro nomi, Didier e Kamal…”

Natis interruppe bruscamente il racconto di Pino “Linda, giorni fa, è venuta da me e mi ha parlato di questi due bambini… sì, uno dei due viene dal Ruanda e se è scappato dal suo Paese e se gira per la Sicilia con una pistola potrebbe conoscere segreti molto più grandi di lui… oppure è un clandestino come tanti che trova, però, vantaggioso vestire i panni del mitomane. E queste sono le conclusioni non concludenti alle quali siamo giunti io e Linda nella nostra unica conversazione sull’argomento.”

Il prof Natis finalmente si sedette, cacciò dalla tasca uno zippo d’acciaio e si accese il mezzo toscano che gli pendeva dalle labbra.

“Non è come tanti” esclamò Pino “noi ne abbiamo visti tanti, tutti i giorni, ma lui…”

Il telefono sulla scrivania squillò. Gino rispose “… No, giornalisti no. Qui possono entrare solo i rappresentanti dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati e magari quelli delle solite organizzazioni non governative. Ma adesso sono occupato con uno di loro, lasciatemi in pace.”

“Piuttosto, prima che si diffonda la notizia” disse Pino sedendosi davanti al pc “trasmetto i dati e le foto dei due clandestini alle Questure e agli altri soliti indirizzi.”

“Insomma che volete da me?” chiese Natis spazientito.

“Che tiri fuori più informazioni possibili, è chiaro no? Lei conosce il suo paese, conosce il contesto che ha spinto un bambino a sparare tutti i caricatori che gli venivano dati… poi a fuggire e arrivare sulle nostre spiagge…”

“Lei è l’unico” continuò Gino “che gli può tirar fuori il resto della storia, perché del suo passato ce ne possiamo anche fregare, ma il suo presente ci interessa molto… e quella Glock con la matricola grattata, ci metto la mano sul fuoco, viene dall’armeria di qualche clan mafioso.”

Il prof Natis aspirò una lunga boccata e trattenne a lungo il fumo “Va bene, vado da Didier e Kamal” disse alzandosi “ma che strani carcerieri siete voi due, avreste dovuto fare gli agenti segreti!”.

(continua)

(La storia di ClanDESTINI è frutto della fantasia degli autori: qualsiasi riferimento con la realtà, fatti, luoghi e persone vive o scomparse, è puramente casuale).

Calcerano e Fiori: il viaggio di Didier, un video riassunto che svela scenari inediti sulla storia di Clandestini

È in libreria “Teoria e pratica del giallo“, la nuova fatica di Luigi Calcerano e Giuseppe Fiori per le stampe di Edizioni Conoscenza.

Qui le modalità per l’acquisto del libro.

Le puntate precedenti

Prima puntata

Seconda puntata

Terza puntata

Quarta puntata

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Settima puntata

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Ventottesima puntata

Ventinovesima puntata

L’intervista agli autori, Il giallo d’appendice


La video presentazione di Luigi Calcerano e Giuseppe Fiori, Un giallo prezioso: ClanDESTINI


Luigi Calcerano e Giuseppe Fiori, narratori e saggisti, vivono e lavorano a Roma. Hanno scritto insieme numerosi romanzi polizieschi. Per ulteriori informazioni si possono consultare:
http://it.wikipedia.org/wiki/Luigi_Calcerano

http://it.wikipedia.org/wiki/Giuseppe_Fiori_(narratore)

http://www.luigicalcerano.com

http://www.giuseppefiori.com

Calcerano e Fiori