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Dove va l’educazione?

Pubblicato il: 06/10/2025 14:33:45 - e


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Gallina: Ho letto con interesse la voce di “aggiornamento “ che hai predisposto per  l’appendice X nel vol.I del 2024 della Treccani. Vorrei  ripercorrere con te alcuni dei temi che hai sviluppato, che ritengo possano essere di stimolo  a chi oggi, in una realtà così disorientata e soprattutto disorientante, si pone il problema di agire in modo efficace nel lavoro educativo, sia che si tratti uno studioso/a di pedagogia, sia che sia un operatore / operatrice in una istituzione sociale, culturale, politica, che riguarda l’educazione.

Sei partito cercando di sintetizzare il senso antropologico e storico della funzione educativa

Lucisano: Già, si potrebbe dire in principio era l’educazione.

L’educazione, infatti, accompagna la nostra specie fin dalle origini. La lunga dipendenza dei piccoli dagli adulti rende indispensabile un intreccio di cura e di trasmissione culturale: senza protezione, nutrimento e guida, la specie non sopravviverebbe senza la condivisione di abilità (techné) e regole di convivenza, non si consoliderebbero né le economie del gruppo né le forme simboliche che ne tengono insieme l’identità. In questa doppia radice che vede da una parte cura e regole di convivenza e dall’altra la trasmissione della techné – si iscrive la funzione primaria dell’educazione: consentire la continuità della specie in un contesto sociale plasmato da norme condivise e al tempo stesso la conservazione delle tecniche acquisite in passato e la capacità di evolverle migliorando l’adattamento all’ambiente delle nuove generazioni.

Per questo le pratiche educative cambiano con il mutare dei contesti. Ambienti, strumenti, media, soggetti coinvolti, obiettivi e criteri di valutazione si sono sempre evoluti. Basti pensare che agli inizi del secolo scorso si chiamava esame di maturità l’esame di quinta elementare, perché allora dopo quell’esame la maggior parte dei bambini era avviata al lavoro. Eppure, alcuni elementi restano costanti: la tensione tra protezione e libertà, tra norme e sperimentazione, tra identità collettiva e singolarità. Come ha ricordato Benedetto Vertecchi, educazione e valutazione sono «figlie del tempo»: rispecchiano valori e priorità di un’epoca, ma non smettono di interrogare il futuro.

Gallina: Tuttavia mi sembra tu metta in luce come i processi educativi siano sempre stati segnati da contraddizioni e tensioni 

Lucisano: In effetti  l’educazione è una storia di tensioni: controllo e autonomia, tradizione e innovazione

Dalle narrazioni bibliche al mito greco, l’educazione appare come spazio di conflitto tra generazioni. Nella Genesi, la condizione “ideale” predisposta da Dio esige delega e obbedienza; la creatura, però, rivendica conoscenza e scelta. Nei miti di Saturno/Chronos ed Edipo ritornano, in forme diverse, la paura degli adulti di essere scalzati e il desiderio dei giovani di affermarsi. Nelle pratiche quotidiane, questo si traduce in un equilibrio mai definitivo tra il controllo dell’adulto (che protegge ma restringe) e la spinta dei bambini e dei giovani a esplorare e decidere da soli.

La stessa trasmissione delle tecniche e delle scienze porta in sé un paradosso: il metodo consolida risultati e stabilità, ma l’atteggiamento scientifico – fatto di curiosità, creatività e dubbio – ne mette in questione i confini. Paul Feyerabend ammoniva che nessuna norma metodologica è stata preservata in ogni circostanza: spesso le “violazioni” hanno aperto nuove strade alla conoscenza. In termini educativi, ciò significa che il rispetto delle regole è necessario, ma non sufficiente: serve anche lo spazio per l’invenzione e l’errore, senza i quali non nasce un autentico pensiero critico. Il metodo è la strada vecchia, quella già percorsa, che in qualche modo offre un’alta probabilità di raggiungere il risultato già raggiunto da altri, che la insegnano. La strada nuova, senza la quale non ci sarebbe progresso comporta rischi e possibilità di insuccesso, ma è la sola che può produrre quel cambiamento di cui si avverte la necessità. La strada nuova non si può insegnare, nessuno la ha percorsa fino alla fine, si può solo aiutare a crescere persone capaci di cercarla.

Quando il modello tradizionale si impone senza ascolto, tipicamente produce passività e conformismo; quando, al contrario, l’istanza giovanile si sottrae a ogni responsabilità, scivola nell’individualismo. L’educazione vive in questa dialettica, con esiti che dipendono da come scuole, famiglie e comunità riescono a contrattare obiettivi, regole e margini di libertà, e ad aiutare a sviluppare nei giovani abiti autonomi di giudizio.

Gallina: A questo punto, fai riferimento al concetto di sostenibilità, quasi a voler dire che non si riescano a realizzare le condizioni materiali e culturali per realizzare quella educazione che tutti sembrano desiderare

Lucisano: In verità senza i mezzi per conseguire i fini l’educazione è insostenibile.

A ogni nuovo problema sociale i decisori politici e gli adulti tendono a invocare “più educazione”. È comprensibile: la formazione promette crescita personale, benessere collettivo e coesione. Tuttavia, tra promesse e risultati si apre un divario. Le società si dicono pacifiche e solidali, ma faticano a ridurre violenze, ingiustizie e disuguaglianze; le istituzioni dichiarano la centralità della scuola, ma dedicano risorse e spazi insufficienti, dotazioni e retribuzioni inadeguate. Kant si chiedeva se bisognasse educare i giovani alla società così come è al momento presente o prepararli a un mondo migliore e considerava nella seconda prospettiva gli adulti, genitori e governanti l’ostacolo principale. Tra le dichiarazioni di principio e le pratiche c’è dunque una dissonanza, le cui ragioni possono essere fatte risalire a due aspetti che richiamano il tema della sostenibilità.

Il primo è la sostenibilità economica: un sistema educativo di qualità richiede docenti preparati (sul piano disciplinare e psicopedagogico), ambienti dignitosi e strumenti aggiornati. Questi costi, spesso, non vengono affrontati con serietà. Si attribuiscono alle agenzie educative fini ma le si abbandonano senza i mezzi necessari, salvo poi dolersi del non raggiungimento dei fini, utilizzando questo rammarico per un ulteriore riduzione dei mezzi.

Il secondo aspetto è la sostenibilità socioculturale: i valori inculcati ai giovani – pace, onestà, cura dei beni comuni – sono contraddetti dalle pratiche degli adulti. Quando studentesse e studenti contestano, per esempio, accordi tra università e industrie belliche o chiedono che i governi rispettino le loro stesse decisioni sui temi ambientali, quando chiedono il rispetto dei diritti e comportamenti solidali, vengono spesso ripresi. La richiesta di coerenza è interpretata dal mondo adulto come lesa maestà. L’adulto è piegato alla servitù volontaria che accetta che, pur esistendo regole bisogna accettare l’eccezione della trasgressione da parte del più forte le trasgredisca. Anche se è nudo, maleducato e bullo è il re è re.

Anche i progetti più innovativi, pur riconosciuti a parole, vengono “normalizzati” e piegati a logiche tradizionali. Intanto, reti familiari e associative si indeboliscono: la scuola resta sola a reggere compiti educativi, di istruzione e di cura che richiederebbero un coinvolgimento più ampio e concreto dell’intero sistema sociale. 

Il risultato è una disillusione che pesa su famiglie, docenti e allievi.

 

Gallina: Al tempo stesso mi sembra che tu prenda le distanze sia dagli eccessi che dalle disattenzioni educative del mondo contemporaneo, l’educazione a tutto, per tutta la vita. 

Lucisano: Dalla seconda metà del Novecento il concetto di educazione si è andato dilatando coprendo tutto l’arco della vita e estendendosi a ogni ambito dell’esperienza. Educazione alimentare, finanziaria, civica, ambientale, affettiva, posturale, digitale… L’elenco è potenzialmente infinito. Così come è immenso il numero di persone che si intestano di insegnare sempre dotati di elenchi di punti da rispettare per avere successo in quello che si fa. Questo allargamento, in parte ragionevole, ha anche prodotto una nuova normatività: cataloghi di competenze, modelli, protocolli e prescrizioni che, orfane di religioni e ideologie forti, cercano legittimazione nella riduzione dell’idea di scienza a principio di autorità. Ma la scienza prima di trasformarsi nel materiale contenuto negli atti delle organizzazioni scientifiche, nei giornali e nei libri di testo è in primo luogo ricerca attiva.

Il rischio non è la scienza in sé — che è metodo, dubbio e confronto — ma il suo uso come sigillo di potere: norme presentate come “oggettive” possono irrigidire e appiattire, specialmente quando la super-specializzazione impedisce il dialogo tra saperi.

Ci si accontenta di insegnare i risultati della scienza, come nozioni, come un tempo si insegnava il catechismo con domande e risposte predefinite. Una religione senza fede.

Gallina: Le istituzioni educative, scuole e università sono tuttavia al centro dei dibattiti politici e sono state oggetto di molti interventi di riforma e di adeguamento ai cambiamenti sociali e tecnologici.

Lucisano: Nel mondo occidentale scuole e atenei hanno attraversato una lunga stagione di aggiustamenti e spinte esterne, che pur autodefinite riforme, hanno avuto più che altro il carattere di pezze su otri usurati. In molti paesi si è incrinata l’idea dell’istituzione come bene comune cui si delega un compito collettivo: prevale la visione del servizio, talvolta affidato a privati, giudicato in base alla soddisfazione dell’utenza. 

Alla rinuncia dello Stato a svolgere appieno la sua funzione si accompagna una crescente disaffezione verso le istituzioni: partecipazione in calo, astensionismo alle elezioni scolastiche, universitarie e politiche.

L’idea che le regole del mercato libero potessero migliorare l’efficienza e l’efficacia di attività istituzionali come scuola e sanità ha portato alle logiche della concorrenza tra istituti e dipartimenti, della promozione dell’immagine, dei ranking. Ma l’educazione non è un bene di consumo: trattarla come tale impoverisce il suo valore intrinseco di crescita personale e culturale.

Nel quadro italiano si sono moltiplicati i contenziosi all’interno delle scuole tra genitori e famiglie, mentre si indebolivano collaborazione scuola–famiglia e autonomia professionale dei docenti. La rincorsa a “piacere” agli utenti e ai sistemi di controllo ha incentivato pratiche didattiche a basso rischio (gradevoli ma superficiali) e una valutazione orientata al consenso.

Gallina: Mi è sembrato utile per il modo in cui presenti l’esame delle principali pressioni culturali sul sistema formativo; se non sbaglio, utilizzi per definirle il termine “mode” dando a questo termine un’accezione negativa. 

Lucisano: Ho provato a descrivere, definendole mode, quattro correnti culturali che stanno spostando il baricentro educativo che dovrebbe essere quello del sostegno alla crescita delle persone: Quattro mode che stanno spostando il baricentro educativo

Il capitale umano

L’idea di educazione come investimento azionario sulle persone – il cosiddetto capitale umano – ha avuto una grande influenza sulle politiche degli ultimi decenni. È una prospettiva comprensibile, perché lega formazione, occupazione e crescita economica. Ma se diventa il principale criterio, restringe lo sguardo: riduce gli allievi a “portatori di rendimenti futuri”, trascura dimensioni affettive, civiche ed estetiche, e spinge verso scelte didattiche strumentali. Inoltre, in un mercato del lavoro volatile è difficile persino prevedere quali competenze saranno richieste a medio termine; il rischio è inseguire l’ultima moda, diminuendo la pluralità dei saperi (umanistici, artistici, sociali) che servono alla qualità della vita democratica. Le conseguenze sono note: ansia da prestazione, migrazioni di talenti dalle aree fragili a quelle forti, povertà educativa in interi territori.

L’approccio manageriale

L’aziendalizzazione ha introdotto strumenti utili all’efficienza organizzativa, ma spesso ha spostato l’attenzione dalla vita educativa alle performance misurabili. L’autonomia formale senza leve reali (sul reclutamento, sulle risorse) ha spinto molte scuole a cercare finanziamenti sul territorio, spesso dagli stessi genitori, alimentando disuguaglianze. In parallelo sono cresciuti i carichi burocratici e si è ridotta la centralità pedagogica del dirigente. La pressione sui test standardizzati ha indotto un “teaching to the test” che restringe l’esperienza di apprendimento.

La distribuzione delle risorse ha finito, in diversi sistemi, per premiare chi già parte avvantaggiato — scuole e dipartimenti “di eccellenza” — lasciando indietro chi opera in contesti più difficili. È una dinamica nota anche nel dibattito italiano, dove indicatori e fondi premiali rischiano di ampliare i divari invece di colmarli.

La customer satisfaction

Considerare studenti e genitori come clienti cambia la natura del patto educativo: l’insegnante diventa impiegato di un servizio, valutato per la piacevolezza e per la rispondenza ai desiderata dei genitori più che per la profondità degli apprendimenti. L’autorevolezza e l’autonomia professionale si restringe; la pressione verso attività “leggere” aumenta; le decisioni scomode (ad esempio su valutazioni rigorose) rischiano di essere scoraggiate. La competizione per attrarre immatricolati e finanziamenti favorisce investimenti d’immagine a scapito del lavoro più impegnativo su didattica e ricerca. 

La follia valutativa

Negli ultimi decenni si è affermata una vera e propria “cultura del controllo amministrativo”: classifiche, benchmark, prove standardizzate, rendicontazioni continue. Come hanno provocatoriamente scritto Abelhauser, Gori e Sauret, la valutazione è diventata una forma di governo. A scuola e all’università, ciò ha generato ansia, spostato tempo dall’insegnamento agli adempimenti, e prodotto un’idea implicita: che ciò che conta sia solo ciò che è facilmente misurabile. Eppure, molte dimensioni decisive dell’educazione – curiosità, fiducia, creatività, responsabilità – non entrano agevolmente in una griglia. Si è privilegiato il misurare tutti sul misurare bene e si sono confuse misure di sistema con diagnosi di abilità individuali. L’esito è paradossale: più misuriamo, meno comprendiamo la complessità degli apprendimenti. 

Al tempo stesso molte delle voci che si sono levate contro queste pratiche tendono a non cogliere il rilievo che comunque ha nell’esperienza la possibilità di avere feedback corretti sugli esiti delle proprie prestazioni, inseguendo modelli poco praticabili e senza un adeguato retroterra di ricerca.

Gallina: Mi sembra poi che tu riprenda un tema caro al tuo maestro Aldo Visalberghi che aveva sostenuto la necessità di una scuola aperta e per questo capace di accogliere tutti, mentre sembri preoccupato dalla medicalizzazione dei bambini troppo vivaci. 

Lucisano: Di fatto al prezioso lavoro per realizzare una scuola inclusiva ma al tempo si sta sovrapponendo la crescita di diagnosi che certificano bisogni differenti (disabilità, disturbi specifici di apprendimento, bisogni educativi speciali) e un clima che tende talvolta a medicalizzare ciò che potrebbe essere più ragionevolmente affrontato con una didattica diversa e più attiva. Ore interminabili seduti, ambienti poco accoglienti, ritmi eccessivi, spazi poveri di movimento e relazione contribuiscono al malessere degli studenti. In questo quadro si tende a considerare anormali i bambini e i ragazzi che faticano ad accettare la costrizione anche con il ricorso a terapie farmacologiche.

Accettare e aprirsi alla ricchezza delle differenze degli umani è diverso dal cercare di ridurli alla nostra “normalità” atteso che questa sia definibile operativamente

La scuola come spazio aperto e accogliente rimane una conquista da presidiare con serietà: non basta l’etichetta, servono didattiche flessibili, tempi distesi, metodologie cooperative e ambienti adeguati. Inclusione significa progettare per valorizzare le differenze, non solo compensare o dispensare. Se oggi la scuola è individuabile a un tempo come un’esperienza indispensabile e non sostituibile e allo stesso come fonte di malessere per una percentuale rilevanti di studenti la soluzione non è nel fornire supporto psicologico a coloro che stanno male, ma nel intervenire sulle caratteristiche dell’esperienza scolastica che creano malessere.

Gallina: Ovviamente non possiamo non toccare il problema del ruolo delle nuove tecnologie e dei media e di come possa essere affrontato nei sistemi educativi

Smartphone e piattaforme hanno ampliato occasioni di apprendimento informale, ma hanno anche moltiplicato dipendenze, camere dell’eco, campagne di odio e disinformazione selezionano ciò che vediamo, alimentando bolle informative che condizionano percezioni e scelte. È qui che l’educazione ai media non può ridursi a “uso sicuro degli strumenti”: serve una formazione allo spirito critico, alla verifica delle fonti, alla discussione argomentata e – non meno importante – spazi reali di socialità, gioco, cultura.

La pandemia ha mostrato quanto grandi siano i divari digitali: connettività, dispositivi, competenze. L’accesso disuguale ha reso evidente che “digitale” non equivale automaticamente a “inclusivo”. Anche le tecnologie migliori richiedono politiche e risorse per non ampliare le disuguaglianze.

Ma l’accelerazione delle tecnologie è un’occasione educativa di grande momento per immaginare una scuola dove insegnanti e studenti imparando insieme e dove l’autorità risieda nelle capacità e nel ruolo che si riesce a giocare e non uno status.

Realmente e non artificialmente intelligenti

L’intelligenza artificiale (AI) è già parte degli ecosistemi formativi. Può personalizzare percorsi, fornire feedback tempestivi, alleggerire compiti ripetitivi, sostenere lo studio fuori dall’aula. Integrata con la professionalità docente, può liberare tempo per attività di interazione, laboratorio, ricerca, cooperazione. Ma l’AI non può esaurire l’educazione: apprendere non è accedere a informazioni; è esperienza situata, corporea, relazionale, fatta di rischi e responsabilità. Maria Montessori voleva piatti di ceramica e bicchieri di vetro per aiutare i bambini a capire gli effetti dei loro comportamenti.

C’è inoltre un rischio di dematerializzazione: confondere il “consumo di contenuti” con l’apprendimento. Se l’AI diventa la sola interfaccia, i sensi e il corpo arretrano. Per questo la didattica del futuro dovrà essere ancora più attiva e laboratoriale, capace di unire pensiero ed esperienza, tecnica e giudizio, ambiente e comunità. La tecnologia, da sola, non rimuove gli ostacoli di ordine economico e sociale né garantisce la partecipazione di tutti: questo è il compito politico assegnato dall’art. 3 della Costituzione. E la richiesta dei «doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» appartiene all’art. 2: un promemoria sul quadro valoriale entro cui progettare l’innovazione educativa.

Gallina: Vorrei che provassi ora a chiudere la nostra riflessione con qualche indicazione operativa, che aiuti a trovare una prospettiva positiva a chi si impegna nell’impresa educazione nei diversi ruoli di genitore, educatore, insegnante, forze sociali e decisori politici.

Proviamo a partire dalla considerazione che l’educazione si compie nel tempo.

Philippe Meirieu riprende la distinzione aristotelica tra poiesis (produzione di un oggetto) e praxis (azione che si compie nel tempo). Se confondiamo l’educazione con la fabbricazione di un prodotto, cerchiamo esiti certi a breve, indicatori esaustivi, conformità. Ma l’educazione è praxis: i suoi effetti maturano lentamente, in contesti diversi, attraverso percorsi non lineari. Per questo le politiche basate solo su performance e controlli perdono di vista ciò che conta: creare condizioni, non imporre format.

L’immagine utile non è il “muro di mattoni tutti uguali” – l’ironica denuncia dei Pink Floyd – bensì il muro a secco dei maestri artigiani: pietre diverse, incastri precisi, equilibrio senza cemento. Un muro che fa forza della diversità delle pietre che lo compongono. Tradotto in didattica: progettazione attenta alle differenze, valorizzazione dei talenti, cura dei legami, tempi lunghi per imparare.

Una seconda considerazione è nel rilievo che rispetto, giustizia e politica hanno nella dimensione culturale dell’educazione.

Yuval N. Harari ha mostrato come i grandi miti condivisi costituiscano collettivi capaci di cooperazione su vasta scala. L’educazione è uno di questi miti fondativi: un’idea che ha generato scuole di pensiero, pratiche, convenzioni internazionali. John Dewey, alla vigilia della seconda guerra mondiale, metteva però in guardia: il prestigio della scienza può essere strumentalizzato per interessi di parte attraverso metodi antiscientifici. È una lezione preziosa per l’oggi: serve rigore metodologico, ma anche vigilanza democratica sul suo uso.

Nel mito di Prometeo ed Epimeteo, che Platone narra nel Protagora, gli umani che Epimeteo aveva dimenticato di dotare di caratteristiche che ne garantissero la sopravvivenza, ricevono da Prometeo il fuoco e la techné, ma rischiano di autodistruggersi perché usano queste risorse per uccidersi tra loro. Per evitare questo disastro interviene Zeus che dona rispetto, giustizia e politica. 

L’educazione non può fiorire senza istituzioni giuste e lungimiranti. Senofilo (attribuito alla tradizione pitagorica) rispondeva a chi chiedeva come educare bene un figlio di farlo vivere «In una città ben governata». È un invito a leggere l’educazione come parte di un progetto sociale più ampio: senza politiche coerenti, gli sforzi dei singoli docenti e delle scuole restano eroismi isolati.

Infine se vogliamo rendere l’educazione all’altezza del suo compito, servono alcune scelte concrete:

  • Finanziamenti stabili per ambienti, laboratori, biblioteche, arte e sport; 
  • Formazione iniziale e in servizio dei docenti che intrecci didattica disciplinare, psicopedagogia e progettazione attiva; 
  • Valutazione sensata: meno adempimenti, più feedback formativi, dati letti con cautela e contestualizzati, attenzione al dare conoscenze e abilità reali; 
  • Scuola aperta, attiva, inclusiva: tempi distesi, collaborazione e dialogo tra docenti e stidenti, co-progettazione con il territorio; 
  • Educazione ai contenuti disciplinari, ai media e all’AI come educazione al giudizio o se volete alla valutazione o ancora, come direbbe Dewey alla libertà dell’intelligenza. 
  • Governance che riduca la burocrazia e restituisca centralità pedagogica alle figure di leadership.

Non esiste un modello unico valido dappertutto. Esiste però una direzione di marcia: rimettere al centro le persone e i contesti, arricchire i fini dei mezzi necessari per realizzarli. Usare le tecnologie come mezzi e non come fini, utilizzare le misure con intelligenza, rendere possibili esperienze significative dove si pensa, si fa, si sbaglia, si ragiona sugli sbagli e si ricomincia.

Credo sia il caso di ricominciare.

Piero Lucisano e Vittoria Gallina

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