Come la penicillina…

Lavoro in una scuola di Roma, la Leopardi, dove da sempre gli insegnanti hanno posto particolare attenzione all’insegnamento delle scienze, partecipando a progetti specifici e creando occasioni di scambio in seminari e convegni sulla didattica delle scienze nella scuola di base.
Si tratta di una pratica che è incentivata dalla particolare ubicazione della scuola ospitata all’interno di una Riserva naturale: il parco di Monte Mario.

Si può facilmente intendere che la proposta di partecipare al progetto europeo kidsINNscience da parte dei responsabili per l’Italia Michela Mayer ed Eugenio Torracca ha trovato subito una risposta positiva da parte delle insegnanti della mia scuola.

Affrontando le unità didattiche proposte – nel nostro caso abbiamo lavorato sulla fiamma della candela il primo anno e sui legami molecolari nel secondo –, ci siamo progressivamente trovate a cambiare il modo di affrontare il nostro impegno professionale: abbiamo discusso e condiviso obiettivi, abbiamo confrontato percorsi differenziati per contesti, abbiamo prodotto strumenti adeguati alla raccolta di informazioni sul processo in atto, ma soprattutto abbiamo affrontato la gestione in gruppo degli imprevisti.
Proprio questo, secondo me, ci ha fatto fare un salto di qualità: mettere in atto una modalità di lavoro cooperativo di fronte a contesti reali di ricerca che ci obbligavano a lavorare “senza rete”.

Il nostro gruppo si è caratterizzato fin da subito per la buona coesione, individuabile dalla partecipazione costante agli incontri quindicinali: chi non poteva partecipare si aggiornava tempestivamente sui temi affrontati e gli impegni presi insieme erano raramente disattesi.

Il gruppo fin da subito è stato chiaramente visibile all’interno della scuola (“quelle del gruppo di scienze”) ed è riuscito ad ottenere anche l’inserimento del progetto KIS nel Piano dell’Offerta Formativa della scuola, finanziato con fondi per l’impegno orario eccedente il normale servizio; si trattava ovviamente di un riconoscimento simbolico – come sempre accade nella scuola –, ma è stato un contributo determinante a definire un’identità.

Un altro indicatore importante che ci ha definito come un gruppo di ricerca è stato l’aver cercato continuamente di sostenere la discussione con l’analisi collettiva dei documenti prodotti in classe (disegni, verbali di conversazioni, diari delle insegnanti, foto, registrazioni).

Durante i nostri incontri i materiali erano offerti allo sguardo di occhi “altri” da quelli dell’insegnante che li aveva vissuti insieme con i ragazzi, lo sguardo di occhi liberi dal coinvolgimento diretto e dalle distorsioni dovute all’empatia.
In questo modo dalla lettura e dall’ascolto delle cronache quotidiane, attraverso i materiali prodotti dai ragazzi, ricavavamo indicazioni sulla strada da seguire.

Abbiamo sentito l’esigenza di inserire un “occhio altro” anche dentro la classe ogni volta che è stato possibile, e per questo abbiamo usato anche la figura dell’”osservatore esterno”.
Alcune di noi sono intervenute in classi diverse dalla propria per condurre un’osservazione il più possibile non partecipata, redigendo verbali delle conversazioni e tracciando descrizioni delle situazioni alle quali assisteva.

L’obiettivo era fornire all’insegnante che proponeva l’attività un feedback del suo modo di porsi e del modo di interagire dei ragazzi che lei stessa non poteva avere dal suo punto di vista coinvolto.
Essere inserite in un percorso di sperimentazione è stata la cornice che ha permesso tutto ciò.
È stato sì occasione e opportunità particolarmente interessante, ma in aggiunta ci ha fornito quella protezione necessaria agli organismi nel loro periodo di formazione, siano essi biologici o sociali, come era il caso di “quelle del gruppo di scienze”: non ci sentivamo giudicate attraverso i lavori dei bambini.

Tutti noi insegnanti abbiamo avuto esperienza di realtà scolastiche in cui il pregiudizio dei colleghi sugli altri colleghi sembra essere l’unico strumento di valutazione della qualità dell’insegnamento attuato, un a-priori che non vede né il contesto delle singole classi né si occupa dei percorsi.
In queste realtà, di norma, il prodotto deve essere il più vicino possibile alla perfezione formale, senza sbavature e soprattutto conforme alle aspettative.

Insomma, a volte nella scuola l’imprevedibile fa paura.
Nel nostro caso, invece, la nostra comunità di riferimento si stava costruendo su regole non competitive, e avevamo quindi la possibilità di dare liberamente voce anche a incertezze, dubbi e insuccessi.

La valutazione non riguardava le persone, ma l’efficacia dei percorsi e – soprattutto – si misurava con parametri condivisi e osservabili attraverso la documentazione, che nel nostro caso erano l’emergere delle domande spontanee durante le attività pratiche di laboratorio.

Per fortuna dopo due anni di lavoro non si può più tornare indietro. Il cambiamento che si è prodotto nelle insegnanti che hanno partecipato al progetto resta patrimonio di ciascuna di esse e – cosa più importante – è diventato la marca di un gruppo.

Una curiosità: in che misura, nel tempo, il gruppo riuscirà a contaminare per contiguità nuovi elementi? Forse nella misura in cui riuscirà a proporre altri percorsi di ricerca.

ABSTRACT:
Il progetto KIS ci chiedeva di sperimentare una pratica didattica di scienze per verificarne la fattibilità in contesti diversi da quelli in cui era nata. Nei fatti l’esperienza è andata oltre e ha funzionato da catalizzatore per la costituzione di un gruppo di ricerca, all’interno della scuola, che ha lavorato su situazioni reali.

ENGLISH ABSTRACT:
Meanwhile the KIS project was asking us to prove an Innovation Practice in order to verify its development in a different context, the thing went over: working in an experimental way brought us to change our status and we became a real research group internal to the school. Working in real contexts originated the shift.

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