L’arcivernice: Deliri e allucinazioni. Giulia dialoga con Freud (diciassettesima puntata)

La rivelazione che Ramon mi aveva fatto in una fase di stordimento effusivo, che da materia inerte come la pagina di un libro si fosse ripetutamente potuta ergere, come il genio dalla lampada, una persona, ecco, adesso a mente fredda mi dà un brivido da Dottor Frankenstein.

Che l’immaginetta si incarnasse, che fosse in grado quanto meno di dialogare e che perciò fosse dotata in qualche modo anche di pensiero, per me è un’insidia. Io per vedere il buio voglio proprio che venga spenta la luce, e per avere il silenzio, che basti stare zitti.

Ramon mi piace, ha solo vent’anni eppure manifesta una maturità di pensiero ragguardevole. Ma lo conosco ancora troppo poco.

Sono indecisa: sarebbe utile, alla fine, chiedersi se quelle sue ripetute esperienze possano ricondursi alle teorie scientifiche dell’allucinazione?

Là, nel mio gruppo disincantato e realista di novelli scienziati, il nostro supercomputer è capace di circa ventimila miliardi di operazioni al secondo. Noi siamo in grado già di modellizzare la colonna neocorticale, per ora di un topo, una struttura che – tramite un trenta milioni circa di sinapsi – collega qualcosa come diecimila neuroni di diverso tipo dai vari strati della corteccia cerebrale. È la verità, siamo già in grado di riprodurre le percezioni e gli stimoli che il cervello (per ora del topo) può ricevere dal suo ambiente e di osservare la conseguente formazione di nuove sinapsi. E presto arriveremo a far luce sul punto più misterioso delle neuroscienze: come un’intelligenza umana, l’attività della coscienza, il pensiero possano venir fuori da quell’intrico di neuroni. E quello mi parla di vernici che, spennellate, darebbero una nuova vita alle piatte figurine incastonate in una pagina!

Non posso certo raccontarlo in giro: già i miei amici, conosciuto Ramon, e non sapendo nulla della vernice, ridacchiando ogni volta mi sussurrano la frase di Voltaire: “quando colui che ascolta non capisce, e colui che parla non sa cosa sta dicendo, questa è filosofia”.

E allora mi chiedo: è forse solo la consapevolezza scientifica che sa distinguere le immagini eidetiche dall’allucinazione?
Se invece fosse vero, che la follia è matrice di creatività, che in tutti noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Se, come scrive Basaglia: “Il problema è che la società […] dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia, e invece incarica una scienza, la psichiatria, per tradurre la follia in malattia, allo scopo di eliminarla”?

Ramon è una persona davvero speciale; qui, nella sua stanza, ha creato un’atmosfera isolata e soffusa, calda, con lampade, vecchie stufe, e un soffitto di travi antiche. Filosofia a parte, voglio dire. Oppure no… in questa stanza c’è un’anima goethiana, romantica. Anche se guardandosi attorno spesso i miei amici motteggiano le parole di Heidegger: qui il nulla nulleggia, in questa stanza c’è l’elemento onirico che fa pensare a Freud. C’è un mondo che ti avvolge, chiuso, come lo è l’inconscio per definizione.

Freud… e se provassi? Il barattolo, ammaccato e rugginoso è lassù, e qui, in una fila di libri, c’è il volume che io ho regalato a Ramon: Freud vi campeggia sulla copertina; posa per un busto davanti allo scultore Oscar Nemon, nel 1931 a Vienna. Qui Lui è già vecchio, è bello e serio. L’approccio al dolore, persone afflitte da mali di origine traumatica, assilli tremendi e atrocità, ne ha già incontrate tante; da più di cinquant’anni pratica quella che ha chiamato “la cura parlante”. Ha una faccia giusta per questo: sembra un uomo severo, ma io non ne ho paura. Talento, eleganza, stile; con la sua psicoanalisi ha aperto immensi spazi nuovi.

Ha un fascino sorprendentemente moderno.

Chissà se l’amore per la scrittura, per i poeti, quella potenza narrativa valida per tutti, veniva fuori anche nel parlato.

Con un moto automatico, tiro giù quel barattolo. Il pennello è lì accanto, e con un gesto scombiccherato per l’emozione lo intingo e poi lo passo in fretta sulla fotografia. In un momento esplosivo tutto circondato di scintille, Lui è lì redivivo, mi guarda proprio negli occhi, mi vede, si intruppa in un incontro con me, e allora tutto sale verso l’alto.

Avevo immaginato Ramon la prima volta, mentre balzava all’indietro per l’orrore. Questa persona invece, uscita dall’immagine come una nuvola, sembra accogliere in sé ogni mia parte.

Da qui mi guida un istinto automatico: senza più pormi alcuna remora, mi affido a una felicità momentanea assoluta.

“Professore – comincio così timidamente, poiché il suo sguardo sembra interrogarmi – che cosa rende possibile il dialogo tra la propria parte razionale e la propria parte folle? Questa domanda offusca da un po’ la visione stabile e chiara che mi ero fatta del mondo”.

“Sempre, ragazza, la scoperta della nostra follia segreta ci affascina e ci inquieta”.

“Ma esiste un ideale di normalità, Professore?”

“Lungi dal pensare la follia come la malattia di pochi, essa attraversa tutta la nostra vita”.

“È vero, allora, che la follia, il sintomo, sono testimonianze di un atto creativo che ci permette di vivere, nonostante noi ce ne lamentiamo?”

“Il sintomo, ragazza, è quel qualcosa che ognuno si deve inventare per affrontare il dramma del proprio essere”

“Professor Freud, si sta allacciando alla sua celebre lezione numero sedici, il caso esemplare del giovane ufficiale che era venuto da Lei per chiedere di prendere in cura la suocera?”

“Essa affliggeva la famiglia con una serie di ossessioni” risponde Lui lentamente, pensoso.

Ho ben presente la storia: nella scrittura straordinaria di Freud ballano i personaggi e gli elementi. Un anno prima che il giovane si rivolgesse a Lui, era giunta alla suocera una lettera anonima.

“Nella lettera si accusava il marito di intrattenere una relazione con un’altra donna…”

“Il marito negava, e in effetti non intratteneva alcuna relazione” aveva scandito il Professore accennando un sorriso arguto, e nei suoi occhi iniziava a serpeggiare una luce nuova.

“Ma nonostante ciò – io avevo proseguito sommessamente – la donna continuava a soffrire di quei deliri di gelosia. Come far sì che l’idea delirante le si potesse estirpare? Il delirio è una costruzione ideativa che non ha riscontro nella realtà. Non c’è farmaco al mondo in grado di eliminare il delirio!”

Per un momento avevo dimenticato di rapportarmi a quei tempi. La lezione numero sedici, se ben ricordo, viene tenuta da Freud in due corsi, tra il 1915 e il 1917; ma è soltanto adesso che si è massificata la terapia farmacologica.

“Che il farmaco non sia in grado di eliminare il delirio si dice oggi e si diceva allora”. Il Professore sembrava aver tradotto il mio pensiero. Poi, con un fare ruvido: “Ma attenzione, ragazza, al delirio il paziente tiene più che alla sua vita stessa!”

Già. Mi metto a pensare a quella donna, fissando un punto della parete, ecco il perché del suo sintomo, il suo delirio di gelosia. La genesi del delirio era stata il suo stesso innamoramento nei confronti del genero, mostruosità per lei insopportabile da gestire. Da lì lo spostamento, la costruzione dell’idea delirante. Il sintomo è lo strumento che si costruisce per guarire. Ma allora i sintomi non si debbono estirpare. Il sintomo è indice di un processo di guarigione, ecco perché cercare di toglierlo trova una resistenza fortissima da parte del paziente. E la follia è dunque consustanziale all’essere umano.

“Se il trattamento medicale vuole estirpare il sintomo, il trattamento psicoanalitico lo utilizza, è vero, Professore?”

Sollevo gli occhi per avere da Lui un conforto a queste mie riflessioni, ma proprio adesso la sua persona va sbriciolandosi…

***
Nell’immagine in testa: Sigmund Freud in posa davanti allo scultore Oscar Nemon, Vienna, 1931. Il busto a cui lo scultore sta qui lavorando è ora custodito al Freud Museum di Hampstead.

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Giulia Jaculli