Elogio della paura dell’insegnante a scuola

INTRODUZIONE

Education 2.0 si è occupata recentemente della paura che l’alunno può avere nell’entrare a scuola. È un argomento importante perché la paura può spingere all’insuccesso.
È forse necessario occuparsi anche della paura che deve attraversare l’insegnante quando entra a scuola.

Conviene, per prima cosa, chiarire che qui, più che della paura sto parlando del timore-tremore che non può mancare quando si incontra il volto dell’altro, la trascendenza dell’alunno, che va colta per quello che è: differenza da sé. L’insegnare è, innanzitutto, incontro di volti, che va analizzato nelle diverse possibilità di sviluppo. Tenterò di farlo ricorrendo tra l’altro ad alcuni luoghi della riflessione filosofica, anche se il desiderio di essere lieve nell’argomentare mi trattiene da citazioni e riferimenti bibliografici di sapore accademico. Altri riferimenti saranno talmente espliciti da non aver a loro volta bisogno di citazione bibliografica.

DUE MODI DI INCONTRARE IL VOLTO DELL’ALUNNO

Ci sono due modi di incontrare il volto dell’alunno, come ogni altro volto (non senza una provocatoria asperità che qui vale la pena anche radicalizzare):

– il modo del maestro di vita, tratteggiato da Emmanuel Levinas in “Altrimenti che l’essere” (1983)
– il modo del carnefice, prospettato da Paul Ricoeur in “Sé come un altro” (1993).

Incontrare il volto dell’alunno nel modo del maestro di vita vuol dire incontrarlo nel timore-tremore che, come ho già detto, caratterizza l’incontro con la trascendenza riconosciuta e trattata come tale. L’alunno è mistero da scoprire, esplorare, valorizzare. È impossibile dire una volta per tutte “lo conosco, l’ho capito”.

Sarebbe presunzione pura. Personalmente mi son trovato a scoprire qualcosa dei miei (?) alunni anche 2/3 anni dopo che, insegnando nella scuola media, erano passati alle superiori. In questo modo, lo sguardo dell’insegnante sul volto dell’alunno è sguardo del maestro di vita, perché, riconoscendone e valorizzandone la trascendenza, accompagna l’alunno stesso a esplorare, a sua volta, la trascendenza che lo costituisce, in tutti i suoi elementi fondamentali. L’alunno, sostenuto dal volto dell’insegnante, può riconoscere il proprio mondo, la propria storia. La può amare per quanto di buono gli ha dato. La può elaborare, interpretare, per le ferite che probabilmente gli ha procurato e che, forse, ancora gli procurerà.

Incontrare il volto dell’alunno nel modo del carnefice significa incontrare l’alunno nella negazione della sua trascendenza, nel comprimerne, annullarne l’alterità. L’alunno diventa una cosa, oggetto del dominio dello sguardo dell’insegnante. Nel rapporto educativo domina la luce, non vi è spazio per il mistero. L’alunno, in questo modo, perde la possibilità di riconoscersi, in qualche misura, come simbolo, come realtà concreta che rappresenta, come già ho cercato di dire, un mondo misterioso che attende di essere esplorato fino al suo centro, non meno avventuroso di un viaggio al centro della terra. Lo sguardo dell’insegnante è davvero, in questo modo, lo sguardo del carnefice. L’alunno, in quanto persona privata della propria intrinseca misteriosità, è di fatto inesistente. È uno, nessuno, centomila. Non è messo in grado di riconoscersi e amarsi. Corre il rischio di essere sempre personaggio in cerca d’autore.

ULISSE: UN DOPPIO INSOPPRIMIBILE

L’insegnante, dunque, deve vivere il suo rapporto con gli alunni nel timore-tremore di fronte alla loro alterità. E non è difficile farlo. Basta che, anche solo per un attimo, l’insegnante sia disposto, a sua volta, a cogliere nel volto dell’alunno lo sguardo del maestro di vita.
Per l’insegnante, riconoscere lo sguardo dell’alunno come maestro di vita significa riconoscere la propria insuperata limitatezza e, di qui, l’impossibilità di ogni pretesa di dominio nel rapporto con l’alunno.

Il volto dell’alunno può chiamare l’insegnante alla scoperta di sé in misura, almeno per alcuni aspetti, non minore di quanto può fare – come ho appena cercato di dire – il volto dell’insegnante nella scoperta di sé dell’alunno. Questa disponibilità inesausta dell’insegnante è il fondamento sul quale poggia la concreta possibilità che l’alunno riconosca progressivamente la verticalità del volto dell’insegnante stesso.

Proprio sulla consapevolezza comune che l’incontro dei volti può essere incontro di ricerca e di scoperta della propria limitatezza ma anche della propria preziosa misteriosità si fonda anche la relazione educativa di carattere più strettamente cognitivo.

Posso tentare di esprimere questa relazione in questo modo: non si può riconoscersi senza conoscere. L’Ulisse che viaggia negli arcipelaghi dell’interiorità ha bisogno dell’Ulisse che esplora gli arcipelaghi che vanno dalle macerie di Troia fino ai confini della terra. L’uno non sta senza l’altro. Siamo quello che siamo perché siamo gettati nel mondo – o, almeno, ci avvertiamo tali – e, se vogliamo capire come e perché siamo quello che siamo, dobbiamo conoscere, capire il mondo in cui siamo gettati, nella complessità delle azioni, delle narrazioni, delle reti concettuali e delle forme simboliche nelle quali si è espresso. Un cammino nel quale sarà l’alunno stesso a chiedere all’insegnante di non fargli mancare il suo volto.

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Eugenio Bastianon