Ritorno all’antico
Il Regio Decreto 653/1925 prevedeva che agli alunni che venivano meno ai doveri scolastici, o offendevano la disciplina, il decoro, la morale, anche fuori della scuola, fossero inflitte, secondo la gravità della mancanza, punizioni disciplinari che influivano sia sul comportamento sia sui risultati dell’apprendimento. L’autorità doveva intervenire per turbativa al regolare andamento dell’attività didattica, per offese al decoro personale, alla religione e alle istituzioni, per offese alla morale e per oltraggio all’istituto o al corpo insegnante. Si costruiva così un muro che poteva escludere per sempre (espulsione da tutte le scuole del regno) il giovane ribelle da quanto lo Stato (etico) offriva per la sua formazione culturale.
Con la Costituzione si capovolge la prospettiva: la persona dell’allievo al centro e lo Stato al servizio della sua educazione e crescita, ed anche per i più indisciplinati l’imperativo era educare, utilizzando una didattica che potesse coinvolgere i giovani nel loro stesso processo formativo per motivarli e farli partecipare allo sviluppo sociale in cui avrebbero dovuto trovare la loro collocazione. Lo Stato democratico si era impegnato ad abbattere il muro per far sì che nessuno restasse indietro, cercando nell’organizzazione istituzionale e nell’offerta educativa quei mezzi che fornissero recupero e rieducazione anche ai soggetti apparentemente più difficili, ma in realtà più fragili.
Affermato il principio costituzionale, non tutta l’eredità lasciata dal Regio Decreto è stata superata, ma certamente il proposito educativo prevale sul risentimento punitivo. Il voto di condotta, che era l’espressione di tale regolazione, è rimasto ancora per molto tempo nella scuola, ma c’era da aspettarsi prima o poi una sua abolizione.
La svolta avvenne con l’apertura della scuola alla società e l’introduzione degli organi collegiali: genitori, studenti e personale scolastico insieme per dare continuità all’educazione familiare, migliorare la qualità della formazione, farne fattore delle dinamiche di sviluppo del territorio. Fu una grande occasione di collaborazione e di protagonismo delle diverse componenti, con spazi di partecipazione e di innovazione. La scuola poteva diventare il centro della comunità, attraverso momenti di incontro anche spontaneo da parte di genitori, studenti e cittadini. Si sarebbe potuti andare verso un cambiamento significativo nella progettazione e nella gestione del servizio scolastico se non fosse intervenuta la burocrazia a frenare quel tentativo di maggiore libertà, e ciò fece calare la tensione partecipativa soprattutto nei genitori, i quali nel frattempo vedevano crescere una visione della scuola meno socializzante e più inserita in una dimensione economica e individualistica, che anziché cooperatori li faceva clienti e valutatori del sistema (la Carta dei servizi).
Questa situazione ha mutato anche il comune sentire delle famiglie mettendole alla ricerca dei presunti diritti da rivendicare, con atteggiamenti di difesa nei confronti dei figli-studenti, che a loro volta hanno intravisto uno spazio più favorevole al disimpegno o ad altre manifestazioni di disagio che sfociano in comportamenti isolanti o devianti, di minore rispetto e di bullismo nei confronti dei docenti e di altri giovani. Con i Patti educativi di comunità si è cercato di risolvere certe intemperanze o difficoltà di comunicazione, facendo in modo che i diversi soggetti assumessero precise responsabilità, anche in solido, rispetto a danneggiamenti delle strutture delle attrezzature che si potevano determinare . Pur volendo in qualche modo ripristinare i tempi favorevoli alla collaborazione attraverso la formula più impegnativa del patto, non si sono però ottenuti i risultati sperati e nel frattempo è andato peggiorando il clima tra gli adulti e sono riprese le occupazioni degli edifici da parte degli allievi. Occupazioni che vengono considerate reati dal recente decreto “sicurezza”, mentre assemblee ed autogestioni avevano realizzato momenti costruttivi e arricchenti.
Con lo Statuto degli studenti e delle studentesse si era arrivati al massimo della promozione della cultura democratica nella comunità scolastica, si sono messi nero su bianco i diritti dei giovani nella scuola, si sono trasformate le punizioni escludenti in doveri responsabilizzanti, in modo che anche in momenti delicati non venisse meno lo spirito inclusivo, con lo sganciamento del comportamento dal rendimento scolastico, in modo che ciascuno potesse godere di un trattamento personalizzato.
Patto e Statuto non hanno avuto la necessaria preparazione pedagogica, sono sembrati documenti un po’ burocratici, come siamo abituati a vivere tra le mura scolastiche, e quindi non hanno avuto incidenza; l’atmosfera si era caricata di tensione e spesso si erano allertate le forze dell’ordine di fronte a fatti gravi e i media hanno fatto la loro parte nel sollecitare l’opinione pubblica.
Che fare? Le strade sembravano due: una già sperimentata circa trent’anni fa con il “progetto giovani”, che ha comportato una forte iniezione di pedagogia, attraverso un’azione sulle relazioni, sul benessere dei giovani per contrastare il disagio, e sull’innovazione didattica, che ha influito anche sui genitori ed ha lasciato in eredità i Centri di Informazione e Consulenza che ancora oggi potrebbero vedere la presenza di docenti particolarmente formati e di professionisti esterni. L’altra strada è quella ultimamente intrapresa di ripristinare le punizioni, mediante la profluvie di norme di carattere securitario recentemente emanate, finalizzata non solo ad inibire i comportamenti devianti con sanzioni di carattere economico o penale, ma ad essere usata come forma di ricatto sul versante del percorso scolastico. Ritorna il voto di condotta, anche se era sparito per poco tempo, con le relative conseguenze sulle bocciature, e ritornano le sospensioni che, mutuando dallo statuto, prevedono i lavori socialmente utili dentro o fuori la scuola. E’ lo stesso che accade ai condannati quale modalità di espiazione della pena alternativa al carcere, come se la scuola fosse un luogo di reclusione, e il suo obiettivo non l’educazione ma la rieducazione.
In queste condizioni c’è il serio pericolo che il muro venga ricostruito, ad excludendum, e a poco servirà la retorica dei bravi e dei cattivi, perché la scuola non può avere due anime, una educativa e l’altra punitiva; rinvigorire lo spirito costituzionale significa una nuova iniezione pedagogica, un supporto da parte di figure tutoriali, maggiore autonomia per le scuole per una migliore interazione con il territorio di riferimento con cui fare rete con altre realtà educative perché i giovani, ma anche i genitori, si possano sentire all’interno di un ambiente in cammino verso la crescita e lo sviluppo.
Gian Carlo Sacchi Esperto di politica scolastica. Ha fatto parte del Consiglio di amministrazione dell’INDIRE e ha fatto parte del comitato Scientifico della Regione Emilia Romagna per le esperienze di integrazione tra istruzione e formazione professionale.