Ma che fine fanno i 10 anni di istruzione obbligatoria in Italia?

La prima pagina del n. 2 del Politecnico[1], direttore Elio Vittorini, 6 ottobre 1945, presentava un interessante confronto tra Concetto Marchesi ( intervistato Da Vito Pandolfi) ed Elio Vittorini  che, di seguito, interveniva  sui contenuti dell’intervista ;  si volevano  così invitare i lettori a discutere  su un tema fondamentale per il nostro paese: Alla lotta per la riforma industriale e la riforma agraria un’altra bisogna unirne: quella della scuola, che è parte essenziale della lotta per la cultura”

Marchesi inizia con l’affermazione che il primo passo in questa direzione potrà essere solo una scuola obbligatoria e gratuita per tutti. E’ qui che troviamo delineato un percorso di almeno otto anni di scolarità obbligatoria e l’affermazione della necessità di superare “la scuola sia media, sia   universitaria ed elementare, finora tradizionalmente impostata secondo i dettami di una cultura accademica ed archeologica in cui sono stati ignorati più o meno volutamente il valore educativo delle scienze sperimentali ed applicate e la loro portata sociale”

Vittorini esprimeva qualche perplessità nel merito delle parole di Marchesi perché, pur essendo assolutamente d’accordo sulla necessità di pensare da subito “una scuola” nuova, avviandola su una strada nuova, cerca di indicare la meta cui questa nuova scuola dovrà tendere. Vittorini infatti è consapevole della necessità di muoversi da subito, “perché il processo sarà lungo, molto lungo “, vede tuttavia il rischio di un processo, che troppo celermente porti agli 8 anni di scolarità obbligatoria, lasciando i percorsi superiori a quei “capaci e meritevoli”, che avranno il diritto ad essere sostenuti nella prosecuzione degli studi  e preparati a compiti di responsabilità . Vittorini ribadisce che la scuola deve fornire a “tutti i mezzi di conoscenza e potrà/ dovrà insegnare tutto quanto occorre all’uomo per diventare soggetto di cultura e coscienza, cioè libertà,capacità creativa e fede nel progresso civile”.

Nel 1948 L’art 34 della Costituzione italiana stabilisce che “La scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso.”

I  lentissimi, faticosi  passi successivi

Solo nel 1962  la legge n. 1859 istituisce la scuola media unica,  realizzando così gli “almeno 8 anni di scolarità obbligatoria” e stabilendone la conclusione con l’esame di stato.  Questo il contesto all’interno del quale si consolidano, si intrecciano, talora si sovrappongono, nel corso degli anni, le varie articolazioni della scuola secondaria superiore, che ben poco ha di unitario, adattandosi in modi, spesso impropri, a varie e diverse situazioni economico -sociali ed anche alla attuazione di quanto la Costituzione stessa prevede. Basti pensare alla competenza delle regioni in materia di formazione professionale, alla necessità di garantire una formazione adeguata in senso culturale, si dovrebbe meglio dire professionale, al personale docente, alla dotazione di laboratori e di strutture ecc. Il risultato evidente, che non muta negli anni, anche in quelli in cui l’ascensore sociale era attivo, è che i giochi, il destino lavorativo e la collocazione futura dei giovani, si faranno, e si fanno tuttora, nel percorso di scuola media inferiore, i cui esiti   condizioneranno, e condizionano sempre, consolidandole, le diversità ed ineguaglianze di partenza.

Tutti gli studi importanti che fino ad oggi documentano le povertà, le ingiustizie, che si evidenziano nei dati e nella qualità della dispersione scolastica ed educativa, si basano su analisi, che già con chiarezza M.L.Pombeni nel 1997 aveva delineato nel libro Orientamento scolastico e professionale e nei relativi approfondimenti successivi.

Una lunghissima pausa nella iniziativa legislativa su questa fondamentale materia.

E’ pur vero che oggi (2025) il Ministero della Istruzione e del Merito definisce il percorso obbligatorio della scuola italiana come percorso che riguarda bambini e ragazzi dai 6 ai 16 anni,  garantendo loro  10 anni  di istruzione, non solo gli 8 anni che si concludono con l’esame di stato, ma si completano solo dopo i primi due anni della secondaria superiore. Il primo settembre 2007 infatti  è entrato in vigore il decreto n.139,Decreto 22 agosto 2007, con il quale il Ministero della Pubblica istruzione  innalzava a 10 anni complessivi la durata del periodo di istruzione obbligatoria al fine di garantire il “conseguimento di un titolo di studio di scuola secondaria superiore o di una qualifica professionale di durata almeno triennale entro il diciottesimo anno di età”, attuando la disposizione dell’articolo 1, comma 622, della Legge n. 296/2006 (Finanziaria 2007). Nel corso di più di 40 anni gli “esercizi di stile “ burocratico/amministrativo/ economico ecc. hanno messo in piedi di tutto, ma l’esame di stato alla conclusione della scuola media inferiore è rimasto la base delle scelte successive e il biennio iniziale della secondaria superiore ha conservato la caratteristica di struttura ben  definita  fin dall’inizio, volta a operare su  “capacità” già evocate e orientate precedentemente, senza riuscire a svolgere i compiti di consolidamento  e rinforzo di competenze, talora precedentemente solo parzialmente evidenziate ed esercitate, indirizzando curiosità, abilità, interesse per settori specifici dei saperi  e saper fare, necessari a sostenere scelte consapevoli verso il lavoro o la prosecuzione degli studi di livello superiore.

Abbandono scolastico, condizioni di inattività dei giovani 15-29 anni e nuove forme di selezione entro il  percorso di studi obbligatorio

Il fenomeno macroscopico della dispersione scolastica e della condizione di NEET, che ancora oggi riguarda quote significative di giovani 15-29, anni di età, evidenzia la difficoltà di un sistema formativo, che spesso sembra capace soltanto di intervenire in modo frammentario, con una logica emergenziale, su fenomeni di disgregazione sociale e generazionale, senza riuscire a opporre linee adeguate di resistenza e una serie di interventi stabili nei territori.  Se infatti per un verso i risultati dei test Invalsi dell’ultimo anno (2024)  mostrano una riduzione della percentuale di dispersione scolastica, sia implicita che esplicita (la dispersione implicita si attesta al 6,6%, valore più basso mai registrato a livello nazionale  e il 9,4% di quella esplicita ci avvicina  all’obiettivo fissato dall’Ue del 9% entro il 2030)  l’Italia rimane il quinto paese su 27 con la maggiore incidenza del fenomeno della dispersione,con divari interni paurosi ( Sicilia e Sardegna dispersione  al 17%). Le ragazze abbandonano meno dei maschi (7,6% contro il 13,1%)  e i ragazzi stranieri che  abbandonano la scuola  prima della conclusione del percorso sono il 26,6%.

Ai divari territoriali si aggiungono inoltre, soprattutto nelle grandi città, fenomeni che sembrano definibili come  processi di selezione esplicita (?) all’ingresso nella secondaria superiore  e che, in varie forme, limitano l’accesso al primo anno di questo livello di scuola,  con azioni di fatto discriminatorie ( talora addirittura si impongono esami o  test). In questo modo le scuole dichiarano di rispondere alla necessità di limitare il numero di studenti  in eccesso da accogliere  ( classi troppo numerose, problemi di spazi ecc.), ma di fatto sembrano avere come scopo quello di privilegiare l’ingresso dei migliori, dando una interpretazione contraddittoria rispetto alle finalità del percorso obbligatorio di scuola, che dovrebbero essere quelle di “sostenere e indirizzare” i  giovani 14-16 anni, che hanno già sostenuto l’esame di stato. Altro mistero: l’esame di stato, previsto dalla Costituzione, si dovrebbe  collocare dopo “almeno” 8 anni di obbligo scolastico, ma se finalmente, negli anni, si è arrivati  a prolungare  a dieci   l’ obbligo, perché si  utilizza l’esame di stato come “barriera” verso  i due anni conclusivi, ai quali si accede sulla base di scelte che sono quasi sempre la fotografia dello status socio-economico del ragazzino/a .

A tutto questo si aggiungono altri ostacoli  che, sicuramente, non rispondono ad alcuna logica “pedagogico-formativa”, ma  sono invece volte a salvaguardare il “merito “e soprattutto il buon nome di alcune scuole  superiori, secondo la logica delle classifiche e delle competizioni. Sarebbe necessario che il MIM,  nel valutare gli effetti di provvedimenti, pur meritoriamente, attivati per intervenire sul divario formativo territoriale e sociale nel nostro paese (p.e. Agenda Sud, o i quattro decreti che dal 2023 e 2024  realizzano e finanziano laboratori, percorsi di orientamento ecc.), cercasse di documentare e riflettere su  cosa e come  di fatto   si realizzano  forme tradizionalmente “efficaci “, ma selettive e  punitive, di discriminante e di frustrante impoverimento sociale, perché è  da qui che si generano e consolidano dispersione scolastica e marginalità sociale.

————————-

[1] Il Politecnico , rivista di politica e cultura fondata da Elio Vittorini, pubblicata a Milano dal 29 settembre 1945 (Anno I, n. 1) al dicembre 1947 (n. 39).  Nato come  “settimanale di cultura contemporanea”, dal n. 29 (1º maggio 1946)  divenne nominalmente mensile,  con sottotitolo “rivista di cultura contemporanea”.  Vittorini scelse per il suo periodico lo stesso titolo della rivista ottocentesca di Carlo Cattaneo con un programma analogo, molto antiaccademico, pragmatico e divulgativo pur senza cedere al “popolare”. La redazione de Il Politecnico era composta da Franco Calamandrei, Franco Fortini, Vito Pandolfi e, per qualche mese, da Stefano Terra, la grafica e l’impostazione erano di Lica e Albe Steiner.

Vittoria Gallina