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A 50 anni dagli Organi Collegiali

Pubblicato il: 12/06/2024 07:18:05 -


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Una Costituzione centrata sulla persona, il consolidarsi del modello democratico nel governo della società italiana del dopoguerra e la preoccupazione per l’equità sociale, hanno iniziato a far sentire la loro influenza sulla scuola, intanto che al suo interno maturava una pedagogia attiva, mutuata dall’America e dall’Europa. 

Scuola e società non potevano più procedere in maniera separata, la scuola non era più per le élite ma per tutti, voleva formare una persona ed un cittadino come parte di una comunità, in tutte le aree del Paese, con particolare riguardo a quelle più emarginate.

Dagli anni sessanta del secolo scorso iniziarono a manifestarsi criticità riguardo la governance burocratica e centralistica dello Stato, che non andava incontro alle esigenze dei territori, ma anzi si comportava nei loro confronti in modo autoritario come di chi volesse imporre un modello culturale ed educativo, anziché farsi carico della promozione delle persone con le loro caratteristiche e quelle degli ambiti territoriali nei quali vivevano.

Iniziarono i primi provvedimenti di carattere inclusivo come l’integrazione dei soggetti disabili nelle classi normali e degli immigrati; i movimenti degli studenti cercavano di aprire scuola e università alle istanze sociali, in un’ottica di partecipazione democratica, propugnata dalla Costituzione.

Per l’università si fece leva sulla riorganizzazione dei singoli atenei, che ne impostarono il governo sulla partecipazione di tutte le componenti, introducendo organismi che cercavano di avvicinare gli studenti ad una didattica erogata in modo più vicino all’esperienza giovanile ed all’innovazione culturale, mentre per il sistema scolastico la situazione si è rivelata più difficile da coniugare date le tensioni politiche che si erano create tra chi guardava alla scuola privata, chi voleva farla tornare alle dipendenze degli enti locali e chi, soprattutto la burocrazia ministeriale, pur apprezzando una certa apertura verso il sociale, era decisa a tenerne ben saldo il governo su base nazionale.

Il compromesso fu trovato nel mantenere la scuola allo Stato aprendola alle componenti sociali, limitando però la presenza a studenti e genitori all’interno del singolo istituto e di rappresentanti del mondo politico locale ed economico a livello di territorio. Fu scelto il metodo della democrazia rappresentativa, anche se non poche furono le pressioni per adire alla democrazia diretta, per cui alla fine ci furono organi collegiali eletti con il sistema delle rappresentanze, ma alla vita della scuola potevano contribuire anche assemblee di studenti e genitori.

Gli organismi, che entravano nella didattica e nella gestione dell’istituto e del territorio, partirono con grande motivazione e tutto il lavoro delle elezioni e dell’organizzazione scolastica fu assolta dalle comunità: sorsero associazioni di ogni tipo per sostenere le rappresentanze mentre la politica è stata alla finestra, lasciando gli istituti al loro nuovo funzionamento e limitandosi, attraverso soprattutto gli amministratori locali, ad intervenire negli organismi territoriali.

Ben presto però i tanti partecipanti si accorsero che la loro azione era soltanto propositiva e che gli organi collegiali avevano limitati poteri decisionali, soprattutto per quanto riguarda le risorse da gestire all’interno delle scuole, di personale e finanziarie, che rimanevano di competenza dell’amministrazione scolastica e sul territorio dove il distretto scolastico avrebbe potuto offrire un nuovo modello di programmazione del servizio e di governance complessiva, che però veniva neutralizzato dal consiglio scolastico provinciale nelle mani del Provveditore agli Studi, mentre il Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione era controllato dalle liste sindacali.  

Il vaso di coccio della partecipazione in mezzo ai vasi di ferro della sindacal-burocrazia iniziò a demotivare i diversi soggetti e ancora oggi le elezioni si trascinano, ma nessuno osa mettere mano alla revisione di tali organi, soprattutto per decidere se devono avere più poteri, visto che il governo delle circolari ministeriali non ha mai smesso e non smette di prevalere.

Alla fine del secolo scorso ci fu una grande stagione così detta della sperimentazione, i decreti delegati infatti oltre alla partecipazione aprivano la strada a innovazioni, didattiche, ma anche di struttura, proposte direttamente dalle scuole. Fu un momento molto proficuo dal punto di vista del rilancio della partecipazione, soprattutto per quanto riguardava le componenti professionali, dirigenti e docenti, e il leit motiv fu ancora una volta “autonomia”, cioè autogoverno, per andare incontro alle esigenze soprattutto dell’economia e di un Paese in rapido sviluppo a fronte delle riforme che per via parlamentare non arrivavano mai. 

Si intraprese dunque la strada dell’autonomia delle scuole, all’interno di una legge quadro sulla riforma della pubblica amministrazione, ma mentre per gli enti locali sortì statuti autonomi e quindi autodeterminazione, per le scuole ci si scontrò ancora con il centralismo ministeriale. Pur avendo ottenuto la personalità giuridica essa rimase priva di effetti, non fu consentito nemmeno di avere una rappresentanza presso i governi nazionali, regionali e locali. Si arrivò al paradosso di vedere libere associazioni di scuole, costituite presso notai, di diritto privato, con organi di diritto pubblico, che ben presto furono avviate su un binario morto.

Ancora una volta la politica rimase a guardare, se si eccettua il protagonismo delle regioni le quali spinsero affinché fossero aboliti gli organi collegiali territoriali per evitare che per la scuola ci fosse un doppio governo del territorio, facendo così rientrare tutte le competenze sotto l’egida regionale insieme agli enti locali, lasciando allo stato il trattamento delle risorse finanziarie e del personale, gestite attraverso gli Uffici Scolastici Regionali. Di qui prese le mosse la riforma del titolo quinto della Costituzione con il l’intrigo delle “competenze concorrenti” tra stato e regioni, che tanto contenzioso ha creato presso la Corte Costituzionale.

Come si vede dopo 50 anni gli organi collegiali possono in sostanza ancora reggere, ma la scelta di fondo ora come 50 anni fa rimangono i poteri delle scuole; ogni ministro che cambia dice di volerne rinforzare l’autonomia, ma di fatto le sommerge di provvedimenti gestionali particolareggiati. E’ urgente consolidare il rapporto tra scuola e famiglie in modo da riorientare verso la collaborazione i conflitti che esplodono sempre più numerosi; il consiglio di istituto non sia soltanto uno strumento gestionale, ma il luogo delle relazioni educative e della condivisione delle scelte e della politica dell’istituto medesimo, anche superando la giunta esecutiva quale residuo di governo burocratico.

La presenza degli studenti negli organi collegiali è un momento di sintesi di un’attività che li deve vedere sempre più protagonisti del loro destino formativo, anche attraverso momenti di autogestione e di partecipazione ad esperienze anche esterne alla scuola, per la piena attuazione della cittadinanza ed un proficuo rapporto con il mondo del lavoro. Deve essere valorizzato lo statuto degli studenti e delle studentesse non solo per una discussione astratta sui diritti e doveri, ma perché sia la guida al proprio comportamento ed un primo efficace approccio all’assunzione di un ruolo istituzionale. Non si può certo tornare alle sanzioni disciplinari e ai cinque in condotta se si vuole porre rimedio anche ai rischi degenerativi delle occupazioni. Un lavoro ampiamente motivante ed efficacemente inserito in una comunità scolastica e civile può incidere positivamente anche sui comportamenti e la soluzione dei conflitti.

Dal versante dei docenti gli organi collegiali debbono innanzitutto essere restituiti alla sostanza pedagogico-didattica della loro funzione, eliminando tanta burocrazia; trasformare il consiglio di classe in un vero team di progettazione didattica e di tutoraggio per gli studenti, il collegio dei docenti può funzionare perlopiù in modo articolato, lasciando solo a momenti topici per la gestione dell’istituto la decisione collegiale.  

Per quanto riguarda la valutazione degli allievi servirà più una modalità di descrizione dell’apprendimento e di vero orientamento piuttosto che un tribunale chiamato alla fine ad ammettere o meno alla classe successiva, mentre dal lato dei docenti andrà superato il comitato di valutazione che agisca su richiesta degli stessi; va oltre le sue attuali prerogative l’intervento sul superamento del periodo di prova ed è tutta da reinventare la procedura semmai si volesse arrivare davvero alla valutazione dell’insegnamento, all’interno di quanto già previsto nel Sistema Nazionale di Valutazione, ma che finora ha sortito ben pochi risultati. 

 In conclusione forse si potrebbe ripartire dal nuovo art. 117 della Costituzione per definire in capo allo Stato le “norme generali”, alle Regioni la programmazione del servizio, comprensivo delle necessarie risorse, alle scuole e agli enti locali la gestione dei processi. Se ancora una volta la politica resterà a guardare, sarà possibile che la società civile, come avvenne nel 1974, ritrovi la necessaria motivazione per mobilitarsi nuovamente ? Oppure ci dovremo rassegnare ad una democrazia digitale.   

 

Gian Carlo Sacchi  Esperto di politica scolastica. Ha fatto parte del Consiglio di amministrazione dell’INDIRE e ha fatto parte del comitato Scientifico della Regione Emilia Romagna per le esperienze di integrazione tra istruzione e formazione professionale.

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