Tutto chiede bellezza

Eppure amore mio

Non si è mai spezzato

Questo sogno fatato

Che ci tiene legati con tutto l’amore alla terra

Che non abbiamo difeso

Ed ora è un campo minato

Su cui crescono fiori bellissimi

La mia terra, Diodato (2023)

Prendo spunto dal bellissimo libro di Daniele Mencarelli, Tutto chiede salvezza[1], per rimarcare un pensiero a me caro da sempre: tutto al mondo chiede bellezza.

Penso a questo da così tanto tempo, di sicuro da quando ho iniziato a fare questo mestiere, che a volte mi chiedo, non me ne voglia, se sia stato Mencarelli a rubarmi le parole per il titolo del suo romanzo.

Avrei potuto chiederglielo in occasione del bell’incontro che si è tenuto al liceo Tito Livio di Milano e che aveva come tema centrale la fiducia.

Fiducia negli adulti, negli educatori, fiducia nel prossimo. Fiducia nel presente. Fiducia nei giovani.

Chiunque lavori nella scuola ha un’immensa fiducia (non potrebbe essere altrimenti) nelle nuove generazioni, nel loro presente e nella loro capacità di costruire futuro, grazie (anche, in buona parte?) alle occasioni di conoscenza e riflessione sul mondo (in senso diacronico e sincronico) offerti dalla scuola stessa.

La fiducia però non è fede cieca e assoluta.

La fiducia chiede ogni volta di essere confermata e rilanciata. Anche e soprattutto nei momenti di fatica e sconforto.

Un esempio? Tanti. Uno per tutti, che ha a che fare con la bellezza, e il suo contrario, la bruttezza. Tutto chiede bellezza

Lo chiede quella parte di mondo devastata dalla miseria e dalla guerra, ma lo chiede ogni angolo di mondo in cui ci sia incuria e degrado.

Lo chiedono le città i palazzi le scuole. Già.

Le scuole, che dovrebbero essere i luoghi elettivi per educare al bello, a volte (spesso?) sono luoghi poco curati e mal tenuti, per mancanza di investimenti e per le ben note difficoltà a prendersi cura (insieme, ognuno per la propria parte) dei beni pubblici.

Eppure ogni tanto ci si prova. Si ridipinge la facciata, si vernicia il portone e in poco tempo ti trovi a pensare: che bello! Come è bella la nostra scuola. Come è bello entrare in questo luogo che non è la nostra abitazione privata. Ma è la casa di tutti, scuola pubblica si chiama, infatti.

Eppure, eppure dopo pochi giorni ti trovi a pensare, di fronte alle scritte (graffiti? tag?) apparse nottetempo sulla facciata, che forse ti sei sbagliata. Forse hai riposto troppa fiducia nei giovani. Quelli della tua scuola (spereresti di no, ma per onestà non lo puoi escludere, al pensiero delle scritte nei bagni e negli spogliatoi), quelli della scuola a fianco o i ragazzi delle periferie che vengono in centro, pieni di rabbia e rivalsa. E via così, di pensiero in pensiero, di stereotipo in stereotipo, di mezza verità in mezza verità.

La verità (un quarto almeno) è che la bellezza, a una certa età, a qualcuno (pochi?) vien voglia di sfregiarla. Forse per dirci che i nostri palazzi e la nostra bella società gli fanno schifo.

E pure la scuola, che è il mondo che più frequentano (sono obbligati a frequentare) gli fa schifo. Forse a giorni alterni, quando prendono 2 nella verifica di matematica o quando la compagna di banco li ignora, o forse sempre, perché la scuola tutta, con i suoi riti e la sua “messa in scena”, gli sta stretta.

La verità (l’altro quarto) è che la maggioranza ha (spesso, talvolta) le stesse rabbie e le stesse frustrazioni di chi imbratta i muri, eppure esprime quei sentimenti in altro modo. Più cultura, più parole, più strumenti per dare/darsi voce? Può essere. E questo “può essere” ci interroga e ci esorta a continuare a disseminare sapere.

L’altra verità (la mezza verità inesplorata) è che mai come ora occorre un cambio di paradigma. Qualcosa che ci faccia dire che non solo il privato (il personale) è pubblico (politico), ma che il pubblico è il nostro privato.

Avere cura dello spazio pubblico (la polis), significa avere cura del nostro privato, che non è solo la nostra abitazione (e i beni che essa contiene), ma è il nostro corpo, la nostra mente e la nostra psiche.

Implosi nel privato coatto delle nostre abitazioni (dal covid e oltre) e dei nostri schermi (i social, Netflix e altro) abbiamo disimparato quanto il pubblico sia un bene da tutelare non solo per “buona educazione”, ma perché vivere in spazi belli e curati è il presupposto per creare e mantenere benessere.

Mi ha molto colpito, in uno dei tanti servizi dal martoriato Medioriente, l’intervista a un giovane fotografo palestinese che così diceva: “Voglio tornare a fotografe la mia bella Gaza”. Lo ammetto, stereotipo su stereotipo, di non aver mai pensato a Gaza come bella. So che lo è stata molti decenni fa, ma negli ultimi anni ho sempre pensato a Gaza, e a molti altri luoghi del mondo, come posti dove fosse un diritto vivere, ma, per mille ragioni che ora non mi dilungo a spiegare, tra le quali la povertà e il sovraffollamento, non ho mai pensato di abbinare la parola bellezza a Gaza.

Eppure quel fotografo (che quindi di immagini se ne intende) parlava della bellezza della sua terra e della sua città.

Perché in fondo di questo si tratta. Bellezza e appartenenza sono due termini indissolubilmente legati.

Non ciò che ci appartiene, ma ciò a cui sentiamo di appartenere, meglio ancora il luogo nel quale desideriamo appartenere, è bellezza. E come tale, anche se ancora non è il “tutto”, essa chiede salvezza, e qui, senza ombra di dubbio, sono io che prendo a prestito le parole di Mencarelli.

Salvare la bellezza del mondo è l’unico modo per salvarsi.

In un mondo sempre più ossessionato dalla bellezza individuale, appare paradossale come non si comprenda come senza la bellezza del mondo non ci saranno più specchi su cui riflettere il nostro esasperato narcisismo.

Il pubblico (il mondo, la polis) è il privato. La politica è il personale. Questo dovrebbe essere lo slogan di questi tempi bui.

Occuparsi della polis, co-costruire appartenenza, generare bellezza, così che ogni sfregio, ogni scritta, ogni bomba, sia sentita come sfregio al nostro privato. Non stare bene se il mondo non sta bene. Non vedersi belli se il mondo non è bello.

Voglio restare nella mia bella Gaza. Voglio passeggiare nella mia bella città.

Voglio studiare, sorridere, arrabbiarmi, innamorarmi, nella mia bella scuola.

Canta Brunori Sas, con la consueta malinconica ironia, che “anche dire che lei è la tua donna non va mica bene, mica è roba tua”, e certo c’è del vero e del giusto in quello che dice “da maschio etero bianco” che si vede “un po’ stanco e lo sa”[2].

Eppure i pronomi possessivi (si può dire possesso?) sono talmente evocativi che ognuno di noi non può non ripensare alla bellezza dell’infanzia. La mia mamma, la mia maestra, la mia migliore amica.

E poi, da adulti, sul lavoro: i miei colleghi, i miei insegnanti.

Pronunciare mio/mia/miei/nostro significa riconoscersi parte di un gruppo e di una relazione ricca di senso.

Fuori dalle derive di controllo e di abuso, il pronome possessivo rimanda al piacere, o al desiderio, di essere parte di un contesto (un mondo, piccolo o grande che sia) di cui si riconosce la bellezza. E della cui bellezza ci si prende cura.

E allora? Dove voglio andare a parare? Da dove ero partita?

Già, tutto questo blaterare per una scritta sulla parete della scuola appena imbiancata. Eppure è da lì che tutto parte. Da quello sfregio sulla mia scuola che ho sentito come uno sfregio al mio corpo.

Ogni mattina, entrando a scuola, sento che non starò bene finché quella cicatrice non sarà riparata.

E allora penso, ingenua, se non stia qui il segreto della guarigione. Prendersi cura dei corpi delle nostre città per curare le ferite dei nostri corpi.

Curare un’aiuola, una piazza, una scuola, cancellare una scritta sui muri per cancellare i tagli sui nostri polsi, raccogliere i rifiuti per buttare le nostre ansie nell’indifferenziato, riempire i buchi delle strade per sanare la nostra fame bulimica.

Che bello sarebbe se bastasse questo a far guarire i nostri giovani, quelli che ancora oggi, complice il long covid e altro ancora, sono ripiegati nella depressione, incapaci di guardare oltre le ferite della propria anima e del proprio corpo.

Che bello sarebbe (quante volte in questo scritto ho usato la parola bello?) se bastasse questo a curare la rabbia di quei giovani che, complice il long covid e altro ancora (mi ripeto, lo so) deturpano i muri delle città e delle nostre scuole.

Il pubblico è il privato. La politica è il personale.

Allora perché la politica non si preoccupa di lavorare sulla salute pubblica affinché si possa creare davvero benessere personale e individuale?

Lavorare sulla salute pubblica non significa solo, per quanto fondamentale, ridurre le liste d’attesa, ma significa, prima di tutto, creare bellezza. E la bellezza si crea e si mantiene se si lavora, insieme, sulla creazione di senso. Sentirsi parte di una comunità, sentire di appartenere a una scuola, a una città, al mondo, è l’unico motivo che ci può far dire: tutto, tutto ciò a cui appartengo, chiede bellezza. E la bellezza, una volta che la riconosci come tale, la vuoi (sempre, per sempre) salvare.

Tutto chiede bellezza. Tutto esige salvezza.

Le città chiedono bellezza. Gaza esige salvezza.

La scuola chiede bellezza per salvare, insieme ai giovani, questo “campo minato su cui crescono fiori bellissimi”.[3]

PS Terminato questo scritto (qualcuno mi accuserà di essere andata fuori tema, ma si può andare fuori tema in un articolo che ha nel titolo, astutamente, la parola “tutto”?) mi chiedo se, in un mondo dominato da adulti che chattano di guerre e attacchi militari come se stessero organizzando una partita di calcetto, le scritte sui muri, da cui tutto è partito, non le abbiano fatte vecchi uomini bianchi. Le donne no, lasciatemi ancora nella certezza (stereotipo?) che le donne certe cose non le facciano.

[1] Daniele Mencarelli, Tutto chiede salvezza, Mondadori (2020)

[2] Brunorsi Sas, La ghigliottina (2024)

[3] Diodato, La mia terra (2023)

Alessandra Condito Dirigente scolastico