Competenze e conoscenze: oltre la falsa dicotomia
![Tra i passaggi della bozza delle Nuove Indicazioni Nazionali per la scuola dell’infanzia e il primo ciclo, quello che più ha sollevato un acceso dibattito è il nuovo rapporto tra conoscenze e competenze, con rilevanti implicazioni operative. Il testo restituisce alle conoscenze una centralità che, secondo molti, era andata perduta, evocando l’idea di un’istruzione fondata sul docente come veicolo di un sapere solido e disciplinare, in apparente contrasto con i modelli dell’insegnante-facilitatore e della didattica puerocentrica che negli ultimi anni […]](https://www.educationduepuntozero.it/wp-content/uploads/2025/09/317f42a9-7e19-4aaf-b116-f5f683d41d4e_large.jpg-360x225.jpeg)
Tra i passaggi della bozza delle Nuove Indicazioni Nazionali per la scuola dell’infanzia e il primo ciclo, quello che più ha sollevato un acceso dibattito è il nuovo rapporto tra conoscenze e competenze, con rilevanti implicazioni operative.
Il testo restituisce alle conoscenze una centralità che, secondo molti, era andata perduta, evocando l’idea di un’istruzione fondata sul docente come veicolo di un sapere solido e disciplinare, in apparente contrasto con i modelli dell’insegnante-facilitatore e della didattica puerocentrica che negli ultimi anni hanno ispirato — se non sempre nella prassi, almeno idealmente — l’orientamento di molti professionisti della didattica e dell’educazione. Questa contrapposizione, tuttavia, rischia di semplificare una realtà più complessa in cui i due approcci spesso coesistono e si arricchiscono vicendevolmente.
Interpretata come un potenziale passo indietro, il Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione ha chiesto di sostituire, nel paragrafo “Scuole e famiglie in un nuovo patto di alleanza”, la frase «La scuola è la sede principale per la trasmissione di conoscenze» con «La scuola è la sede principale per la co-costruzione degli apprendimenti», alimentando un dibattito molto sentito tra docenti, pedagogisti e dirigenti scolastici.
L’impressione è che la discussione tenda a polarizzarsi in due schieramenti, in qualche misura ideologici. Da una parte, gli innovatori mossi da un ottimismo progressista attribuiscono alla scuola delle conoscenze la colpa di soffocare la motivazione degli studenti e di favorire la dispersione scolastica, con un apprendimento mnemonico e nozionistico e standard rigidi che ignorano le complessità del presente. Dall’altra, i difensori della didattica tradizionale accusano la scuola delle competenze di svilire il ruolo del docente — ridotto a facilitatore — e di fondarsi su una didattica cooperativa e per progetti che, uscendo dagli schemi della lezione frontale e trasmissiva, sarebbe causa dell’impoverimento culturale degli studenti.
La dicotomia conoscenze-competenze riflette una diffusa difficoltà a individuare un equilibrio che valorizzi tanto il rigore disciplinare quanto l’attenzione alle soft-skills della modernità avanzata.
Il conflitto nasce probabilmente da uno spiacevole malinteso: il passaggio dalla scuola delle conoscenze a quella delle competenze non comporta — come spesso si crede — né la subordinazione delle prime alle seconde, né l’innovazione a tutti i costi.
La scuola delle competenze è quella in cui i contenuti disciplinari generano — con consapevolezza e intenzionalità pedagogica — anche competenze trasversali: abilità comunicative e relazionali, capacità di ascolto e di collaborazione, empatia, autonomia e spirito critico. Non si tratta di scarnificare o marginalizzare il sapere per asservirlo alla praticità o garantire il successo formativo, ma di giustificare e applicare la conoscenza trasmessa esplicitandone il valore, scegliendo criticamente le metodologie didattiche e le risposte pedagogiche più efficaci, di volta in volta, in base al contesto e secondo il bisogno.
L’insegnante che persegue l’innovazione a ogni costo non è più efficace di chi si affida unicamente alla lezione frontale: entrambi mal interpretano il paradigma educativo delle competenze, ignorando che questo approccio non esclude né l’innovazione metodologica né le strategie tradizionali, ma supera entrambe come fini a sé stesse.
La Raccomandazione UE relativa alle competenze chiave per l’apprendimento permanente (2018) ci rassicura: l’innovazione didattica è finalizzata all’acquisizione di competenze intese come “gli strumenti che consentono di sfruttare in tempo reale ciò che si è appreso, al fine di sviluppare nuove idee, nuove teorie, nuovi prodotti e nuove conoscenze”. Non si tratta quindi di superare le conoscenze, bensì di acquisirle al fine di convertirle in competenze, introdotte nel documento come “una combinazione di conoscenze, abilità e atteggiamenti”. Tale definizione sottolinea come l’apprendimento, lungi dal negare l’imprescindibilità dei contenuti, possa e debba coinvolgere l’intera persona, integrando il sapere e il saper fare con il saper essere.
Una lettura lucida del paradigma delle competenze non può però rinunciare alla segnalazione di alcune criticità insite nel modello proposto.
L’effettiva implementazione delle competenze trasversali — dalla creatività al problem solving, dall’imprenditorialità alla cittadinanza attiva — incontra ostacoli non trascurabili, richiedendo una revisione profonda della progettazione curricolare, dei criteri e strumenti di valutazione e della formazione, sia iniziale sia continua, dei docenti. In aggiunta, nel contesto della cosiddetta “società fluida” — caratterizzata, secondo Bauman, da relazioni instabili, rapida obsolescenza delle competenze e continua trasformazione delle condizioni economiche e sociali — si tende ad attribuire all’istruzione il compito di rispondere a esigenze molteplici e mutevoli. Questa dilatazione delle finalità educative, se non accompagnata da un saldo riferimento a saperi disciplinari e a pratiche consolidate, rischia di ridurre l’istruzione a un dispositivo funzionale a esigenze contingenti, vanificandone la funzione formativa. Il pericolo è quello di disperdere le energie in troppe direzioni, senza una bussola chiara e condivisa.
In una realtà sempre più complessa e mutevole che — forse anche per l’assenza di un efficace piano di educazione degli adulti — delega alla scuola responsabilità crescenti, la risposta di chi opera nel settore dell’istruzione non può essere quella di farsi carico di tutto, sostituendosi alla famiglia o adottando logiche aziendali, ma nemmeno quella di conservare modelli obsoleti nel nome del merito o “perché si è sempre fatto così”.
Oggi, una scuola delle competenze ha una sua ragion d’essere, se la conoscenza viene preservata, la lezione frontale integrata con senso — non sostituita ideologicamente — e il sapere impiegato per istruire e formare il cittadino di domani, curandone tanto il profilo culturale quanto quello educativo. Non è forse questa la strada che conduce a quella “testa ben fatta” che, secondo Morin, è “atta a organizzare le conoscenze così da evitare la loro sterile accumulazione” e a “concepire che una stessa cosa possa essere causata e causante, aiutata e adiuvante, mediata e immediata”?
Nel quadro di un mondo educativo in forte tensione, le parole di Morin rimangono incisive e attuali.
Riferimenti:
Bauman, Z. (2012). Modernità liquida. Gius. Laterza & Figli Spa.
Morin, E. (2000). La testa ben fatta. Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero.
EUROPEA, I. C. D. U. (2018). Raccomandazione del Consiglio del 22 maggio 2018. Competenze chiave per l’apprendimento permanente.
Cristian Ruggieri – Docente con un background da educatore professionale. Laureato in Scienze Filosofiche, si interessa di inclusione e di apprendimento come esperienza trasformativa.



