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Bullismo e dintorni

Pubblicato il: 10/05/2023 03:41:38 -


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La nostra generazione, la mia, scolasticamente parlando, è quella tra fine anni ‘60 e ‘80, è cresciuta al suono di parole come sacrificio, impegno e disciplina, perché si sa la vita non è una passeggiata per nessuno e se a scuola si forniscono le risorse per affrontarla si sarà contribuito non solo ad istruire ma, soprattutto, anche a formare “uomini e donne” cittadini responsabili (educare). 

A scuola, ai miei tempi, si studiava l’educazione civica ma non esisteva il PCTO (Percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento) in quanto l’orientamento era già stato individuato a monte, dalle scelte fatte dopo la licenza media e poi, successivamente, confermato dal rendimento scolastico durante i cinque anni del liceo. 

A quei tempi, esistevano già i decreti delegati, le mamme si recavano dagli insegnanti per ascoltare, così da riferire, una volta rientrate a casa, una sintesi del colloquio avuto all’altro genitore. Si parlava del figlio/figlia, discutendo e magari commentando i comportamenti del figlio fuori dall’ambiente familiare e di quello che avrebbe potuto fare da “grande”.

Questo racconto, tuttavia, non vuole essere denso di nostalgia e neanche archiviare il tempo passato al grido “ai miei tempi le cose erano diverse”.

Perché non è proprio così, le cose non erano diverse o per lo meno non tutte le cose erano diverse rispetto ad oggi, c’erano già sia il bullismo sia i divari territoriali, c’erano i figli di papà, i raccomandati, i lavativi, ecc.

Eppure forse, a fronte di una maggiore sensibilizzazione attuale, in passato c’era più chiarezza sui ruoli e sull’uso delle parole, che avevano lo stesso significato per tutti.

Educazione, istruzione, diritti, doveri non erano termini flessibili e adattabili a seconda del caso, come sta accadendo nell’era liquida, dove vige sempre più il diritto proprio e il dovere dell’altro. È così se il diritto all’istruzione è riconosciuto dalla Costituzione, va da se’ che il dovere all’istruzione non sempre corrisponde con il dover studiare, in una costante altalena di deresponsabilizzazioni tra scuola, famiglia, società, adulti, giovani, come quasi a voler dire “il servizio sanitario pubblico ti garantisce la cura, ma si lascia libero l’ammalato di poter dire la sua: queste medicine sono troppe, questo medico è poco empatico ne voglio un altro, l’infermiere non sorride quando somministra la terapia si potrebbe chiedere al dirigente di cambiargli classe, pardon intendevo dire reparto.

Eh sì, è quello che succede nelle scuole, si chiede sempre ai docenti di adeguarsi e mai agli studenti di studiare.

Da alcuni giorni mi sono ritrovata a vivere una situazione un po’ straniante, avendo appreso che in alcuni corsi di formazione pare sia stato detto agli insegnanti di non valutare gli alunni con un voto inferiore al quattro, perché il numero/voto 3 sarebbe da considerarsi umiliante per lo studente, che a sua volta dovrebbe ritrovarsi siffatta valutazione.

Il quattro è invece considerato più accettabile e quindi non umiliante, come il tre. Forse quello che mi trovo a sollevare potrebbe essere considerato un problema di lana caprina, in quanto sia il tre che il quattro vengono classificati come voti al di sotto della sufficienza e questo giudizio potrebbe a sua volta coinvolgere anche il cinque, perché è pur sempre un voto al di sotto della sufficienza, o forse no, essendo una quasi sufficienza che, facilmente, in sede di scrutinio potrebbe trasformarsi in sei?

Eppure la riflessione che nasce da esperienze scolastiche in corso potrebbe essere ulteriormente arricchita da ulteriori esempi, definendo l’origine dell’umiliazione solo in un voto, tre in questo caso.

Ammettiamo che il genitore consideri non solo umiliante per il proprio figlio un voto al di sotto della sufficienza, ma che tale valutazione si possa considerare un atto di bullismo perpetrato dal docente ai danni del proprio figlio, nel qual caso il problema si complicherebbe e allora cosa fare?

Se l’istruzione è importante, ai fini di questa, la valutazione lo è altrettanto o no? 

Generalmente si cresce imparando dai propri errori ed è sull’errore che si costruiscono le competenze. La consapevolezza dell’errore avvia il processo di miglioramento, altrimenti sarebbe solo un passatempo. Non si vuole, tuttavia, affermare la supremazia del voto, ma l’importanza della valutazione, per cui se l’attenzione viene spostata sul voto, 3-4-5, si rischia di perdere di vista il processo valutativo, che necessità di sconfitte, partenze e ripartenze, altrimenti è tutto una linea piatta, e si sa che in medicina quando “la linea è piatta” il paziente è morto.

Le salite fanno apprezzare di più le discese e anche i tratti pianeggianti ma se nella scuola, per paura di scontentare le famiglie, che a loro volta sono incapaci di dire no ai propri figli, si considera il voto mortificante/umiliante, è quasi come se esso fosse l’anticamera del bullismo verso i giovani studenti. Se, quindi, immaginiamo schiere di docenti, assetati di sangue che vogliono umiliare i propri alunni con un bel tre, allora la partita è persa, perché difficilmente si troverà un dirigente che si schiererà a favore dell’educazione delle famiglie, le quali a loro volta non vogliono essere educate (ascoltando le parole degli insegnanti), ma vogliono principalmente parlare (essere ascoltati) e, soprattutto, dire agli insegnanti cosa devono fare. Si potrebbe quindi definire il rapporto come una costante ingerenza nel binomio scuola-famiglia, avendo la consapevolezza che in un qualsiasi servizio “il cliente ha sempre ragione”?

Ma la scuola non correrebbe il rischio di delegare al proprio ruolo educativo, barattandolo per un servizio di istruzione, neanche sempre ben riuscito, a voler leggere i dati nazionali?

Sebastiana Fisicaro Già dirigente tecnico. Formatrice per Invalsi e Indire. Coordinatrice Rete SOPHIA 3.0.

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