Scuola licealizzata: la necessità di rinnovare la struttura dell’offerta formativa

Nei primi dati resi pubblici sulle nuove iscrizioni alle prime classi, il fuoco è sulle scelte  tra i  percorsi successivi alla scuola media e  tra le diverse offerte di tempo-scuola nel primo ciclo. Non è un dettaglio  insignificante che manchino le scuole per l’infanzia e  l’istruzione degli adulti, e che sia  incompleto il quadro sull’istruzione e formazione professionale delle Regioni. Trattandosi di sole percentuali, i numeri non danno purtroppo conto dell’impatto dell’andamento demografico né di  eventuali  flessioni connesse con la pandemia. Tra i comunicati degli USR, quello della Puglia registra, rispetto al 2019-20, cali di 10,5 punti nella primaria, di 10 nella media, e addirittura di 20,4 nella superiore, un andamento che, se confermato, sarebbe più che allarmante. Come sempre, perché è la gara che fa la notizia, sono  i dati sui movimenti  dei vari comparti e indirizzi della superiore a essere i più commentati. Con qualche  inquietudine in più, quest’anno, rispetto agli anni scorsi. Ed anche, era ora, con qualche proposta.

Prosegue in Italia il processo di licealizzazione

Le scelte relative ai percorsi successivi alla scuola media segnalano  un’ulteriore crescita dei licei (  da 56,3% a 57,8 % ), un lieve calo dei tecnici ( da 30,8% a 30,3 % ), un più netto arretramento degli istituti professionali ( da 12,9% a 11,9% ). Il  divario tra Nord e Sud  resta straordinariamente ampio, non spiegabile unicamente con la diversità economico-produttiva dei contesti. Per i licei i valori più alti sono in  Lazio ( 71,2 ),  Campania ( 64,3 ),  Abruzzo (63,9 ), Sicilia ( 63,8 ), i più bassi (48,2 ) in Veneto e in Emilia- Romagna. Per i tecnici, i valori più alti sono in Veneto (38), Lombardia ( 36,2 ), Emilia-Romagna (36), Friuli (35,7 ). Per gli IPS, i valori più alti sono in Emilia-Romagna (15,8 ), Veneto (13,8), Basilicata ( 13,7),Toscana ( 13,5 ). Quanto ai movimenti interni ai comparti, in quello liceale il classico ( 6,5% ) è in lieve calo, mentre  lo scientifico, che sale al  26,9%, vede una flessione del tradizionale e una crescita di scienze applicate. Nel comparto tecnico, cresce il settore tecnologico e diminuisce quello economico (mentre mancano dati disaggregati in quello professionale).

Lo stesso trend degli ultimi anni, rivelatore del fallimento del conclamato,ma poco fattivo, impegno al rilancio del comparto tecnico-professionale. Che in altri Paesi europei attrae quote di domanda molto più consistenti, e quindi  meno connotate dallo svantaggio socio-culturale e scolastico. In Italia è invece il comparto liceale a gonfiarsi, anche grazie alla moltiplicazione degli indirizzi, tra cui la variante  scienze applicate (e senza latino ) del liceo scientifico, l’assorbimento degli istituti d’arte nei licei artistici,  lo scientifico a indirizzo sportivo e altre invenzioni più o meno coerenti con il l profilo culturale liceale. Con diversi effetti critici o problematici, che non riguardano solo lo scollamento rispetto a una realtà economica e sociale che richiede sempre più competenze di tipo tecnologico o il mismatch tra preparazione scolastica e fabbisogni professionali di parte delle imprese,  ma anche l’affollarsi  di giovani in percorsi  liceali per lo più caratterizzati da una forte distanza culturale dal mondo del lavoro e dalla possibilità  (privilegio o disorientamento ?) di rinviare a dopo il diploma, talora anche oltre, l’accertamento delle propensioni/ vocazioni individuali e la responsabilità di decidere del proprio  futuro professionale. 

Un’offerta di istruzione sempre più distratta verso i percorsi professionalizzanti

Cose fin troppo note. Che tuttavia negli ultimi anni non hanno sollecitato, dentro e attorno al pianeta-scuola, una  richiesta o volontà di revisione  delle caratteristiche ordinamentali di un’offerta di istruzione tutt’altro che innocente rispetto a queste  anomalie. Quando se ne è discusso, i temi sollevati non sono stati il riordino dei cicli, una ridefinizione del periodo scolastico 11-16 anni coerente con l’obbligo decennale, l’importanza di un orientamento più serio e impegnativo delle fiere dell’open day, l’introduzione tra i 14 e i 16 anni di attività opzionali ed elettive attraverso cui maturare le scelte. E neppure, tranne in pochissimi casi, il superamento dell’insensata sovrapposizione tra professionali statali e un’istruzione e formazione professionale regionale  che è ben strutturata e qualificata solo in alcune aree (ma non dove dispersione ed abbandoni sono più alti). Con un silenzio imbarazzante, a 15 anni dal varo dell’obbligo decennale, persino su un esame di stato inchiodato alla fine della scuola media che, oltre ad autorizzare concorsi all’impiego pubblico in cui campeggia quell’avvilente ‘basta la licenza media’, non scoraggia di certo gli abbandoni precoci. Non basta, a spiegare tutto ciò, solo il timore della politica di imbarcarsi in proposte impopolari e destinate a scatenare la solita folla di contrarietà conservative. Ma è un fatto che  nei media generalisti e anche in ambiti più specialistici, si è per lo più preferito  replicare la solita riflessione sui motivi per cui nell’opinione pubblica, nelle famiglie, e anche tra gli insegnanti persista l’idea che ogni percorso formativo che guarda al lavoro sia immancabilmente  di serie B o C, a cui indirizzare gli studenti più scadenti, i più poveri che non potranno permettersi l’università, quelli con back ground migratorio. O discettare della miseria  educativa della ‘società affluente’ che nel liceo vedrebbe soprattutto il raggiungimento di uno status symbol, del tutto avulso da vocazioni, capacità, prospettive professionali. 

Riflessioni in cui c’è del vero, ma che non bastano. Se non altro perché  è indubbio che ci sono anche altre società ‘affluenti’, in Europa e altrove, in cui  il comparto tecnico e professionale è invece solido, curato e diffusamente apprezzato, capace di articolarsi in percorsi diversi con uscite multilivello basati anche sul ‘duale’ in alternanza tra studio e lavoro, aperto all’accesso, anche dall’apprendistato, all’istruzione terziaria accademica e non accademica. Sono Paesi che in forme diverse hanno sviluppato la VET (Vocational Education and Training), in cui dispersione e abbandoni  sono più contenuti, il rapporto dei giovani con il lavoro è più facile, il mismatch tra preparazione scolastica e fabbisogni professionali è ridotto, l’istruzione degli adulti non è solo seconda chance ma  apprendimento permanente. E se si provasse, sia nella scuola che nelle imprese, a imparare da queste realtà ? 

Questa volta però, in parecchi commenti, emergono o ritornano alcune buone idee. Quelle, per esempio, di posticipare a 16 anni la scelta dei percorsi post scuola media ( che da noi, per motivi che hanno a che fare solo con la complicata gestione della mobilità dei docenti, si fa 8 mesi prima della fine della scuola media e 2 anni e mezzo prima di quella  dell’obbligo) e di  sorreggerla con attività di carattere opzionale e elettivo. Di incentrare i bienni della secondaria superiore sul consolidamento e l’approfondimento delle competenze di base accorciando di un anno i percorsi per il raggiungimento del diploma. Di istituire due comparti fondamentali, da un lato licei e tecnici, dall’altro una filiera di istruzione e formazione professionale forte, qualificata, diffusa sul territorio, con uscite di livello diverso e accesso all’istruzione terziaria. Basta, insomma,  con le scuole ibride che non danno né formazione generale né formazione professionale, e da cui si esce, quando non si abbandoni il percorso, con competenze inadeguate sia alla vita adulta che al lavoro (un dato di fatto che sta di sicuro dietro alla scarsa attrattività dei professionali, e forse anche dei tecnici ). 

Sono proposte di buon senso, che rimettono al centro la necessità delle riforme perché non sono i progetti speciali o le attività aggiuntive, e neppure solo una didattica innovativa all’interno di un vecchio guscio, a poter fare il miracolo. E perché è la struttura dell’offerta, il suo modello organizzativo e culturale, il fattore che può favorire la trasformazione della domanda. Una bussola, quest’ultima, che interessa  l’altro risultato che emerge dai dati, cioè la crescita lenta ma continua della domanda di tempo pieno nella scuola primaria, passata quest’anno dal 45,8% al 46,1%. Ma, come sempre, con giganteschi divari tra le regioni in cui il tempo pieno è già una realtà diffusa (nel Lazio, Piemonte, Emilia Romagna, Lombardia la domanda è sempre sopra il 60% ) e quelle in cui è invece storicamente debole (in Sicilia la domanda si ferma al 14,8%, in Molise al 15,3%, con la sola Puglia appena sopra il 21% ).  Si può davvero ipotizzare che senza una riforma ordinamentale che assuma come modello unico o principale le 40 ore settimanali (e senza il necessario intervento degli Enti Locali ), la primaria a tempo pieno possa crescere anche nel Sud ? 

 

  

Fiorella Farinelli Politica e saggista,  docente esperta di  istruzione e formazione, componente dell’Osservatorio nazionale per l’Integrazione degli alunni stranieri