Le parole sono vento: metacognizione e iperconnesione

Se si è pessimisti riguardo all’uomo tanto vale legarsi una pietra al collo e buttarsi al mare. Luigi Pintor

La rete del web dà un senso di sicurezza ma così come viene se ne va presto e non sa dove va[1]; così effimera eppur necessaria, come il vento.

La riflessione che è conseguita a un   incontro, che in modo immersivo mi ha calato nella vita e nella ricostruzione narrativa delle esperienze del produrre, del calpestare e dell’osservare la terra e le stagioni,  è che molti  nostri giovani studenti passano molto tempo da soli e non hanno molte occasioni di contatto o hanno genitori a cui riesce difficile parlare del mondo tecnologico perché si sentono incompetenti e inadeguati.  In rete le mezze parole o i testi tutti interi fanno i conti con le assenze: il mostrarsi prende il posto dell’incontrarsi, il contatto prende il posto della conoscenza e dell’intimità nella differenziazione. Liberi dal con-tatto si può cambiare faccia e identità e non vi è il rischio di una relazione vera.

Nella rete si passa da una razionalità di tipo reale a una virtuale nella quale il corpo scompare dietro la macchina. Non so se vi è mai capitato di vedere la trasmissione Catfish su MTV: ragazzi che si incontrano sul web con un nickname e chiedono aiuto a due adulti che come investigatori cercano la vera identità di chi sta dietro al pc. Puntualmente si scopre che quello che si presenta come adulto in realtà è un bambino o viceversa una donna in realtà è un uomo, il ragazzo è un anziano ecc… La rete può diventare l’anestesia del corpo ma anche no: sentiamo le emozioni nei nostri contatti social ma per chi si nasconde il rischio è di rimanere con-fusi, fusi con la rete. Una rete in cui anche le parole sono come smaterializzate di ogni verità e utilità. Da un corpo reale si passa a un corpo virtuale, si va nella mente e nell’immaginazione per contatti basati solo sull’immagine. Mettendo insieme la salute, lo sradicamento, il disagio e l’attività di prevenzione di chi si occupa di disagio sociale o psichico[2], non possiamo a mio avviso non tener conto della grande nostalgia di futuro che viviamo .

Mi sembra che per i nostri studenti sia sempre più difficile immaginarsi registi dei propri sogni, là dove gli adulti hanno un po’ abdicato alla loro posizione di reggere la sfida e affrontare la conflittualità e le sconfitte. Lo stare bene però sta proprio nel sapere accettare le conflittualità. Un’altalena tra una vittoria e una sconfitta, tra una passione e un’altra senza affezionarsi troppo all’una o all’altra. L’aumento esponenziale di disturbi alimentari, gioco d’azzardo, dipendenza da internet negli ultimi vent’anni dimostrano che il disagio giovanile non è un virus ma è sintomo di qualcosa di molto più profondo che nasce all’interno delle relazioni fondamentali (famiglia, scuola, gruppo dei pari, le città…). Occupandomi prevalentemente di alfabetizzazione soprattutto per  studenti che vengono da quasi tutti i Paesi poveri del mondo, mi rendo conto che diventa sempre più necessario, urgente, una rialfabetizzazione emotiva dei nostri ragazzi, perché diventino capaci di riconoscere le proprie emozioni, a sentire l’altro ma soprattutto ad ascoltare se stessi, per non essere alienati.

Perfettamente istruiti, capaci di fronteggiare calcoli o lingue complesse, qui penso a tanti studenti dei migliori o prestigiosi licei della mia città, ma parzialmente o totalmente, nei casi più gravi, analfabeti sul profilo psicoemotivo, privi della capacità di sapersi contrattare con l’altro. Di rapirlo di curiosità e di ‘rapinarlo’ per la curiosità e le idee. Il sintomo però non è mai la causa di un disagio ma l’effetto di un malessere che si è coltivato molto prima. Pensare di cambiare il senso di una storia tagliando solo l’ultima parte, non risolve i problemi. Il buon senso insegna che per stare bene ci vogliono l’amore, il lavoro, gli amici…ma prima di tutto i soldi. Ma, forse, non basta. Le menti illuminate ci insegnano anche che i giovani devono essere protagonisti. Nel senso che possano incidere nelle relazioni con altri. Bisogna insegnare l’amore per l’altro come persone che possono cambiarci migliorandoci. L’altro come risposta a quella sete di conoscenza e di completezza che ci portiamo dentro.

La salute e la serenità non è uno stato da raggiungere, ma un vento che viene e va continuamente, un’altalena tra la completezza e la mancanza. Tra vittorie e sconfitte, tra una persona e l’altra. La capacità di entrare nella testa dell’altro, di imparare a mettersi nei panni dell’altro. La capacità di passare dal io devo al io desidero, preferisco. Proprio questo dare spazio al volere definisce la propria identità.

Benson considera che l’identità è una differenza che produce differenza[3]. Le differenze creano mancanze quindi desiderio, quindi cambiamento. Se l’altro non sente il desiderio di quello che gli stiamo proponendo l’informazione non passa, l’apprendimento non nasce. Il web ha il potere di permettere di condividere ma è necessario essere accompagnati e allenati da docenti che siano punti di riferimento essenziali, capaci di distinguere tra tecnica e conoscenza, in grado di preservare i ragazzi dall’indottrinamento aiutando a conoscere e a far  conoscere gli effetti boomerang di un uso esagerato e sbagliato della rete. Accogliere e percorrere quelle sfumature che fanno dell’altro proprio esattamente quella persona significa riconoscere l’importanza della psico-diversità. Riconoscere che le persone non sono indipendenti ma sempre multi-dipendenti le une dalle altre e che il mito della novità puzza di vecchio e stantìo. Ebbene, Gianni Repetto, suo padre Menegullo e Luigi Pintor, Alessandro Padovani e Kaos e molti altri  (v. racconto in pdfmi hanno catapultato su quattro principi che a mio modesto avviso aiutano ad apprendere e a conoscere se stessi e l’altro.  Il principio di complessità cita: «Fai qualsiasi cosa che aumenti le possibilità di vita degli altri»; Principio di attivazione: «ai qualsiasi cosa che obblighi chi ti guarda a farne altre»; Principio di creatività: «Fai qualsiasi che obblighi chi ti guarda a farne altre che non ha mai fatto prima» Principio di crescita: «i qualsiasi cosa che obbligando chi ti guarda a farne altre che non ha mai fatto prima costringa te a cambiare idea». Amare la vita significa prima di tutto avere sempre speranza perché da qualsiasi parte venga il vento, in ogni caso, farà sempre il suo giro.

il racconto della cena in pdf

[1] Da una ricerca Microsoft in 11 paesi europei, Italia compresa, su 14 mila utenti, presentata in occasione del Safer Internet Day 2010, la giornata europea per la sicurezza in Rete, emerge che il 79% dei teenager europei oggi ha almeno una propria pagina su un social network e il 43% ritiene sia pienamente sicuro postare e condividere informazioni personali attraverso i social media.  Su l’Avvenire il dott. Ballerini (pedagogista e psicoterapeuta) afferma che 9 minori su 10 navigano in rete quotidianamente e il 18% afferma di trascorrere online più di 3 ore al giorno (con l’8% dei bambini sotto i 10 anni che navigano più di 5 ore al giorno). Il 26% dei ragazzi intervistati ha dichiarato di utilizzare la rete per fare amicizia e l’8% possiede più amicizie nel web che nella vita reale.

[2] Una idea. Se la dai è perché hai un piano per manipolare chi la riceve. Se la ‘prendi‘ significa che la stai rubando. Se te la ‘tieni’ non è più un’idea. Le idee vivono solo se vengono buttate. Ogni idea è un ponte nel vuoto. Esistono idee che trasformano il vuoto in possibilità; ne esistono altre che chiudono ogni possibilità nel vuoto. Esistono, quindi, idee di vita e idee di morte. Le prime sono sempre praticabili a singhiozzo; pongono domande strane e offrono risposte imperfette. Le seconde sono perfettamente realizzabili e hanno solo risposte. La morte, infatti non ha sfumature. Le idee stanno alle persone come la scrittura sta alla lingua che parliamo. Le idee senza le persone sono scarabocchi. Queste ultime senza idee non avranno mai nostalgia di un futuro. Le idee sono il teatro della diversità. Una cultura che non crea diversità è un palco vuoto. Ogni persona è il centro della diversità, perché ognuno vive fin quando si sente composto da cose diverse. Ognuno di noi è una spremuta irripetibile di possibilità. È forse per questo che le idee che semplificano hanno successo: ci fanno dimenticare chi siamo. Un’idea complessa, invece, fa da specchio alla nostra mente. Quindi è da buttare. Fai qualsiasi cosa che aumenti la possibilità di vita degli altri. Fai qualsiasi cosa che obblighi chi ti guarda a farne altre. Fai qualsiasi cosa che obblighi chi ti guarda a farne altre che non hai mai fatto prima. Fai qualsiasi cosa che, obbligando chi ti guarda a farne altre che non ha mai fatto prima, costringa te a cambiare idea. La ragione ha le sue passioni che la passione non conosce». da Idee strane sulla normalità -di Massimo  Buscema,  Sonda editore 1994-

[3] https://books.google.it/books?id=m8zEn0RcNsAC&pg=PA439&dq=Benson+identit%C3%A0&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwjStNTP-JfpAhXOs4sKHWEFCHsQ6AEIKDAA#v=onepage&q=Benson%20identit%C3%A0&f=false Anna Marotta, Elogio della Teoria.