Intrecciare ingegneria e umanesimo. Suggerimenti di un libro

L’ingegneria tradizionale è stata a lungo indifferente  all’analisi critico-storica delle tecnologie e decisamente ostile agli sconfinamenti nelle scienze umane e sociali. E’ proverbiale il senso di superiorità degli ingegneri verso gli architetti, largamente “infettati “ da sociologismi e considerazioni estetiche. E pensare che un tempo le due professioni erano un’unica professione, prima che le ragioni  dell’efficacia, dell’efficienza, e della sicurezza creassero, in particolare nell’800, la nuova ingegneria basata sulla certezza delle scienze. Scarsa o nulla è la presenza di discipline non scientifico-tecnologiche nel tradizionale curricolo di ingegneria, salvo un piccolo corso di economia, molto ancillare[1]

Le cose nel tempo sono un po’ cambiate e l’ingegneria non può sfuggire almeno al problema degli effetti sociali e dell’etica: basta pensare alla presente affannosa ricerca della definizione di limiti e regole per l’Intelligenza Artificiale. Ibridazioni di tecnologia e scienze umane nascono soprattutto nei corsi avanzati e nella ricerca. Ne è una testimonianza il libro Tecnosofia, scritto a due mani dal filosofo Fabrizio Marchis e dal rettore del Politecnico di Torino Guido Sarracco[2].

Al di la degli esiti accademici la costruzione di una cultura della tecnica è stata tentata in molti modi. In Italia è nato, negli anni ’50 del novecento, un movimento in questa direzione[3]. Ma è soprattutto nel mondo anglosassone che esiste, anche a livello accademico, un filone di storia e filosofia della tecnica[4]. E’ in quel contesto che sono nati anche due testi che hanno suscitato recentemente interesse anche fra i non specialisti: Brian Arthur-La Natura della tecnologia-Codice Edizioni,2011 e Guru Madhavan-Come pensano gli ingegneri. Intelligenze applicate-Raffaello Cortina, 2015. Ambedue, in modo diverso, spiegano i paradigmi e i risultati del pensiero tecnico.

Roma Agrawal è una affermata ingegnera strutturista che ha lavorato anche allo studio della statica di un importante grattacielo londinese. E’ appena uscito il suo libro, Dadi e Bulloni. Sette piccole invenzioni che hanno cambiato il mondo[5] , che è una sorprendente fonte di cultura tecnica, molto seria e documentata. Il suo metodo si basa su due procedimenti opposti. Il primo è la decostruzione-semplificazione che mostra come un oggetto costruito, piccolo o grande, può essere riportato a elementi funzionali semplici. Questo procedimento appare nel libro, ma è soprattutto utilizzato nelle sue lezioni-dimostrazioni su YouTube. Il secondo procedimento è l’opposto: come dal semplice si arriva al complesso. Ma questo percorso, nel libro, è studiato come uno sviluppo evolutivo intrecciato alla complessità della storia umana. Dice lei stessa: “nelle pagine che seguono vi mostrerò che l’ingegneria è l’incontro fra scienza, design e storia

Alla radice delle strutture tecniche, tradizionalmente, sono state poste le macchine semplici, dalla leva alla coclea di Archimede[6]. La Agrawal propone invece esplicitamente di superare questo catalogo con un sistema di sette oggetti elementari, ciascuno associato a un concetto-funzione. Rubando un termine alla linguistica potremmo chiamarli technemi:

Chiodo                        Saldare due oggetti

Ruota                          Movimento rotatorio

Molla                          Immagazzinare e restituire energia

Calamita                     Azione a distanza

Lente                           Modificare il percorso della luce

Corda                          Resistenza alla trazione e flessibilita

Pompa                         Muovere l’acqua

 

A ognuno di questi oggetti è dedicato un capitolo. L’archeologia e la storia ci indicano quando e in che forma compaiono questi oggetti, il modo in cui si sono modificati e hanno permesso la nascita di sistemi complessi.

Alcuni oggetti sono stati suggeriti dalla natura, ad esempio la calamita. Altri sono invenzioni. La proverbiale ruota, ad esempio, è un’invenzione e l’archeologia mostra che non nasce per un mezzo di trasporto, che sarà poi la sua “reinvenzione” socialmente più importante, ma per il lavoro del vasaio. E verrà reinventata più volte, passando ad esempio da un pesante blocco unico a una leggera struttura a raggi che scivola sull’asse, fino a diventare il giroscopio che garantisce la stabilità della stazione spaziale.

I primitivi chiodi di metallo diventano dadi e bulloni, viti, ribattini, ma svolgono sempre la stessa funzione: permettere di costruire strutture complesse unendo elementi diversi, da una casa a un’aereo.

La molla, è un oggetto elastico che possiamo deformare fornendogli un’energia che restituirà quando, lasciato libero, tornerà alla forma iniziale. Agrawal confessa che è il suo elemento preferito. L’arco da caccia o da guerra, che è la prima utilizzazione di questo effetto, sarà alla base dell’egemonia asiatica dei mongoli di Temujin, ma la sua storia è lunga e affascinante. Prosegue nella fabbricazioni di armi, fino alla mitragliatrice. Una volta scoperta la proporzionalità fra sforzo e deformazione, nel ‘600, la molla è usata come strumento per pesare. Ed entra poi nel reparto nobile della meccanica: gli orologi. Che sono l’emblema della necessità storica, filosofica e pratica, di oggettivare il concetto di tempo. La loro riduzione a strumento da tasca ha cambiato la vita di tutti. La versione elettronica dell’orologio l’ha reso ancora più disponibile e facile da gestire. Ma, a dimostrare che l’utilità non è l’unica motivazione per il possesso, gli orologi più costosi, veri simboli di preziosità, sono quelli a molla. La Agrawal, che è una strutturista, ricorda poi che l’elasticità è alla base delle costruzioni: dai ponti ai grattacieli. Fino ai sistemi di insonorizzazione delle sale da concerto, basati sulla capacità dei materiali elastici di assorbire le vibrazioni

Nell’attività divulgativa, soprattutto nelle lezioni televisive, la Agrawal mostra chiaramente, il valore formativo dei suoi metodi. Ma vale la pena cogliere i suggerimenti espliciti ed impliciti che il suo libro fornisce.

Il primo è la forza della analisi tecnica come decostruzione. Nell’ingegneria l’analisi tecnica è l’applicazione di modelli matematici per rivelare le proprietà e il funzionamento di apparati o sistemi. Ma, dal punto di vista educativo, è forse più importante uno smontaggio fisico e/o mentale  basato sulla curiosità e sull’intuizione. La Agrawal stessa ne dà una motivazione  raccontando lo smontaggio di una penna a sfera:  “Spero di riuscire a riaccendere in voi la fiamma della curiosità infantile”. E’ il procedimento che sta alla base della ricerca di guasti o semplicemente al desiderio di rispondere alla domanda: come funziona? E’ un procedimento iterativo, fatto di ipotesi e verifiche, molto simile a quello della scoperta scientifica. E funziona non solo per gli oggetti che si vedono e si possono fisicamente smontare, ma anche per oggetti chiusi di cui si vedono solo le prestazioni: coma fa il mio telefonino a suggerirmi o correggermi le parole mentre scrivo? Cosa deve avere “dentro” per poterlo fare, quali risorse, quale procedimento?

L’analisi tecnica, oltre al valore cognitivo ne può avere anche uno etico: capire come funzionano gli oggetti artificiali è alla base di comportamenti civili per l’uso corretto e per la manutenzione. “Io non ci capisco niente” è comprensibile, ma non deve suonare come un vanto che sottintende “perché sono un vero intellettuale”. Vale sempre la pena di ricordare il libro di Pirsig Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta dove, oltre al valore cognitivo della manutenzione, se ne rivela l’etica Zen.

Il secondo suggerimento formativo è che occorre, in qualche modo, superare almeno in parte i percorsi separati e paralleli fra il sapere tecnico e la sua rilevanza storica o sociale. Praticati in genere da persone esperte in uno dei due percorsi, ma ignoranti o comunque indifferenti per l’altro.

Agrawal conclude il suo libro dicendo: “scomponendo le cose e scavando in ciò che è piccolo, spero di aver mostrato che, lungi dall’essere soverchiante e fredda, l’ingegneria – passata, presente e futura- è stimolante, umana, e favorisce l’empowerment. Stratificata com’è , si può provare a districarne la matassa alla ricerca della semplicità, ma a volte è una semplicità ingannevole e la storia e la scienza insite nell’ingegneria, intrecciandosi, ci conducono in un affascinante viaggio a ritroso verso la complessità.”

[1] Una notevole eccezione è il corso di Storia delle scienze e delle tecniche di cui è professore ordinario, al  Politecnico di Torino,  Vittorio Marchis, ingegnere e storico, autore fra l’altro di Storia delle macchine, Tre millenni didi cultura tecnologica-Laterza-1994

[2] M.Ferraris,G Sarracco – Tecnosofia. Tecnologia e umanesimo per una scienza nuova-Laterza, 2023.

[3] Basta citare la creazione del Museo delle Scienza e della Tecnica “Leonardo da Vinci” di Milano e la nascita della rivista Civiltà delle Macchine di Leonardo Sinisgalli.

[4] Vanno ricordatI almeno il classico Lewis Mumford-Technics and Civilzation-Harcourt,Brace-New York, 1934, (tradotto In italiano come Tecnica e Cultura-Il Saggiatore, 1961), i sette volumi della monumentale  Storia della Scienza-Boringhieri, 1964 edita da  Charles Singer e altri negli anni ‘60 ad Oxford, e la rivista Technology and Culture nata nel 1959 negli Stati Uniti e pubblicata dalla Society for the History of Technology.

[5] Roma Agrawal-Dadi e bulloni. Sette piccole invenzioni che hanno cambiato (parecchio) il mondo-Bollati Boringhieri,2023

Mario Fierli