Competenze e Ambienti di apprendimento

La presentazione allegata, “Un nuovo ambiente di apprendimento: come sviluppare un raccordo coerente fra competenze e conoscenze” (realizzata per il convegno ANDIS del 31 marzo 2011), è un tentativo, ovviamente provvisorio, suscettibile di sviluppi e approfondimenti e anche revocabile in alcune assunzioni, di fare il punto sulla questione delle competenze, sul loro rapporto con le conoscenze e sull’esigenza di un loro inquadramento all’interno degli “ambienti di apprendimento”.

Essa prende avvio dalla definizione che è alla base del Quadro Europeo delle Qualifiche, basata, a sua volta, sulla Raccomandazione del Parlamento e del Consiglio europeo del 5 settembre 2006, secondo la quale “la COMPETENZA è la capacità dimostrata di utilizzare le conoscenze, le abilità e le attitudini personali, sociali e/o metodologiche in situazioni di lavoro o di studio e nello sviluppo professionale e/o personale. Nel QEQ le COMPETENZE sono descritte in termini di RESPONSABILITÀ e AUTONOMIA. Questa definizione, che ormai costituisce il punto di riferimento obbligato di qualsiasi approccio alla questione delle competenze, si presta a una lettura riduttiva e può generare equivoci e malintesi.

Il primo rischio in questo senso è costituito dall’idea che basti integrare le conoscenze con la “capacità di utilizzarle” per arrivare a maturare una competenza; il secondo dall’illusione che per avere processi formativi efficaci si possa procedere semplicemente “per sommatoria” o “per aggiunta”, accatastando l’uno sull’altro, in modo casuale e senza un disegno preciso e un progetto coerente, “pezzi” di formazione diversi; il terzo dal mancato riferimento alla distinzione tra i diversi livelli in cui si articola la padronanza dei concetti base di qualunque indirizzo di ricerca e di studio e alla relazione tra “sapere” e “capire”.

Se si dovesse riassumere, in una formula sintetica, quale sia l’alternativa che la presentazione allegata propone a questo tipo di approccio ci si potrebbe opportunamente riferire al giusto equilibrio e alla opportuna connessione tra “sapere” e “capire”. Ora è indubbio che quando si parla di “capire” e lo si indica come l’obiettivo fondamentale da conseguire non si può prescindere dalla conoscenza della realtà, di quella naturale e di quella sociale, in tutti i loro aspetti e le loro articolazioni, cosa che richiede l’acquisizione di una gran massa di contenuti specifici, prima che da lì si possa muovere per comprenderne il legame. Il capire presuppone, di conseguenza, il sapere e quest’ultimo è certamente condizione necessaria perché si possa arrivare allo scopo indicato. Se però ci chiediamo se esso sia anche “condizione sufficiente”, le cose si complicano. Senza sapere non si può arrivare a capire, ma non è affatto detto che basti sapere per poter capire.

È possibile tradurre questa differenza in un discorso riguardante l’istruzione e la formazione? Non solo è possibile, ma è assolutamente necessario. Proprio il mancato riferimento a essa costituisce, a mio avviso, una delle cause, e certamente non la più trascurabile, dei problemi e delle difficoltà in cui si trova spesso a essere impantanata l’attività formativa. Il riferimento al “capire” come lo si intende qui comporta, in primo luogo, la padronanza degli “strumenti per pensare“ e della “teoria del ragionamento”, vero e proprio crocevia di discipline in parte di antichissima tradizione, in parte originate da stimoli provenienti dalla societa? odierna (la logica, la teoria dell’argomentazione, il critical thinking, la riflessione sulle strategie comunicative e persuasive nella politica, nella pubblicita? e nel marketing). Questa padronanza è alla base dell’elasticità di pensiero e di capacità più sofisticate e complesse, quali quelle di problem solving, di inquadramento corretto di un problema e di individuazione degli strumenti e risorse necessari per affrontarlo e risolverlo, sulle quali mi sono, e non certo a caso, soffermato nel quadro teorico generale proposto, e poi quelle di project management, di auto-programmazione.

Come scriveva due anni prima della sua improvvisa scomparsa Marco Mondadori, iniziando il suo manuale di “Logica” del 1997, al quale per circa un decennio aveva dedicato buona parte delle sue energie, “Ragionare dobbiamo, e spesso. Di ragionamenti facciamo un uso essenziale ed esplicito quando dobbiamo risolvere problemi importanti, si tratti di problemi pratici relativi a decisioni che influenzano significativamente la nostra vita oppure di problemi teorici che hanno a che vedere con la nostra conoscenza del mondo fisico e sociale”. In queste parole è racchiusa una elevata concezione non solo della logica e, più in generale, della filosofia, ma anche dell’insegnamento e della missione della scuola. Coltivare le capacità intellettuali richieste per inquadrare correttamente e risolvere un problema non è una virtù per una ristretta élite di pensatori, bensì una necessità per tutti coloro che non vogliano rinunciare a esercitare un controllo critico sulle decisioni importanti che li riguardano. Si tratta, inoltre, di un imperativo morale per quanti – giudici, politici, amministratori, manager – si trovino nella scomoda posizione di dover prendere decisioni importanti che riguardano “gli altri”. Così, il possesso e il controllo critico della “cassetta degli attrezzi” di cui si serve e si giova la nostra mente per ragionare e la sua diffusione capillare, in modo da renderla “accessibile a tutti”, è essenzialmente una “questione di democrazia”, in quanto investe la possibilità dei cittadini di comprendere e controllare i processi decisionali dai quali dipende il loro benessere e la loro stessa vita.

Gli strumenti per pensare sono fondamentali e indispensabili e sono, come tutti sappiamo da tempo, l’analisi, l’astrazione, la deduzione, l’induzione e l’analogia. L’insegnamento di queste competenze deve trovare un proprio spazio interdisciplinare all’interno del curriculum in un’area apposita ed esplicitamente finalizzata all’obiettivo che bisogna raggiungere. L’altro strumento da cui non si può prescindere è la capacità di pensare per modelli. Tutte le discipline scientifiche e umanistiche pensano per modelli, il modello è per definizione la rappresentazione artificiale e semplificata del dominio a cui si riferisce. Grazie a questo strumento un problema qualsiasi del mondo reale viene trasferito dall’universo che gli è proprio in un altro habitat in cui può essere analizzato più convenientemente e risolto, indi ricondotto al suo ambito originario previa interpretazione dei risultati ottenuti. Il modello, come è ben noto, non esprime necessariamente l’intima e reale essenza del problema (la realtà è spesso così complessa da non lasciarsi rappresentare in modo esaustivo, ma deve fornirne una sintesi utile ed efficace). Inoltre il modello va non solo costruito, ma anche controllato passo passo e poi validato. Quindi pensare per modelli comporta anche l’acquisizione delle metodologie e delle procedure attraverso le quali si controlla e si valida il modello medesimo. Un’altra componente fondamentale è la simulazione, la quale non è altro che la trasposizione in termini logico matematici procedurali di un modello concettuale della realtà. Essa costituisce uno strumento sperimentale molto potente e sta acquisendo un’importanza tale all’interno della ricerca scientifica da indurre ormai ad affermare che quest’ultima non poggia più su due gambe soltanto, cioè il calcolo da una parte e la sperimentazione dall’altra, ma anche su una terza gamba, costituita, appunto, dalla simulazione. Se questo è vero per la ricerca scientifica non si capisce perché nella scuola e nella formazione professionale ci debba essere ancora chi ha paura della simulazione e delle tecnologie che permettono di produrla e svilupparla.

Inoltre, una volta acquisita la comprensione profonda, e non apparente e puramente superficiale, dei fenomeni e dei processi, che sono oggetto dei processi d’insegnamento e di apprendimento, occorre sapere COMUNICARE in modo appropriato e convincente ciò che si è appreso e capito, occorre saper ARGOMENTARE in modo rigoroso e corretto le ragioni della propria opzione a favore di certe modalità e tipologie esplicative piuttosto che di altre, occorre saper ribattere alle argomentazioni altrui, individuando, eventualmente, i punti deboli, le falle o i “trucchi” riscontrabili in esse.

L’elemento aggiuntivo del “capire” rispetto al “sapere” può dirsi, a questo punto, delineato e identificato. Si tratta dello scheletro, della struttura solida alla quale vanno riferite le conoscenze apprese per potere essere assimilate e “incorporate” e diventare, oltre che oggetto del nostro sapere, anche strumenti per una migliore comprensione dell’apparato cognitivo, della rete di concetti e dei linguaggi di cui ci serviamo per porci in una relazione efficace con la realtà in cui siamo immersi.

Quanto al raccordo tra “competenze” e “ambienti di apprendimento”, che costituisce l’altra gamba del discorso sviluppato nella presentazione, esso prende le mosse dai tratti distintivi e dagli effetti delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT), che sono caratterizzate sempre più dal processo di frammentazione dei “formati linguistici” tradizionali (testi, suoni, immagini) e della loro trascrizione in un codice di base fatto di lunghe catene di stringhe binarie (gli 0 e 1 dell’informazione digitalizzata) gestite non più attraverso apparati e strumenti diversi, ma con lo stesso apparecchio (il cellulare, per esempio).

Se ci riferiamo, per esemplificare, al caso dei suoni, non solo la registrazione dell’informazione in questo formato ha una resa audio superiore a quella della registrazione in formato analogico, ma presenta un ulteriore e importante punto di forza, il fatto cioè di non dar luogo ad alcuna perdita di qualità nella produzione di nuove copie (che sono perfettamente uguali all’originale, dal momento che i dati numerici che vi sono codificati sono esattamente gli stessi), mentre nel campo dell’analogico ogni «passaggio» di copiatura introduce disturbi e distorsioni.

Siamo così di fronte a uno scenario nel quale assistiamo di continuo e sempre di più alla sostituzione delle modalità tradizionali di organizzazione dell’informazione e della conoscenza con strutture alternative, nelle quali si accentua, e di molto, l’aspetto della «decostruzione» fino a elementi di base il più possibile neutri rispetto ai diversi formati linguistici, e della successiva «ricostruzione» guidata da specifiche finalità. Il che significa che i tratti distintivi che caratterizzano i differenti domini e contesti sono dati dalle strutture e dalle forme di organizzazione dei contenuti, e non dagli «atomi» che li compongono.

Per quanto riguarda i processi di insegnamento e di apprendimento, è evidente che una situazione di questo genere ne facilita enormemente e ne stimola la personalizzazione., data la modularità e la flessibilità che la caratterizza. Essa è però esposta al rischio della dispersione e della mancanza di sistematicità, con i pericoli che ne conseguono di “caos informazionale”, di perdita di riferimento al contesto, di frammentarietà.

La funzione degli “ambienti di apprendimento” è proprio quella di comprimere questi pericoli, fornendo un “tessuto relazionale” all’interno del quale inserire gli atomi della conoscenza. È importante sottolineare che alla costruzione di questi ambienti è bene pervenire attraverso passaggi graduali, nei quali assumono grande rilievo le cosiddette “ontologie di dominio”. Si tratta di forme organizzative che rappresentano e modellano la conoscenza del contesto, per esempio disciplinare o tematico, in relazione al quale e in funzione del quale sono costruite. Sono l’anello ideale di congiunzione e mediazione tra gli atomi di base e gli ambienti di apprendimento in quanto, come i primi, sono scritte in un linguaggio neutro, attraverso una elaborazione incrociata del corpus degli argomenti da trattare (programmi ministeriali, manuali, libri di test o ecc.). Questa neutralità è fondamentale in quanto facilita la massima capacità di ricerca dei contenuti attraverso parole chiavi universali. I contenuti semanticamente annotati rispetto alle ontologie possono così essere reperiti attraverso un motore di information retrieval semantico e possono essere proposti all’utente secondo formule di riaggregazioni “tagliate” sulle sue esigenze specifiche.

Sulla base fornita da queste ontologie, che consentono di razionalizzare e organizzare i percorsi di ricerca dei dati e delle informazioni, rispettandone la varietà e la molteplicità, si può passare alla costruzione del vero e proprio “ambiente di apprendimento”, che, prendendo le mosse da un’esplicitazione chiara delle domanda e dei problemi ai quali si sta cercando di fornire una risposta e che costituiscono comunque oggetto di attenzione e di interesse, mette a disposizione gli strumenti cognitivi e operativi necessari per inquadrare al meglio e risolvere i problemi medesimi sul piano individuale e su quello collettivo della collaborazione tra soggetti diversi.

Questi ambienti devono quindi essere elaborati in modo da consentire di:
• ricercare, selezionare informazioni in un contesto oramai di iper-informazione, che spesso esibisce congiuntamente i caratteri dell’incompletezza e della ridondanza, e che soprattutto è sovente intrinsecamente acritico;
• identificare e perseguire obiettivi e percorsi di soluzione secondo strategie differenziate (es. la migliore in termini di tempo, di qualità o di risorse investite);
• saper comunicare, esprimersi, ascoltare;
• sapersi confrontare con gli altri attraverso la creazione progressiva di sfondi condivisi [La creazione di uno sfondo condiviso comporta la convergenza e l’accordo (implicito o esplicito) su paradigmi (schemi di riferimento, fattori sensibili, presupposti, criteri di valutazione), sul linguaggio (termini, schemi, tempi e ritmi dialettici), valori e priorità valoriali (es. coerenza vs dignità vs disponibilità vs rispetto altrui ecc.), e di conseguenza valutazioni (dati sensibili, percezione della realtà, scelte) e azioni (modelli comportamentali)];

• essere in grado di costruire, condividere e rappresentare artefatti mentali nella dimensione sia nella dimensione cognitivo che in quella emotiva [Con artefatti mentali vanno intesi in questo caso: concetti (definizioni, categorie, classificazioni, mappe, schemi, strutture gerarchiche e relazionali, modellizzazione, astrazione e contestualizzazione), osservazioni (selezione e sistematizzazione di dati e informazioni) esplorazioni (declinazioni, estensioni, metafore, creazione di analogie ecc.), ragionamenti (argomentazioni, spiegazioni, interpretazioni), ambienti complessi (sistemi di relazione, analisi, flussi e processi, retroazioni, simulazioni, correlazioni, analisi sintesi)];
• affermare o confutare tesi attraverso logiche, schemi concettuali e sistemi valutativi condivisi;
• lavorare in gruppo sapendo accettare idee altrui, prendere decisioni condivise, assumere e rispettare impegni;
• essere capaci di gestire, indirizzare e valorizzare creatività ed emozioni;
• saper operativizzare e tradurre in azioni, idee e intenzioni tenendo conto di tempi, risorse, opportunità, criticità.

L’importanza e l’attualità di questo modo di intendere i processi di acquisizione e crescita delle conoscenze sono confermati anche dallo sviluppo, nell’ambito della logica formale, di teorie sistemiche per sistemi multiagente – formalmente dei sistemi multimodali, che possono incorporare anche una dimensione temporale – le quali prevedono la possibilità, da parte di ciascun agente, di ragionare sulle proprie conoscenze e su quelle altrui, e permettono l’identificazione di conoscenze distribuite, distributed knowledge, o condivise da un gruppo di agenti, common knowledge (questi sistemi multimodali sono stati introdotti nel volume di R. Fagin et alii, “Reasoning about Knowledge”, MIT, 1996, in particolare cfr. il cap. 4) e di conoscenze tacite o implicite, tacit knowledge, frutto dell’organizzazione e del tipo di legami che si sviluppano all’interno di essa. Queste ultime, in particolare, e cioè le conoscenze tacite, sono proprietà attribuibili al sistema e alla sua organizzazione nel suo complesso, che emergono dunque nell’ambito di esso e non sono possedute da nessun elemento individualmente considerato. Alla base dell’autorganizzazione di un sistema qualunque stanno pertanto strutture emergenti che sono il risultato del suo comportamento collettivo e nascono all’interno di esso, come prodotto della sua dinamica intrinseca.

L’affermarsi di questa concezione dei processi di insegnamento, fortemente incardinata sugli ambienti di apprendimento, esige il riferimento a una progettazione didattica che si connoti come operazione aperta, disponibile all’attivazione di percorsi multipli tra loro interagenti, arricchiti da momenti di riflessione individuale e collettiva, pronta all’uso dello studio dei casi, del problem solving, della simulazione e di tutte le strategie che fanno ricorso a problemi autentici, situati, ancorati in contesti concreti e che proprio per questo non hanno soluzioni univoche e predeterminate.

L’idea di fondo della presentazione che si propone all’attenzione dei docenti e del mondo della scuola, con l’obiettivo di riceverne stimoli, proposte di approfondimento e anche considerazioni critiche, è che debbano essere lo stesso ambiente d’apprendimento reso disponibile, la stessa struttura dei materiali offerti e delle attività didattiche promosse, a innescare un processo conoscitivo rilevante per il soggetto che apprende, la cui esperienza si deve basare su di un processo di ristrutturazione continua e flessibile della conoscenza preesistente in funzione dei bisogni posti, di volta in volta, dalle nuove situazioni formative.

Scarica la presentazione “Un nuovo ambiente di apprendimento: come sviluppare un raccordo coerente fra competenze e conoscenze” (realizzata per il convegno ANDIS del 31 marzo 2011). PDF (4,50 MB)

Silvano Tagliagambe