Gli spazi della scuola nel territorio

Ho riletto criticamente la serie di articoli del focus sull’edilizia scolastica pubblicato in ottobre sul n° 4 della “Rivista dell’istruzione” cui anche il sottoscritto ha contribuito, apparendo forse a prima vista utopico, fuori dal mondo ed eccessivamente “creativo”.
Ne ho tratto la sensazione di una certa disforia e una percezione di quella non rara “aria fritta” che il mio buon maestro napoletano Uberto Siola attribuiva a certi intellettuali e in particolare agli architetti e agli psicopedagogisti. Ho lasciato la professione militante anche per questo e ho cercato di muovermi verso i lidi dell’aria da respirare sia in architettura sia nella scuola.
Ho trovato nei testi molti luoghi comuni e molte mode intellettuali sulla scuola e sull’architettura e su entrambe. Amore per l’erba del vicino e parole, parole, parole, spesso narcisisticamente prese a prestito da un infondato complesso d’inferiorità verso il mondo anglosassone e quello scandinavo. Rarissime le costanti ideali e le coincidenze propositive.

Non è di un edificio specializzato che a mio avviso occorre parlare ma su quali siano i luoghi per apprendere. Altrimenti ripeteremmo quello che anche Papini considerava un errore: pensare ancora a uno stabilimento, un opificio, un monumento unico, immobile anche se tecnologicamente innovativo e formalmente mirabolante.
Si sa che a respingere l’uomo in formazione può essere il paludato ambiente neoclassico di un vecchio edificio scolastico come l’ipertecnologia di una machine à enseigner piena di tubi, vetri e ferri, troppo aperta, troppo serra, troppo eco e troppo sustain.
L’architettura è autonoma dalla funzione che di volta in volta le se può attribuire (Aldo Rossi “Autobiografia Scientifica” Il Saggiatore 2009) e in questo sta la sua libertà e la sua bellezza. È l’uomo che la pensa, la costruisce e la trasforma ritenendola adatta per apprendere, per lavorare, per giocare, per sognare.

Trovo molte ovvietà, nei testi esaminati, sul concetto di spazio, di arredo, di allestimento. Nessuno, nel bene e nel male, pare aver letto gli oltre 5000 progetti di scuole che da tutto il mondo riempirono gli scaffali virtuali del concorso lanciato da “Open architecture network nel 2009” con il titolo Better classroom design. Là si potevano trovare spunti per un dibattito meno provinciale in campo pedagogico e architettonico evitando di ripetere le giaculatorie che si sentono da anni sulle innovazioni tecnologiche, l’ecosostenibilità, le scuole belle, le scuole verdi, gialle, rosse e blu.

La chiave del problema è la poetica e l’erranza dell’apprendimento. Non si tratta solo di eliminare aule, banchi e corridoi per sostituirli con spazi e arredi componibili aperti e flessibili ma comunque contenuti dentro delle mura, delle gabbie o delle teche, di cemento, di mattoni di ferro e vetro. Sono i confini che vanno eliminati, virtualmente e fisicamente per liberarsi dai manufatti unici e dedicati.
Non occorre ripensare gli spazi della scuola ma rivoluzionarli e diffonderli nel territorio.
Non occorre rinegoziare significati ma inventarne di nuovi.
Basta con la manutenzione, seppure creativa. C’è necessità oggi di una cura continua e della trasformazione del costruire sempre, muovendosi e cambiando continuamente prospettiva. Le nuove tecnologie sono solo strumenti e non chiavi di volta, così come non si può parlare di contenitori e contenuti perché se c’è qualcosa di etereo e quasi incontenibile è proprio il sapere, la cultura e l’apprendere che possono verificarsi dovunque e in qualsiasi tempo.
Tutti gli insegnamenti, dalla scuola attiva al metodo Montessori, alla didattica breve, devono trovare parte in un’idea di scuola più avanzata più comprensiva del mondo e della città.

Tentare di modificare poco lo status quo, lasciare campo all’eclettismo pedagoarchitettonico o andare a pescare dagli esempi illuminati ma non esportabili dovunque del nord Europa o del nord America non cambieranno nulla.
Più semplicemente, come ho più volte sostenuto, occorre progettare solo quella porta principale attrezzata per l’accesso ai luoghi diffusi dell’apprendimento nella città e nel territorio. Basterebbe cominciare con una città di medie dimensioni, sperimentare il modello e, successivamente, applicarlo ovunque.

Si pensi a costruire una rete di luoghi, di connessioni, di mobilità introdotta dal portale della scuola che contiene solo i servizi comuni, amministrativi e collettivi per ogni livello d’istruzione, dall’infanzia all’università.
L’errore fondamentale sta nel pensare per edifici dedicati e separati. L’errore sta nel far coincidere la scuola con un manufatto o dei manufatti specializzati. Questo moltiplica l’esigenza di costruzione, di manutenzione, di sicurezza, d’investimenti.
I luoghi della scuola, le aule, i laboratori, le palestre sono già nel territorio: basta adattarli, senza le enormi spese per normare gli edifici scolastici esistenti, collegarli e usarli, integrarli, dove mancassero, magari trasformando spazi ex scolastici tradizionali disponibili e che fossero già in sicurezza ed energeticamente sostenibili.
Una buona descrizione di massima di un sistema del genere è presente nell’e-book di architettura e scuola “Questione di Stile” edito da ReseArt e disponibile su iTunes e iBook (gratuito per chi fosse interessato).
Nell’ antologia di scritti cui mi sono riferito ho trovato qualche spunto di novità solo in un passo del testo di Maria Grazia Mura …l’apprendimento non è più confinato all’aula e nemmeno all’edificio scuola..” “la scuola del futuro si estende fuori dal fabbricato scolastico per diventare fulcro di una rete di servizi e processi aperta al quartiere e alla comunità… dove io direi piuttosto: che la scuola del futuro farà a meno del fabbricato scolastico ad hoc per diffondersi come portale fisico e virtuale dell’istruzione nella città e nel territorio.

Tutti, esperti compresi, restano ancora aggrappati all’edificio e timidamente si spingono a superare il concetto di aula, arredo, corridoio, cosa peraltro già fatta, anche per le costruzioni scolastiche, ai primi del ’900 nel suo “Chiudiamo le scuole” dal discusso Papini. Perché non raccogliere la sfida di una scuola oltre le mura e senza le mura?

Open architecture network 2009 con il titolo “Better classroom design”

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Giuseppe Campagnoli