Valutazione ed equità. Quali condizioni?

L’intervento di Vittoria Gallina affronta una molteplicità di aspetti relativi alla valutazione e solleva varie questioni di carattere non soltanto metodologico, ma anche di carattere politico e in qualche modo etico. Vorrei provare affrontarne alcune che, a mio parere, hanno maggiore rilevanza, facendo riferimento ad alcuni aspetti che sembrano ostacolare l’affermarsi di un’idea di valutazione che sia strumento di ‘giustizia ed equità’.

È mia convinzione che la valutazione costituisca uno degli anelli più deboli del nostro sistema scolastico e che rappresenti l’ambito rispetto al quale risulta più evidente lo scarto tra ‘dichiarato’ e ‘agito’ che spesso caratterizza gli interventi educativi, soprattutto in contesti di istruzione formale. Nonostante tutti i cambiamenti che hanno investito il nostro sistema scolastico negli ultimi decenni, molti dei problemi relativi alla valutazione di cui oggi discutiamo sono fondamentalmente molto simili a quelli affrontati a partire dalla seconda metà dello scorso secolo: dalle funzioni della valutazione al rapporto tra misurazione e valutazione, dalle differenze tra diversi livelli di valutazione all’uso dei risultati della valutazione. Il riferimento al cosiddetto ‘ritardo’ nella diffusione di una ‘cultura della valutazione’ nel nostro Paese è diventato quasi un mantra. Ma non abbiamo ancora spiegazioni condivise sufficientemente convincenti del perché di tale ritardo. Tra le tante possibili, vorrei indicarne tre principali.

Una prima possibile spiegazione potrebbe essere di carattere ‘politico’. Come ci ricorda Vittoria Gallina con il suo riferimento alla scuola di Barbiana, la valutazione è un tema sensibile, rispetto al quale si scontrano idee profondamente diverse della scuola e della sua funzione sociale. Fin troppo facile, da questo punto di vista, ricordare l’intervista con cui l’allora ministro dell’economia Giulio Tremonti giustificava il ritorno ai voti numerici per l’espressione dei giudizi valutativi anche nella scuola primaria.[1] Ne sono anche esempio alcuni dei documenti che periodicamente vengono pubblicati sui temi valutativi (come per esempio il cosiddetto documento dei 600 o quello che richiedeva al Presidente della Repubblica una moratoria sulle prove Invalsi), spesso in conflitto tra loro. Di qui una oscillazione nelle proposte e nelle indicazioni che periodicamente vengono fornite alle scuole e agli insegnanti, e che finiscono per creare disorientamento e per suscitare resistenze che si traducono nel consolidamento di routine ripetitive, in un’ottica riproduttiva e di ostilità a qualsiasi forma di cambiamento.

Una seconda possibile interpretazione è di carattere teorico. Troppo spesso la valutazione, sia formativa sia sommativa[2], è concepita come un’attività che al massimo accompagna e fa seguito ai processi di insegnamento-apprendimento. Come già nel 1955 ricordava Aldo Visalberghi, in realtà la valutazione precede i processi di insegnamento-apprendimento perché ne individua fini e obiettivi, così come precede le attività di raccolta dei dati valutativi (e la ‘misurazione’). Concepita in questo modo, la valutazione non è solo una attività prevalentemente tecnica, ma prima di tutto concettuale e ‘politica’. Le stesse caratteristiche metodologiche che la dovrebbero caratterizzare dipendono dalla capacità di sostenere e rendere possibili processi interpretativi che non possono non fare riferimento ai fini e agli obiettivi che la valutazione stessa contribuisce a individuare. Una concezione della valutazione di questo tipo richiederebbe una coerenza tra indicazioni curricolari, progettazione e intervento didattico e valutazione, invece largamente assente sia nelle indicazioni di politica valutativa, sia nella consapevolezza degli insegnanti[3].

Una terza possibile interpretazione è di carattere organizzativo. L’attuale configurazione organizzativa dei contesti scolastici, dall’organizzazione degli orari cattedra a quella del tempo scuola (che nel nostro Paese coincide sostanzialmente con il tempo delle lezioni), dall’organizzazione rigida dell’orario scolastico, in particolare nella scuola secondaria,  alla mancanza di tempi distesi per il confronto e la progettazione comune degli insegnanti, concorre a a rafforzare procedure e tecniche valutative (oltre che didattiche) inadeguate a riconoscere e valorizzare percorsi individualizzati che consentano il sostegno e l’inclusione, in particolare dei soggetti più deboli.

Questo scarto tra contesto ‘organizzativo’ e necessità valutative risulta a mio parere particolarmente evidente nella valutazione  delle competenze, al di là delle ambiguità che è possibile individuare nelle proposte curricolari che si muovono in questa direzione. Soprattutto, mi sembra che in questo contesto sia molto difficile riuscire a costruire situazioni in cui sia effettivamente possibile raccogliere quella pluralità di elementi di informazione riferibili alle diverse dimensioni delle competenze – cognitivi, metacognitivi, affettivo-motivazionali – che dovrebbero confluire nell’attività valutativa, intesa come un’attività interpretativa il più possibile di tipo collegiale e condiviso.

 

 

[1] La recente ordinanza ministeriale sulla valutazione nella scuola primaria che ripristina i giudizi descrittivi dovrebbe essere oggetto di una discussione ad hoc.

[2] Anche su questi termini sarebbe utile una discussione che ne chiarisca il diverso significato acquisito in contesti teorici e metodologici profondamente diversi da quelli entro cui sono stati inizialmente coniati.

[3] Sui percorsi di formazione (iniziale e in servizio) degli insegnanti in ambito e sul ruolo delle cosiddette agenzie formative, in primo luogo le università, servirebbe un discorso specifico.

 

Bruno Losito, già professore ordinario di pedagogia sperimentale Università Roma tre