Recensione di Quando l’arte creò le donne. Elogio del femminile molteplice

Questo[1] è un ‘libricino’ di piccola mole (un centinaio di godibilissime pagine, piacevoli a leggersi per la qualità della scrittura sempre ricca, raffinata e chiara), ma denso e prezioso per i contenuti nonché importante per le finalità che si prefigge; un libro che sicuramente susciterà nei lettori riflessioni significative, che lascerà il segno e che, per la ricchezza dei riferimenti multiculturali, suggerisce a mio parere molti spunti di riflessione per il lavoro con gli studenti.

Adriano Gentili e Caterina Valchera nella Premessa dichiarano subito ciò che questo lavoro non vuole essere: «questo non è uno scritto d’arte e gli autori non hanno intenti teorici o da storici dell’arte»[2]; è  invece un’operetta che nasce a due voci, dalle esperienze di studio e di vita di due persone che hanno lavorato a lungo con i giovani[3] e ai giovani (ma non solo) propongono strumenti di riflessione per difendersi dalla «banalità del bello unico» e per scoprire che una donna[4] è bella in varie accezioni e non in una soltanto, se è capace di affascinare, interessare, coinvolgere l’altro nel gioco della relazione»[5]. Gli autori chiariscono poi i criteri con i quali sono stati scelti gli artisti discussi: dal punto di vista cronologico i pittori presi in considerazione si collocano tutti tra la fine dell’Otto e il primo Novecento, in un periodo cioè che ha visto in tutti i campi trasformazioni rivoluzionarie e l’incubazione della ‘modernità’; le opere inoltre sono state scelte – ricordiamoci quanto abbiamo detto sopra e cioè che questo non vuole essere un libro di critica d’arte – non in base a considerazioni di tipo artistico ma perché hanno ‘scardinato’ il concetto classico e rigido di bellezza, riuscendo a cogliere la differenza, la multilateralità del bello femminile, scoprendo i diversi modi di essere belle, modi tipici di donne diverse, ma compresenti, come sfaccettature, anche in una stessa donna. In questo senso sono molto significativi il titolo e il sottotitolo. Cosa intendono gli autori quando sintetizzano il loro lavoro con la frase «Quando l’arte creò le donne»? Allo sguardo penetrante degli artisti è riconosciuta la potenza di ‘vedere attraverso’ superando la soglia dell’apparire (d’altronde la dicotomia tra essere e apparire ricorre più volte nel testo) e svelandoci quel «femminile molteplice» di cui qui si fa l’elogio: e vorrei sottolineare che molteplice è la parola chiave perché la tesi del libro è appunto che non c’è e non deve esserci un unico modello di bellezza ma plurime e varie sono le possibilità.

Nella Prima Parte viene appunto esplorata questa idea di bellezza attraverso un’analisi accurata eacuta dell’opera di artisti quali Dante Gabriel Rossetti, Edward C. Burne-Jones, Félicien Rops, Fernand Khnopff, i simbolisti, Gustave Moureau, Franz von Stuck, Gustav Klimt, Egon Schiele, Balthus. Ognuno di loro esprime un’immagine diversa della femminilità. Per dare solo qualche cenno si va dalle donne di Rossetti, caratterizzate dalla «mistione di castità e sensualità»[6], donne che si stanno riappropriando della dimensione del desiderio, inibito dalla morale borghese e vittoriana, alle figure ammiccanti e ambigue di Rops, a quelle enigmatiche e ‘oblique’, limpidamente classiche ma anche sensualmente enigmatiche di Khnopff, donne capaci di salvare l’uomo ma anche di dannarlo. E poi ecco il ‘sacerdote’ Klimt capace di comprendere, rispettare e rappresentare le donne come soggetti, per arrivare alla crudezza dei dipinti di Schiele: la femminilità qui è comunicata con forme dure, dolorose, espressione dell’aspetto tragico dell’esistere.

La Seconda Parte contiene un piccolo repertorio semiserio e insolito di tipologie femminili costruito a partire da un ricchissimo retroterra culturale e con numerosi sconfinamenti tra arte, letteratura, filosofia, sociologia e altro; un catalogo di donne «nell’arte e non solo»[7], perché l’arte parte dalla vita e parla alla vita. In questa sezione troviamo, ad esempio, l’analisi della donna idealizzata: le considerazioni sulla pittura ‘chiamano’ qui una citazione di Luzi – che in Oscillano le fronde esprime l’aria di sospensione e di mistero che avvolge questa ‘tipologia’ di donna  –o della donna opulenta, che ci porta al cinema di Tinto Brass e Marco Ferreri; ovvero della donna languida, descritta attraverso i versi di Gozzano che nel sonetto La preraffaellita descrive così questa tipologia di donna: «Sopra lo sfondo scialbo e scolorito/ surge il profilo della donna intenta,/ esile il collo; la pupilla spenta/ pare che attinga il vuoto e l’infinito. Avvolta d’ermellino e di sciamito/ quasi una pompa religiosa ostenta;/ niuna mollezza femminile allenta/ l’esilità del busto irrigidito./ Tien fra le dita de la manca un giglio/ d’antico stile, la sua destra posa/sopra il velluto d’un cuscin vermiglio./ Niuna dolcezza è ne l’aspetto fiero;/ emana dalla bocca lussuriosa/ l’essenza del Silenzio e del Mistero».[8] E ancora riflessioni sulla donna esotica, che Gauguin osserva con uno sguardo nuovo, non di ‘colonizzatore’, e che rappresenta con assorta intensità, cogliendone la schiettezza, poiché espressione di un mondo privo di sovrastrutture culturali [9]. E poi c’è la donna “moderna”, incarnata da Tamara de Lempicka. Quest’ultima ha fatto delle sue opere e della sua vita un manifesto dell’emancipazione femminile, sottolineando in maniera esplicita la propria sicurezza e la propria autosufficienza. Prendendo come riferimento l’autoritratto e più in generale tutti i suoi ritratti femminili, si può osservare che le sue donne appaiono forti, dure, indipendenti; il segno è netto, crudo, tuttavia vi traspaiono anche elementi di fragilità.

 

Ebbene, in questo libro che parla di donne Tamara de Lempicka è l’unica pittrice presente: parto da questo per indicare che quest’operetta fa emergere almeno due paradossi. Il primo è che a proporre questa visione innovativa della donna siano uomini.[10] Tra la fine dell’Otto e l’inizio del Novecento prendono slancio le rivendicazioni femminili e, come scrive Virginia Woolf, la possibilità stessa di scrivere «un’altra storia»: ciò genera in moltissimi uomini, anche se non in tutti ovviamente, sconcerto, diffidenza, preoccupazione, quando non vera e propria paura, ma anche fascino e seduzione; gli artisti registrano questi sentimenti e danno loro voce, esprimendo le contraddizioni dell’immaginario maschile. Ne emerge una rappresentazione della donna tutt’altro che univoca: c’è la donna ‘vampiro’, pericolosa, temuta e desiderata, quella autonoma, ferocemente capace di scegliere e gestire se stessa in tutti gli ambiti (dal lavoro alla sessualità, spesso sfacciatamente esibita) ma anche la madre, l’innocente, la ‘selvaggia’, solare o nordica, e poi la donna che dà voce alla spiritualità, all’inconscio, all’immaginazione e così via. Insomma c’è una ricchezza, una varietà di immagini che sembra ora essere scomparsa.

 

E veniamo al secondo paradosso che riguarda appunto l’oggi. I nostri autori ci fanno notare il violento contrasto esistente tra l’ideale dell’innovazione (il cambiamento e la novità sembrano essere valori in sé) e, all’opposto, la staticità e l’uniformità del modello di bellezza femminile. In una società che fa della personalizzazione una regola e dell’individualizzazione un mantra fino al ridicolo, appare quantomeno strano e appunto paradossale, che i modelli di comportamento sociale e gli ideali estetici siano uniformati e banalizzati[11].

 

Oggi si guarda alla bellezza, anche al maschile ma prevalentemente al femminile, con uno sguardo spento e superficiale.  Questo tentativo di omologare, normalizzare, banalizzare l’immagine della donna non è forse una nascosta forma di censura, un modo per esorcizzare «un’idea alternativa e rivoluzionaria»[12] e più autentica del femminile? Al contrario un’idea plurale del femminile e della bellezza ci mette a contatto con la nostra interiorità più profonda, ci costringe a un paziente lavoro di scavo e introspezione, ci avvicina a quella identità segreta e unica che, proprio perché tale, non può essere la ripetizione dell’identico; ci mette poi in relazione con l’altro, (e forse con l’Altro), e con l’Oltre. Il bello così pensato si caratterizza per essere simbolico, ambivalente, desiderante; fa sempre un passo di lato, spiazza, è apertura, richiede uno sguardo curioso, ma anche coraggioso e paziente, esige tempo e attenzione. Per scoprirlo non si può andare di fretta, mentre oggi dalla fretta siamo dominati.

 

Queste ultime osservazioni spiegano perché si può definire questo libricino un’operetta morale dal valore paideutico: indicare come cifra peculiare della bellezza il suo carattere relazionale ha, a mio parere, una forte valenza etico-politica (in senso etimologico) ed educativa in quanto ci invita a intraprendere un cammino di formazione, di costruzione di autoconsapevolezza e di autonomia di giudizio, in cui la bellezza ci prende platonicamente per mano per guidarci al di fuori della caverna; è un cammino impegnativo che ammette cadute, deviazioni, soste, dubbi, paure.  Credo che questo valga per tutti ma che sia particolarmente vero per le generazioni più giovani per le quali «la banalità del bello unico» rischia di rappresentare un sacrificio irrimediabile della propria autenticità.

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[1] Adriano Gentili – Caterina Valchera, Quando l’arte creò le donne. Elogio del femminile molteplice, Bonanno Editore, Reggio   Calabria, 2018, pp. 112.

[2] Ibid., p. 9.

[3] Caterina Valchera ha insegnato italiano e latino nei licei, Alberto Gentili ha svolto attività didattica presso la Facoltà di Architettura della Sapienza di Roma.

[4] Ma il discorso vale naturalmente anche per gli uomini.

[5] Ibid., p. 16.

[6] Ibid., p. 34

[7] Ibid., p. 8.

[8] Ibid., p. 77

[9]Questa donna «sottratta al pettegolezzo mondano e all’ipocrisia della donna europea e occidentale, la creatura polinesiana esprimeva pure la capacità di vivere l’eros in forme pure e immediate, senza secondi fini. L’artista francese aveva colto in quelle figure femminili anche il brivido del perturbante, ed era riuscito a dare loro una saggezza speciale, il senso di una verità sigillata tra quelle labbra carnose, celata dietro quegli occhi esotici, tutelata da quelle grandi mani». Ibid., p. 80

[10]  Aspettiamo un altro volume in cui vengano esaminate le rappresentazioni che le donne danno di se stesse.

[11] La modella è «diventa il modello di milioni di donne, che più non sanno se devono mangiare o non mangiare, accrescersi o ridursi il seno, avvitarsi la pancia o torcersi il collo […] nel tentativo di raggiungere quell’idea platonica di femminilità che l’ambiguo sguardo della moda ha messo in circolazione […] e che approda a quei visi da totem e a quegli occhi da triste vegetale, dove la ricerca dell’essenza rarefatta della bellezza cancella irrimediabilmente le ultime tracce di una possibile bellezza che abbia ancora qualche parentela con la seduzione ». U. Galimberti, Le cose dell’amore, Feltrinelli, Milano, 2013, p. 80, citato qui a p. 87.

[12] Ibid., p 24

Angela Scozzafava Docente al liceo classico Giulio Cesare di Roma