Recensione di Hotel penicillina – Storia di una grande fabbrica diventata rifugio per invisibili

«Lungo via Tiburtina, a Roma, a ridosso della borgata di San Basilio, sorge quella che è stata la prima fabbrica a produrre penicillina in Italia, un tempo tra le più grandi in Europa, prima di trasformarsi nell’ultimo rifugio di persone che hanno perso la casa, il lavoro o la famiglia. Una storia singolare ed emblematica che comincia nel 1950 con l’inaugurazione dello stabilimento Leo Penicillina alla presenza dello scopritore dell’antibiotico Fleming; prosegue con il suo sviluppo, che fa diventare la Leo uno dei più importanti poli industriali della zona, con un forte legame con le vicine borgate; continua con l’occupazione della fabbrica negli anni delle prime crisi industriali nel contesto della perduta scommessa della Tiburtina Valley, fino all’abbandono della struttura, che diventa un luogo di ritrovo per disperati, poi sgomberato nel 2018 con drammatiche conseguenze. A parlare sono gli ex lavoratori e dirigenti della fabbrica, le persone che vi hanno vissuto fino allo sgombero, gli attivisti e operatori che hanno fornito loro assistenza, gli abitanti del quartiere che lottano per la bonifica e la riqualificazione della struttura». 

Così la scheda editoriale di questo libro davvero molto interessante, che offre al lettore, anche al meno ferrato in chimica e farmacia, un molteplice approccio a un fenomeno solo apparentemente limitato a Roma e alla sua storia urbana. Tale molteplicità ha in sé un grande valore pedagogico, cioè a dire ‘insegna’ che per comprendere un problema è necessario essere innanzi tutto consapevoli della sua complessità e della sua stratificazione nel tempo. 

Insegna che ‘fare storia’ non significa ‘raccontare storie’, ma approfondire le cause che hanno prodotto determinati effetti. Tali effetti, visibili nel ‘micro’, si possono immediatamente proiettare nel ‘macro’.

Questo fa il libro: a partire da un oggi tragico, dominato dalla disgregazione e dal disagio, cristallizzato in un grande edificio abbandonato all’immediata periferia di una metropoli, risale alle sue radici, ripercorrendo quegli spazi e quei luoghi e la loro destinazione originaria, fino a giungere alla comparsa in loco del leggendario Sir Alexander Fleming, lo scopritore – tanto per semplificare – della penicillina. Così facendo, emergono con chiarezza gli eventi generatori e con essi un’importante fetta della stessa storia italiana nel secondo dopoguerra. 

Eppure nel libro si raccontano ‘anche’ storie, sempre molto suggestive e a tratti commoventi. Sono quelle degli ex operai della Leo, questo il nome originario della fabbrica, che ricordano con orgoglio i loro anni di lavoro, spesso molto duro e pericoloso, sono quelle della gente di San Basilio, il quartiere immediatamente a ridosso della fabbrica, direttamente interessata a essa per la sua sussistenza e di cui giunge a rimpiangere persino ‘le puzze’ prodotte dalle lavorazioni, poiché significavano salari e vita dignitosa. Sono quelle dei diseredati degli ultimi anni nella fabbrica occupata, della lotta per la casa e dei conflitti generati dalla sordità della politica, surrogata dall’uso della forza per ristabilire un ‘ordine’ desertificante.

Dicevo all’inizio del valore pedagogico del libro. Esso sta soprattutto nel metodo, oltre che nel merito. 

Nel metodo perché esemplifica quanto meglio non si potrebbe l’approccio interdisciplinare, spesso frainteso come una sommatoria di informazioni interne alle singole discipline, ma che invece deve preliminarmente riconoscersi in un punto focale (in questo caso la fabbrica di penicillina) capace di organizzare tutti i dati della ricerca sia in senso diacronico (le vicende economiche, sindacali, politiche, che ne hanno determinato il destino), sia in senso sincronico (la struttura della fabbrica, le sue produzioni).  Esso insegna altresì che non esistono ‘oggetti dati’ che si muovono nel tempo, ma sempre e solo “processi”, da individuare di volta in volta con strumenti diversi.

Nel merito perché abitua a ‘storicizzare’ anche argomenti che, a prima vista, sembrerebbero prescindere dalla storia (le formule chimiche, ad esempio). Quello della storicizzazione dell’insegnamento scientifico è un terreno ancora tutto da dissodare, soprattutto nell’istruzione liceale, dove si aggiungerebbe coerenza all’impianto generale se, finalmente, si introducesse, accanto alle altre ‘storie’ che lo caratterizzano, anche la ‘storia della matematica’, la ‘storia della chimica’” e così via.  

La bella introduzione di Luigi Cerruti sottolinea il complesso intreccio tra la grande storia e la piccola storia locale, tra i protagonisti maggiori (Mussolini) e quelli minori (il conte Armènise, fondatore della fabbrica) che si muovono attorno alla Leo. Quasi alla fine si chiede, con una ‘certa acidità’, a cosa possa servire un testo come questo se, come dice Montale citato in epigrafe «La storia non è magistra di niente che ci riguardi» (La storia, Satura). Sembrerebbe dunque inutile studiarla. Tuttavia, riprendendo la parole di Umberto Eco, Cerruti dà una risposta affatto convincente al nostro continuo rovello di indagare nel nostro passato, pur se consapevoli della sua inanità: esso «tende a promuovere nell’interprete ‘atti di libertà cosciente’, a porlo come centro attivo di una rete di relazioni inesauribili».

Ecco: il libro di Ditta, Passaro e Turchi è in questo senso un riuscitissimo esempio di «opera aperta, che merita molti lettori, attenti e critici».

Claudio Salone