Il rapporto del Censis, il desiderio e la scuola

Il 3 dicembre scorso il Censis ha diffuso il suo 44° Rapporto sulla situazione sociale del nostro Paese. A prescindere dalle personali opinioni riguardo alla credibilità e alla capacità descrittiva e profetica delle scienze statistiche e sociologiche, il Censis, quantomeno negli ultimi anni, fornisce delle chiavi di lettura molto interessanti e, per certi versi, inquietanti. Spesso, però, l’inquietudine può essere un sentimento che spinge alla reazione, piuttosto che a una stasi inerme.

Ricordo che il Rapporto dello scorso anno aveva utilizzato l’immagine quasi dantesca della “mucillagine” per raccontare in modo vivido la condizione dell’Italia e degli italiani. Chi ha esperienze della materia non farà difficoltà a capire il senso metaforico di quella associazione applicato a un organismo sociale, statuale, economico e culturale.

Il Rapporto 2010, che ricorre in modo evidente a un linguaggio psicanalitico, ci descrive come una società “pericolosamente segnata dal vuoto”, che produce ed è vittima di un “egoismo autoreferenziale e narcisistico”, che ci ha resi insicuri, fiacchi e in preda a “pulsioni sregolate”. Un popolo, ancora, statico, bloccato, “senza profondità di memoria e futuro”.

Qualche dato e poi un passo indietro, verso un punto del Rapporto che mi ha colpito in modo particolare: sulle famiglie gravano sempre più compiti e costi assistenziali onerosi e impegnativi, in particolare rispetto alle situazioni di non autosufficienza e disabilità; quasi 2.500.000 giovani, tra i 15 e i 34 anni d’età, non studiano, non lavorano e nemmeno più cercano un impiego (un dato che, spero, stimoli una riflessione più profonda rispetto a quella, fatta propria anche da personalità politiche importanti e “autorevoli”, per la quale questi sarebbero tutti bamboccioni viziati. Mi sembra che le cifre testimonino una difficoltà che è anche sistematica); il 40% dei nuclei familiari sostiene di non avere la capacità di produrre risparmi, impiegando tutto quello che guadagna per fronteggiare le spese correnti mensili; a fronte di un’economia al palo, che fa difficoltà a reinventarsi e soffre forse più che altrove le condizioni critiche mondiali, cresce abbondantemente (+5,2%) l’economia che si crea dall’evasione e dall’elusione fiscale, così come è in crescita anche il numero di Comuni che hanno visto e subìto l’infiltrazione di attività tipiche della criminalità organizzata (passano da 610 a 672 e raccolgono il 22,3% della popolazione italiana. In pratica è interessato al fenomeno, direttamente o indirettamente, quasi un quarto degli italiani). Da ultimo, il Censis individua una controtendenza positiva: “il 71% degli italiani ritiene che la scelta di dare più poteri al governo e/o al suo capo non sia adeguata per risolvere i problemi del Paese” e ritiene che “bisogna partire dal basso, accrescendo le capacità, la preparazione, la coscienza dei singoli”, ma senza che questo si confonda con un soggettivismo di stampo berlusconiano. Piuttosto che assuma i tratti di una responsabilità diffusa.

Ma il punto molto significativo, a mio avviso, è che, secondo il Censis, “manca la materia prima su cui lavorare, il desiderio”. Questa si conserverebbe in chi è più aperto al mondo e in chi è propenso a “fare comunità, nei borghi, nei paesi” (per quanto, come scriveva qualche giorno fa Andrea Bagni sul “Manifesto”, 3 dicembre 2010, il termine “comunitario” comporti il rischio di “comunità chiuse, di appartenenze assolute, di guide gerarchiche, di religioni sacralizzate, separate dall’umano”). Ma per ricostruire la capacità di desiderare (il termine desiderio, peraltro, è di difficile gestione, passibile come è di interpretazioni assai contraddittorie e incompatibili, le derive più pericolose essendo la pretesa di un godimento immediato e il legame morboso a oggetti in realtà mai, appunto, “desiderati”), ecco, per ricostruire la capacità di desiderare un ruolo fondamentale dovrebbero averlo e, in realtà ce lo hanno già e ancora, la scuola e l’educazione. È attraverso il sapere, in tutte le sue sfumature, che passa la capacità di immaginare, di costruire immaginari, di avvertire mancanze, di innovare, di sviluppare competenze (e non solo prestazioni) e una capacità creativa, libera, “desiderante”, in grado di smarcarsi da appiattimento e appagamento, altre due caratteristiche nazionali evidenziate dal Censis. Insomma, un luogo dove il desiderio possa essere al tempo stesso “formato” e “alimentato”. Ed è, la scuola, anche l’ambito in cui mantenere e potenziare una “politicità delle relazioni orizzontali”, citando ancora il complesso e puntuale articolo di Bagni. Un aspetto da non sottovalutare se alla tensione desiderante si vuol dare, come sarebbe opportuno, una dimensione collettiva e un’attenzione costante all’altro da noi.

Sono giorni in cui su questi temi si sta giocando una partita importantissima, causa di tensioni (ahimè, anche strumentali) tra forze politiche e tra queste e soggetti esterni di vario tipo e che rivendicano cose diverse, non coincidenti (rettori, insegnanti e, soprattutto, ricercatori e studenti). Segno che l’importanza della posta in gioco è riconosciuta da tutti. E ha un valore che va ben oltre quello dell’insegnamento scolastico e universitario, allargandosi all’idea che abbiamo del presente e del modello di società che auspichiamo per il futuro.

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Claudio Imprudente