MYTHOS oralità e immaginazione

L’invenzione di storie è il tratto tipico di varie culture, e il repertorio di immagini e racconti, elaborato dagli antichi per registrare eventi storici e per tentare di spiegare fenomeni naturali, dimostra la necessità di un contesto narrativo in cui l’abilità, inizialmente soltanto orale, del narratore rivela l’interferenza tra gli accadimenti, le testimonianze e l’immaginazione.

Proviamo per un momento – in maniera certo non corretta – ad accostare l’infanzia dell’umanità all’infanzia di un singolo essere.

Negli ultimi decenni le neuroscienze hanno potuto stabilire che il futuro della mente si forma già nei momenti di precoce concentrazione infantile e che il primo periodo di vita del bambino ha un’influenza determinante sulle successive stagioni. Le funzioni cerebrali sono poi in costante interazione con l’ambiente e l’uomo è esposto a un duplice flusso: uno proveniente dal mondo esterno e l’altro dal cervello, che crea combinazioni di senso con tutto il materiale di cui dispone.

L’analogia impossibile tra le due infanzie è rintracciabile proprio nell’immenso potere creativo del cervello, che a livello individuale sviluppa la crescita di reti neuronali e a livello sociale riesce a forgiare l’ambiente culturale in cui viviamo. E lo fa, principalmente, attraverso i racconti, nell’un caso e nell’altro una voce narrante ha proiettato uno scenario via via più elaborato, uno scenario in cui la presenza discreta dell’immaginazione ha contribuito allo sviluppo del racconto stesso.

E qualcosa di simile può essere accaduto nell’infanzia dell’umanità, quando qualcuno è riuscito a disegnare sulle pareti della caverna scene di animali in movimento, come nelle grotte di Lascaux nella Dordogna, massima espressione dell’arte parietale del Paleolitico superiore. Altri dormivano intorno al fuoco e altri ancora tentavano di trarre, da tutti gli eventi del giorno e da quei disegni, dei suoni gutturali che non fossero dei semplici grugniti, come quelli degli animali. E’ stata l’infanzia delle parole e delle immagini, e forse le infanzie si somigliano un po’ tutte, almeno nella fase dello stupore dello stare al mondo e di poterlo manifestare.

È un periodo particolare della propria vita quello in cui stiamo cautamente entrando nel regno delle parole.

La preminenza della parola, il logocentrismo, sarà poi così evidente per tutta la nostra esistenza che il breve periodo in cui esitiamo a varcare quella soglia possiede un fascino particolare. Una fase generativa in cui si manifestano gli embrioni di forme e figure fantastiche: perché, prima della parola, si affollano intorno a noi, come in un improbabile e misterioso caleidoscopio, un insieme di immagini reali ed oniriche ma anche di suoni e di sensazioni tattili e olfattive.

I colori, i suoni, gli odori, i sapori e le impressioni prima del logos: un impasto che vive per una breve stagione al di fuori del linguaggio verbale e che, via via, prenderà la forma delle parole e poi il corso di un pensiero non concettualizzato. Una stagione, quella dell’imagocentrismo, con prevalenti fattori estetici, in cui il genio dell’infanzia, comincia lentamente a germinare, una stagione impossibile da ripetere, impossibile da ricordare.

Eppure sappiamo che l’immaginazione è una figura attiva di quella stagione ed è la funzione che ci traghetterà sulla sponda delle parole e con esse nell’entroterra delle narrazioni.

Le voci, i colori, i suoni, la natura, le relazioni sembrano intrecciare taciti dialoghi. E il problema del narratore non sarà solo quello di trovare/creare le parole, ma anche quello di scegliere e disporre gli eventi, di “montare” le scene in modo da consentire proprio quel tacito dialogo tra gli eventi stessi.

Questo esercizio vitale, cui siamo stati destinati a partecipare, ha realizzato, senza mai interrompersi, repertori di storie, il cui esame rivela la presenza di connessioni significative tra immagini diversamente simili di epoche ed aree culturali spesso assai lontane, sia geograficamente che cronologicamente. Sono questi repertori di storie, non basati soltanto sulla pura osservazione della realtà che, in genere costituiscono la mitologia di intere popolazioni, cioè un complesso dei miti elaborati in racconti e immagini per spiegare fenomeni naturali o per registrare avvenimenti fondanti e straordinari, oppure temi ricorrenti che hanno finito per costruire gli archetipi che conosciamo e che fanno parte dell’immaginario collettivo.

In greco mythos significa parola, racconto e  nei secoli precedenti all’invenzione della scrittura la memoria popolare era affidata a racconti di tradizione e di eventi diffusi da aedi e da rapsodi che, girando per le città greche, raccontavano storie di dei e di eroi.

Perché i miti sono uno specchio della mente umana che usa materiali diversissimi messi a disposizione della storia, della geografia, della vita stessa degli uomini e della loro immaginazione, raggiungendo un’autonomia simbolica rispetto ai racconti da cui sono nati.

La vita degli uomini e la fiducia nell’esperienza, perché, come scrive Walter Benjamin “l’esperienza che passa di bocca in bocca è la fonte a cui hanno attinto tutti i narratori. E fra quelli che hanno messo per iscritto le loro storie, i più grandi sono proprio quelli la cui scrittura si distingue meno dalla voce degli infiniti narratori anonimi”.

Nell’antica Grecia la parola mythos era contrapposta alla parola lógos, legata a un’esposizione oggettiva, basata sull’osservazione dei fatti.

Le favole di Esopo appartengono alla categoria del mythos, poiché sono un racconto puro, che non implica alcuna argomentazione o motivazione.

“L’inno ad Apollo” spiega Furio Jesi nel suo saggio sul mito “appartiene invece alla categoria del lògos, anche se parla espressamente di un dio, poiché è un discorso dalle precise e necessarie argomentazioni e motivazioni.”

Ma lo stesso Platone – che condanna, nella Repubblica, come dannosi per l’educazione i racconti mitologici – ha usato le parole mythos e lógos in accezioni mutevoli, perché in queste due parole risiedono una ricchezza di significati, che va ben oltre la loro presunta contrapposizione.

Certo poi l’oralità avvalendosi del dono dell’improvvisazione costruisce un tessuto comunicativo in cui l’empatia regna sovrana e la forma stessa dei racconti si plasma nel crogiolo di chi ci circonda.

A questo proposito mi ha colpito ne Il narratore ambulante di Vargas Llosa la storia di una comunità di uomini e donne seduti in cerchio, immobili, alla maniera amazzonica, “Tutti i volti erano orientati, come i raggi di una circonferenza, verso il punto centrale, una sagoma maschile che, in piedi nel cerchio di machiguenga (tribù amazzonica) calamitati da questa, parlava, muovendo le braccia”.  Era un parlatore!

Ancora Benjamin si ricorda che “ il narratore prende ciò che narra dall’esperienza – dalla propria o da quella che gli è stata riferita – ; e lo trasforma in esperienza di quelli che ascoltano la sua storia.”

Una figura mitica e, al tempo stesso, evocatrice di miti. 

C’è infatti nel mythos questo continuo, implicito, riferimento al passato, come se gli eventi trascorsi fossero la necessaria chiave interpretativa, ma anche narrativa, di quelli presenti. Nel mythos risiede infatti l’intrinseco valore evocativo del tempo trascorso. Ecco che il parlatore, il retore e il narratore attingono in modo diverso e per diversi scopi alle risorse dei miti.

Furio Jesi ci ricorda che “l’eloquenza dell’eroe omerico “buon parlatore”, come Odisseo o come Nestore, è alimentata da almeno due facoltà: l’astuzia di usare le parole giuste al momento giusto (in cui eccelle Odisseo) e la capacità di attingere solennemente a un repertorio di storie preesistenti che conferiscono al parlatore e ai suoi argomenti l’autorevolezza di un passato consacrato (capacità in cui eccelle Nestore)”.

Nestore è appunto un vecchio, qualcuno che trova nella memoria la fonte della conoscenza perché vecchiaia era sinonimo di saggezza, a patto di non considerare la memoria soltanto come il ricordo di ciò che è accaduto, perché la sua pasta molle ingloba molte altre possibilità. Coscientemente o inconsciamente modifichiamo i nostri ricordi impastandoli con altri materiali forniti dalla nostra immaginazione; ciò avviene soprattutto quando raccontiamo un ricordo, perché per rendere in qualche modo partecipi i destinatari all’evento in questione ne adattiamo i contorni alle circostanze attuali. La memoria diventa allora un arte combinatoria in cui l’immaginazione rimescola quei particolari dati che, in quanto vissuti, sembravano immutabili.

Verba volant, ed è la mente che fa volare le parole nelle combinazioni vecchie e nuove che intendiamo rivivere o semplicemente condividere. Il potere delle storie e “il prisma dell’immaginazione” (prendo quest’espressione da Jerome Bruner ne La fabbrica delle storie) non sono soltanto alla base dei miti ma anche alla base del nostro desiderio di confrontarci con il senso del mito e della sua evoluzione lungo almeno tre millenni, in una sorta di vincolo tra il passato e il presente simile a quello che esiste nella storia delle vicende umane.

Giuseppe Fiori