La questione delle competenze

 

La seguente riflessione è legata alla lettura di un utile e significativo articolo di Vittoria Gallina pubblicato sulla Rivista dell’Istruzione n. 4-2018 dal titolo “Le competenze: un nodo non risolto”.

La questione delle competenze, che, come uno spettro – di assai minore entità rispetto all’altro più grande – si aggira ormai da tempo nel mondo della politiche educative, acquista una sua particolare centralità, in quanto è in grado di catalizzare e di portare alla luce un tema che, come ho già accennato in questa stessa rivista nell’articolo di commento a Giunio Luzzatto (“Una breve riflessione su ‘Democrazia e educazione’”), discrimina la/le visione/i che si hanno della scuola.

Prendiamola (apparentemente) alla lontana.

Come è noto, scholè in greco significa “ozio”, “allontanamento dalla vita pratica”, laddove l’ascholia era, all’opposto, l’immersione nelle occupazioni quotidiane, diremmo noi nel lavoro, faccenda questa che, in una società dominata dal modo di produzione schiavistico, era considerata indegna dell’Uomo.

Una scuola dunque in cui il concetto stesso di competenza, sarebbe risuonato come una bestemmia.

In greco il termine “competenza” (significativamente) non ha una traduzione univoca. Forse si potrebbe rendere con una qualche maggiore approssimazione con “ikanotes”, che contiene in sé il concetto “adattamento alla realtà”, “adeguatezza rispetto a un compito pratico”.

In latino esistono i termini “peritia”, “essere adatto a risolvere una situazione pratica” e “competentia”, relativa all’ambito giuridico – dunque “pratico” –  come “ambito di spettanza di un giudice” o “diritti di compenso”. Da aggiungere anche il significato di “competere” come “gareggiare”, “emulare” (abbiamo ben presente, credo, l’invasività del modello competitivo: dal miglior cuoco alle migliori università, ai migliori insegnanti, è tutto un classificare e dare punti e numeri).

Altra cosa è la “scientia”, che è il sapere disinteressato “acquisito attraverso lo studio e la meditazione”, la “sophia” greca (“philosophia”, amore per la conoscenza).

Questa concezione della scuola come “scholè” passa dal mondo greco-romano a quello dei chiostri dell’età di mezzo fino al Rinascimento e oltre, giungendo a noi e segnatamente in Italia, con l’ultima grande riforma pre-moderna del sistema educativo, quella di Giovanni Gentile, un impianto restato ormai unico in Europa, anche se “smangiucchiato” qua e là con mezze riforme, dal profilo sempre incerto e di assai incerta efficacia (ha ragione Vittoria, finora si è persa la grande occasione di cambiamento offertaci dal processo, lasciato incompiuto e senza volto, dell’autonomia scolastica).

Eccoci dunque al punto: cosa deve essere oggi la scuola, la scuola della knowledge, o del knowing (ma perché? …)? Mi si potrebbe rispondere: dell’una e dell’altro, naturalmente! Capisco che non si possa e non si debba essere così tranchant, ma resta pur sempre il fatto che è necessario individuare un baricentro: “De qqua non z’esce, o semo Giacubbini/O credemo alla legge der Zignore”, dice G.G. Belli all’inizio del suo stupendo sonetto, “La morte co la coda”

L’evoluzione dell’istituzione scolastica segue e rispecchia quella dei processi sociali ed economici: nella nascente società borghese, ogni richiamo al “disinteresse aristocratico” è considerato nemico del progresso, a sua volta identificato sostanzialmente con l’espansione delle libertà politiche individuali; l’annesso processo crescente di mercificazione presuppone tuttavia da un lato l’esaltazione della libertà individuale, ma dall’altro una equiparazione del processo formativo a qualsiasi altro processo di produzione, destinato a “produrre” “buoni cittadini”, cioè a dire individui integrati nella nuova società delle libertà democratiche e buoni consumatori, rispettosi delle leggi del mercato e, se possibile, funzionali ad esso.

L’arcaicità della scuola come “scholè”, in cui la libertà non è di per sé una libertà democratica, è sicuramente d’ostacolo ai processi produttivi della moderna società capitalistica, in quanto ne nega in radice l’importanza formativa.

Non è certo un caso che i modelli pedagogici “vincenti” (basti osservare il dominio assoluto della nomenclatura inglese), a partire dalla seconda metà dell’800, provengono dalla società di capitalismo avanzato di oltre Atlantico.

È dunque indispensabile scegliere:

  • la scuola deve essere il luogo di formazione del cittadino, di integrazione nella comunità, capace di fornirgli gli strumenti che lo porteranno al successo (visto sempre come felice integrazione). Se è così, bisognerà evitare la sovrapposizione di modelli eteronomi che generano il Kluft rilevato in Germania dal progetto Cicero, citato da Vittoria e “l’affermazione, talora retorica, delle competenze nella normativa scolastica e nelle produzioni ministeriali, contrapposta alla vita reale della scuola; di qui la stasi dei processi di traslazione dalle politiche alle pratiche”. Si tratta di quel fenomeno “additivo” di cui parla sempre Vittoria e che io ebbi modo di definire “emulsivo”, in cui il vecchio si mescola, senza integrarsi, né formare nuova sostanza, al nuovo;
  • la scuola deve conservarsi come luogo della conoscenza disinteressata, dove si avviano processi consapevolmente “inutili”, di cui non si può e non si deve progettare o misurare il successo o le finalità, essendo queste connesse con l’imponderabile che è dentro di noi e che muta con l’andare del tempo; è la scuola della trasmissione di quel tucidideo “ktema es aiei” (possesso eterno) che è polarmente distante, ad esempio, dalla logica del “portfolio”.

Ho estremizzato, me ne rendo conto, ma sono convinto che, se non ci diciamo con chiarezza a cosa deve servire la scuola, continueremo ad assistere ad un vano agitarsi di questioni, buone solo per alimentare il dibattito accademico.

Claudio Salone