Elogio del copiare

Gli autori più originali non lo sono perché promuovono ciò che è nuovo, ma perché mettono ciò che hanno da dire in un modo tale che sembri che non sia mai stato detto prima

Johann Wolfgang Goethe

 

La triste vicenda della studentessa bendata che Vittoria Gallina ha commentato in modo impeccabile nel numero 51 di questa rivista sollecita considerazioni sulla questione generale del copiare.  In questa rapida disamina, che va senza soluzione di continuità dalle alte vette dell’arte e alle più meschine furfanterie delle copiature scolastiche, sorvolerò su quella lunghissima esperienza storica della copiatura di testi dall’età antica fino alle soglie dell’età moderna: in tutto questo periodo il copiare era attività sociale di grandissima importanza per la diffusione e la continuazione della cultura; ciononostante era opera di schiavi nell’antichità – anche se schiavi literati, di rango,  addestrati fin dall’infanzia a quest’arte – e di amanuensi laici, di modesta condizione,  e più spesso monaci nell’età medioevale. Di fatto quell’arte evolvette fino a diventare un’arte calligrafica di grande valore artistico che proseguì fino all’introduzione dei processi di stampa.

L’arte del copiare

Mi concentro invece sul copiare in senso proprio: una persona, per propri fini artistici e meno nobili, si impossessa di contenuti scritti ed espressi da altri o da anonimi, e, in buona o cattiva fede, li fa passare come suoi senza obbligo di citazione della fonte. Va da sé che questa pratica era particolarmente diffusa fino all’epoca del riconoscimento della proprietà d’autore, ossia fino al secolo XVIII quando fu sancita la tutela di un testo a favore di chi l’aveva scritto. Prima di allora, per tutto il medioevo e parte dell’età moderna, non solo non esisteva il diritto ma era sfumato il concetto di autore. In questo periodo i testi, e per qualche tempo le musiche (gran parte del canto gregoriano è anonimo) e le opere d’arte sono oggetti che vagano senza padrone e il copiarli era semplicemente un  modo per poterli più efficacemente diffondere e far conoscere. In altre parole, fino all’età precapitalista, è decisamente l’opera che ha aggio sull’autore In effetti è   durante l’età mercantile, che si fonda il concetto di proprietà, che si inizia a  focalizzare questo tema sui diritti individuali.

Furti di note

Tuttavia rimane il fatto che il mondo della cultura fatta di parole, suoni e immagini rimane non completamente  confinabile nell’attività del singolo, seppure geniale. Non c’è autore al mondo che non debba pagare debito con quanto hanno fatto i suoi predecessori e i suoi contemporanei. Il più grande tra gli inventori di musica, Wolfgang Amadeus Mozart, tra le altre aveva la straordinaria capacità di memorizzare interi brani musicali sentiti una volta sola e di riprodurli esattamente. Nell’enorme calderone ribollente di musiche che era il suo straordinario cervello uscivano perciò sue geniali creazioni strettamente intrecciate con musiche altrui o popolari. Il Confutatis  del Requiem ha stretti punti di assonanza con un lavoro di un oscuro compositore italiano. È molto probabile che Moazart avesse sentito in chissà quale occasione quella musica e l’aveva introiettata senza problemi. Del resto Mozart, che attingeva a man bassa nel folklore musicale tedesco (come capita ne Il flauto magico), si divertiva a copiare dichiaratamente da se stesso, come capita nel Don Giovanni quando si insinua un famoso tema de Le nozze di Figaro.

Mozart può essere ascritto tra i copiatori inconsapevoli. Sicuramente l’alea di cui è fatta la musica favorisce l’esercizio della copiatura, anche quella invece consapevole. Stravinskij diceva «Un buon compositore non imita: ruba». Ed è noto il tributo che il grande russo doveva alla tradizione del suo folklore nazionale, su cui è improntata La saga della primavera e all’intera opera di Giovan Battista Pergolesi.  Stessa cosa vale per Johann Sebastian Bach nella Passione di San Matteo che sfoggia un canto tradizionale luterano. Georg Friederich Haendel, uno dei musicisti più prolifici al mondo, attingeva ampiamente dai suoi colleghi (anche da Mozart) e lo stesso Ludwig van Beethoven aveva porto più di un orecchio (quando ancora ci sentiva) a Mozart nell’elaborare la sua Terza sinfonia. Richard Wagner utilizza un tema di Franz Liszt per la sua  Walchiria,  ma almeno avverte l’autore che se ne compiace, da quel  gran signore che era  («Almeno qualcuno ascolterà la mia musica»). Infine sono in molti a notare la somiglianza melodica tra il celebre Nessun dorma di Giacomo Puccini e una più antica canzone di Cesare Bixio, l’autore di Mamma.

Richard Strauss, nel suo Il borghese gentiluomo utilizza interi brani musicali (minuetto) di Raymond Lully, nemmeno citato nella locandina originale del concerto. Del resto i ‘prestiti’ musicali sono innumerevoli, a volte omaggi, altri prestiti ironici quando non autentici sfottò: sempre nell’opera citata, Strauss si diverta a prendere in prestito, distorcendole, musiche di Wagner  e di Giuseppe Verdi. Operazione simile viene fatta da Charles Debussy quando nel suo Children’s Corner  cita l’incipit del Tristano e Isotta di Wagner  in un contesto incongruo al brano citato (Debussy non amava molto il gran tedesco).

Sicuramente nella musica, sia per l’alea come detto, sia per la sua struttura che fonda molto sulla ripetizione, il prestito o addirittura la copia risultano meno scandalosi ed evidenti che nelle altre arti (verrebbe da parafrasare Liszt dicendo che almeno così si ascolta più musica…). Non mi addentro nella storia dell’arte, in cui il ricalco, la copia, l’importazione di suggestioni estetiche sono la norma ma faccio giusto qualche esempio preso dalla storia della letteratura.

Furti di parole

Parto da un ricordo personale. La mia professoressa di inglese, Bice Chiappelli, squinternata come una enciclopedia in una tempesta ma coltissima (devo a lei l’amore per la letteratura inglese) ci diceva sempre che Montale l’aveva defraudata di un scritto. Consideravamo la sua esternazione come una simpatica bizzarria ma molti anni dopo ho avuto conferma che Eugenio Montale era stato da lei portato in giudizio per aver letteralmente sottratto una traduzione. Montale fu condannato e si giustificò sostenendo che pensava che si trattasse di una traduzione di una sua cara amica: strana giustificazione. Del resto il grande Nobel, spesso distratto, non era nuovo a questi inciampi: sono in molti a notare come in Ossi di seppia  ci siano numerosi prestiti di poesie di Clemente Rebora. Del resto, anche in letteratura  la categoria dei copiatori inconsapevoli, è molto ricca: Melania Mazzucco che in Vita ha ricalcato un intero brano di Guerra e pace  di Lev Tostoj dichiarò che l’amore per il grande russo in lei è tale che traspone, senza rendersene conto, quanto da lui scritto. In effetti, tutta la parte della Repubblica romana del suo romanzo L’architettrice è di chiara impronta tolstoiana. Dando per buona la spiegazione, risulta un’altra volta che il copiare a volte non è altro che riproporre ed estendere la bellezza dei capolavori. Ci sono poi altre motivazioni del copiare: Giuseppe Ungaretti copiò per amore una poesia di James Joyce per inviarla  a una sua innamorata, solo che in seguito si dimenticò del prestito e pubblicò la poesia come sua. Qualcuno poi copiava per necessità: Emilio Salgari, inseguito dai creditori, sotto falso nome pubblicò romanzi presi di sana pianta da oscuri scrittori anglosassoni. Che dire poi di Gabriele D’Annunzio, da qualcuno definito ‘plagiaro compulsivo’ per un’esondante vena creativa che non conosceva ostacoli (specie degli scritti altrui). Infine ci fu chi per copiare ripercorreva le sue trame delittuose: sembra che Conan Doyle avesse copiato il suo celebre Il mastino di Baskerville da un manoscritto di un suo amico, al quale, già che c’era, rubò anche la moglie (probabilmente l’esecutrice del furto). Il caro amico di Doyle morì di infarto qualche mese dopo, almeno così risulta ufficialmente.

Lo sguardo sottecchi

Cosa tiene insieme questi alti (anche se spesso non edificanti) esempi di copiatura nell’arte con il drammatico sbirciare, con la torcitura di sguardo dello studente incalzato in una interrogazione? Penso che in tutti i casi, alti o bassi che siano il ‘copiatore’ deve sapere, almeno un po’. Quel po’ non basta, ma deve sapere per integrare quel che non sa in quel che sa. E quel che non sa lo deve ricavare da qualche riga estorta con lo sguardo in pochi secondi o da un suggerimento sillabato da un compagno di classe (oltre all’arte del copiare qui ci sarebbe bene una digressione sull’arte del suggerire). Questi ‘mozziconi’ di sapere possono essere raccolti solo dallo studente che sa un po’ e così colma quel che non sa. Quando insegnavo (decenni fa) ero sempre favorevole al suggerimento sillabato, alla pagina del libro mostrata da lontano. Il suggerimento più formidabile che ricordo e che ben rappresenta quest’arte minima del copiare, fu una volta in cui uno studente non riusciva in nessun modo, in una equazione chimica, a mettere in evidenza il termine che doveva essere trovato. Una compagna dal banco gli disse «Fai finta che sia matematica». Il problema fu risolto in un baleno con soddisfazione di tutti, me compreso, ammirato dall’intelligenza del suggerimento e dalla velocità con cui era stato raccolto.

Va da sé  che questo articolo ha smaccatamente copiato dalle referenze in calce. 

 

Da Mozart a Jovannotti: quando copiare è un’arte, quotidiano nazionale, 3 luglio 2016

Della Corte A., Pannain G, Storia della musica, Voll. II e III, UTET, 1952

De Marinis T., Amanuense, IEI, Enciclopedia Italiana, vol. 2, 1929

Mascheroni L., Nobel, bestselleristi, grandi penne. A copiare sono bravi tutti, Il Giornale, 10 maggio 2015

Mascheroni L. ,  Elogio del plagio, Aragno, 2015

Praz M., Vannini O., Plagio, IEI, Enciclopedia Italiana, 1935

Andrea Turchi