Didattica, resilienza e ricerca di senso

Pandemia, didattica, tecnologie, studenti, distanza, disuguaglianze. Intorno a queste parole, durante l’emergenza sanitaria, si è intrecciato un discorso a più voci – sul senso e sui limiti dell’educazione – che però stenta a ricomporsi in un’unica narrazione. Forse anche a causa del fatto che non solo i punti di vista degli intervenuti ma anche i significati a cui essi hanno fatto riferimento erano assai diversi tra loro. Se non si riesce a descrivere e a interpretare il trauma subìto dalle istituzioni educative in modo pacato e sulla base delle evidenze, cioè con uno stile più vicino alla ricerca scientifica che alle esibizioni mediatiche, non si riuscirà nemmeno a dare un senso sia a ciò che è accaduto sia alle azioni che domani sosterranno la ripresa delle attività educative. 

Per individuare le evidenze su cui costruire un discorso dotato di senso è fondamentale partire dal contesto del nostro sistema educativo, con i suoi vincoli e le sue opportunità. In quali condizioni si trovava il nostro sistema educativo prima della pandemia? La nostra spesa per l’istruzione da tempo ci colloca in fondo alla classifica dei paesi più sviluppati. L’azione cumulativa dovuta al protrarsi di questa situazione ha prodotto sul nostro sistema educativo effetti distruttivi. Ne cito solo alcuni: a) un’edilizia scolastica vecchia e insicura; b) una formazione in servizio del personale debole e priva di indirizzo; c) l’assenza di una politica di reclutamento coraggiosa e di lungo respiro; d) retribuzioni del personale tra le più basse in Europa. È evidente che in tali condizioni un sistema educativo è destinato al declino, con gravissime conseguenze sul piano sociale e culturale (povertà educativa, crescenti disuguaglianze sociali, ostacoli allo sviluppo economico). È altrettanto evidente che un organismo così fragile non è in grado di resistere all’effetto dirompente di un trauma come quello prodotto dal virus. Insomma, durante la l’emergenza la scuola è apparsa fragile quanto gli anziani delle case protette. 

Ricordo questa condizione pre-pandemica per sottolineare che le difficoltà messe in evidenza dall’emergenza sanitaria esistevano già. Per esempio, gli spazi educativi, i luoghi di apprendimento in cui vivono fisicamente i nostri studenti, erano inadeguati e insicuri ben prima della pandemia e questo domani non faciliterà la ripresa in sicurezza del nuovo anno scolastico. Inoltre, l’assenza di un piano di formazione in servizio e un’età media del personale tra le più alte al mondo hanno impedito un reale rinnovamento della didattica e questo, durante l’emergenza, non ha messo i docenti nella condizione di usare in modo innovativo le tecnologie digitali. Insomma, il modello ‘lezione-compiti-voto’, alla base della didattica tradizionale, era egemone ben prima della pandemia. Se è vero che le azioni educative hanno bisogno di un corpo attivo e non di uno forzatamente seduto sulla sedia davanti a un computer è altrettanto vero che un corpo e una mente non sono attivi se il corpo è forzatamente seduto per ore sulla sedia ad ascoltare lezioni cattedratiche, anche se tenute in presenza. Il problema, dunque, è a monte della pandemia e indipendente dalle tecnologie digitali: è nella qualità degli ambienti di apprendimento e, soprattutto, nella qualità della didattica, a prescindere dal fatto che questa avvenga in presenza o a distanza. 

Si dice che  la scuola non avrebbe  bisogno irrinunciabile di tecnologia. Non è vero, sia in generale sia, a maggior ragione, in questa situazione di emergenza. La scuola di massa, come la conosciamo oggi, non esisterebbe senza la più antica e la più efficace tra le tecnologie didattiche: il libro. Nel caso specifico dell’emergenza sanitaria, il ricorso massivo alle tecnologie è stato inevitabile, un bisogno irrinunciabile. In condizioni normali la scuola non potrebbe esistere senza una costante e profonda interazione con il contesto di cui è parte; oggi il mondo che la circonda e la pervade è attraversato da una rivoluzione digitale che non può e non deve essere ignorata, con o senza pandemia. Tuttavia, le tecnologie digitali, come ci ha insegnato Seymour Papert quasi mezzo secolo fa, possono contribuire a costruire ambienti di apprendimento ricchi e stimolanti solo a condizione che siano ispirate da una chiara intenzionalità pedagogica. Ma per assicurare questa intenzionalità occorre una competenza che è prima di tutto didattica e, solo in funzione di questa, anche tecnologica. 

È certo che le difficoltà di accesso alle tecnologie hanno prodotto emarginazioni ed esclusioni tanto significative quanto intollerabili. Ma bisogna anche chiedersi quali sarebbero state le dimensioni di queste esclusioni se non si fosse fatto ricorso alle tecnologie. Il Gianni della Lettera ad una professoressa sarebbe stato del tutto escluso da qualsiasi contatto e stimolo educativo mentre il ‘Pierino del dottore’ avrebbe continuato a studiare aiutato dalla famiglia, come prima e forse più di prima. Insomma, senza il digitale avremmo avuto il collasso dell’intero sistema educativo. A questo proposito è significativo l’impatto meno traumatico prodotto dall’interruzione della didattica in presenza sull’università. Una differenza che può trovare una spiegazione nel fatto che da almeno quindici anni, in quasi tutti gli atenei italiani, si è diffusa la pratica della didattica mista (blended), cioè una integrazione della didattica in presenza con quella a distanza. Si può ipotizzare che una certa familiarità con una didattica innovativa abbia favorito una reazione più pronta all’emergenza e a modelli didattici diversi da quello tradizionale. 

In conclusione, l’esperienza della pandemia ha messo in luce una straordinaria resilienza del nostro sistema educativo. A differenza degli anziani delle case protette, drammaticamente falcidiati dal virus, il sistema educativo italiano pur nella sua fragilità ha resistito, riportando danni notevoli ma senza soccombere. Sono emerse criticità diverse per ogni grado dell’istruzione e di conseguenza differenti priorità d’azione. In tutti i casi, dalla primaria all’università, è emerso un urgente bisogno di ripensare luoghi, tempi e forme della didattica; per farlo serve il concorso di tutti, dalla scuola militante al mondo della ricerca accademica, serve un impegno collegiale che possa tradursi in un rinnovamento della didattica all’insegna dell’integrazione di tutti i metodi e di tutte le tecnologie disponibili. Non si tratta di inventare niente ma di censire e diffondere i risultati delle ricerche e le buone pratiche accumulati in questi ultimi anni.

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Luciano Cecconi Università di Modena e Reggio Emilia