Alberto Manzi. La coerenza e il non dare nulla per scontato 

Il primo ottobre del 1950, quando venti bambini si avvicinarono all’ingresso della scuola elementare Fratelli Bandiera di Roma per iniziare la seconda elementare con un nuovo insegnante, venne loro detto di entrare da un’altra scala, che portava direttamente ai piani alti. Ad aspettarli c’era il maestro Alberto Manzi, che li condusse a osservare gli spazi della scuola, invitandoli poi a entrare in una grande aula completamente vuota, aperta su un ampio terrazzo. Dopo un discreto tempo trascorso in piedi a presentarsi e a discorrere, il nuovo maestro cominciò a dire: «Vivere in gruppo passando insieme diverse ore non è semplice. Sono sicuro che voi volete stare più comodi. Per questo i nostri nonni hanno inventato le sedie: per non stancarsi. Quindi ci servono le sedie. Quando tornate a casa, dite ai vostri genitori che il maestro vi ha chiesto di portare a scuola la vostra sedia. Ognuno quella che più vi piace, sceglietela voi, quella su cui state più comodi». Così comincia un anno di scuola sperimentale nel racconto che Giuseppe Pennacchia descrive in Alberto Manzi, il mio maestro, un libro stampato in proprio, che colleziona informazioni preziose e aneddoti su quei tre anni di scuola.

L’inizio illumina sempre ogni esperienza e la sottrazione delle sedie da parte di questo particolare maestro afferma, con la potenza di un gesto, che per apprendere davvero dobbiamo metterci in gioco e non dare mai nulla per scontato. La storia delle sedie sottratte non è solo metafora per dire che stare in piedi e muoversi è un’ottima condizione di apprendimento, ma esperienza concreta che rende quell’aula, fin dal primo giorno, un laboratorio permanente da pensare e costruire insieme, ciascuno portando da casa la sua sedia preferita e, con essa, una parte del proprio vissuto affettivo. Intorno alla sedia mancante, cioè a un’assenza, si sviluppa la prima ‘lezione’ del nuovo maestro, che intavola subito una discussione sull’origine di quell’oggetto, su come è stato inventato, accompagnando le ipotesi proposte dai bambini con il racconto del folletto Sediolino a cui un uomo rubò l’idea, cominciando a costruire panche e panchine per far sedere più persone fianco a fianco. La storia prosegue poi con un re che vuole una sedia tutta per sé e pretende un trono. E qui il maestro invita i suoi scolari a entrare, attraverso l’arte del narrare, nel suo mondo morale il cui principio sovrano è che su questa terra ci dev’essere posto e pari dignità per tutti.

È inseguendo con concretezza e rigore il sogno di offrire pari opportunità a tutti in un mondo dispari che Manzi entra in conflitto con il sistema di valutazione presente nella scuola, che tanto gli costerà sul piano professionale e umano. Nella primavera del 1976 così motiva il suo rifiuto di dare voti in una lettera al suo direttore:

«non ho mai classificato nessun compito, e pertanto i ragazzi hanno appreso a lavorare perché è bello scoprire cose nuove; hanno appreso ad aiutarsi perché – data la mancanza di ogni tipo di classificazione – hanno scoperto che dà più gioia il dare che il ricevere: hanno appreso ad essere coscienti delle loro possibilità perché non hanno mai avuto il terrore di dimostrare la loro ignoranza. Ed io ho potuto tranquillamente rimproverare il ragazzo che sbagliava una inezia, ma che poteva non sbagliare, ed ho potute dire bravo e chi sbagliava quasi tutto il lavoro, perché non riusciva ancora, per il suo ritmo personale di crescita, a comprendere. Solo così ho potuto recuperare elementi che erano stati definiti irrecuperabili, o che sarebbero stati veramente irrecuperabili se il voto fosse piombato loro addosso come strumento di tortura e catena che avrebbe impedito di proseguire ad andare avanti. Non ho mai dato voti, pertanto non ho dato mai pagelle[1] ».

Questa lettera è punto di arrivo di una riflessione che ha sempre accompagnato Alberto Manzi. Da maestro ricercatore qual era, infatti, si è sempre interrogato su quale valutazione potesse sostenere e non ostacolare la crescita di bambini diversi per natura e spesso discriminati per origine sociale. Manzi era convinto che bisognasse innanzitutto educare a pensare, come titolò una trasmissione televisiva a cui diede vita nel 1986.

C’è un ulteriore dettaglio che dimostra la sua straordinaria coerenza. Quando era all’apice della sua notorietà mediatica per via del programma televisivo Non è mai troppo tardi, che condusse dal 1960 al 1968 percependo l’abituale stipendio di maestro elementare, una nota società produttrice di carne in scatola gli chiese di girare una pubblicità, per la quale gli proposero un compenso che oggi corrisponderebbe al prezzo di una casa a Roma. Manzi rifiutò, sostenendo che non voleva ci fosse alcuna commistione tra chi insegna a leggere ed educa alla cultura e chi induce all’acquisto di prodotti per trarne profitto. Conosco poche persone capaci di tale coerenza. E credo sinceramente che fu proprio tale rigore e coerenza a rendere indimenticabile il maestro Manzi non solo per coloro che hanno avuto la fortuna di condividerne un tratto di strada, ma anche per tutti noi che lo abbiamo conosciuto attraverso scritti, racconti e le note trasmissioni che hanno salvato dall’analfabetismo tanta parte di un popolo c fortemente convinto del valore della cultura come via per la propria emancipazione.

Nella lettera scritta alla sua classe al termine di un ciclo della scuola elementare, leggiamo: «Ricordatevi che mai nessuno potrà bloccarvi se voi non lo volete, nessuno potrà mai distruggervi, se voi non lo volete. Perciò avanti serenamente, allegramente, con quel macinino del vostro cervello sempre in funzione; con l’affetto verso tutte le cose e gli animali e le genti che è già in voi e che deve sempre rimanere in voi; con onestà, onestà, onestà, e ancora onestà, perché questa è la cosa che manca oggi nel mondo e voi dovete ridarla; e intelligenza, e ancora intelligenza e sempre intelligenza, il che significa prepararsi, il che significa riuscire sempre a comprendere, il che significa riuscire ad amare, e… amore, amore. Se vi posso dare un comando, eccolo: questo io voglio. Realizzate tutto ciò e sarò sempre in voi, con voi. E ricordatevi: io rimango qui, al solito posto. Ma se qualcuno, qualcosa vorrà distruggere la vostra libertà, la vostra generosità, la vostra intelligenza, io sono qui, pronto a lottare con voi, pronto a riprendere il cammino insieme, perché voi siete parte di me, e io di voi.

Ciao. Alberto Manzi[2].

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[1]  Lettera scritta al Direttore Didattico della scuola Fratelli Bandiera, Roma, 26 aprile 1976 (www.centromanzi.it)

[2] La lettera si trova nell’archivio del Centro Alberto Manzi (www.centromanzi.it) e può essere ascoltata su https://www.youtube.com/watch?v=nTQ36qzSpBs

 

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