Sulla zattera della bellezza. L’arte per sopravvivere

Raccontare la Shoah attraverso la potenza della bellezza, lasciando il dolore sullo sfondo.

Non ci sono le montagne di cadaveri, sopravvissuti ridotti pelle e ossa, fumo dei forni nel film girato nel  ‘ghetto modello’ di Theresienstadt, Terezin, a 60 km da Praga nella Repubblica Ceca. L’opera prima di Gabriele Guidi racconta e rievoca la detenzione e la vita nel campo, dove vennero convogliati molti tra i più grandi direttori d’orchestra e musicisti della Mitteleuropa dei primi decenni del Novecento, alcuni dei più grandi poeti e intellettuali e migliaia di bambini.

Il film ha richiesto un lavoro di preparazione di oltre sette anni,  ha ottenuto il patrocinio delle Comunità Ebraiche Italiane e è uscito nelle sale in occasione del Giorno della Memoria.

A Terezin la musica e l’arte in genere, dapprima considerata clandestina e perseguitata dalle SS,  fu autorizzata per diventare strumento stesso di propaganda dell’orrore: i nazisti si resero conto che, sfruttando la necessità vitale dei musicisti professionisti di fare musica, avrebbero potuto raggirare il mondo ad uso della propaganda nazista, offrire uno specchietto per le allodole all’ispezione degli osservatori internazionali della Croce Rossa nel 1944 e al contempo controllare meglio gli ebrei fino al momento della deportazione verso le camere a gas.

Ma il fatto stesso di continuare a suonare la musica nella propria testa, e poi di potersi esprimere artisticamente, di immergersi in un paesaggio sonoro, diventa per i detenuti occasione di ricostruzione della dignità perduta, opportunità di ritrovare momenti intensi di socialità e cooperazione, di fare resistenza e anche di sfuggire alla morte. Momenti di contatto con la normalità, di potenza della creazione, di vitalità delle proprie competenze e idee per artisti le cui carriere erano state interrotte bruscamente con la deportazione e erano ben consapevoli del loro tragico destino: come la pianista Alice Herz-Sommer e il direttore d’orchestra Karel Ancérl, che riuscirono a scampare alle camere a gas, o Hans Krasa, autore dell’opera per l’infanzia Brundibar, scritta nel 1939 e rappresentata per ben 55 volte dai bambini nel campo, e Victor Ullmann, pianista e compositore a Terezin de Der Kaiser von Atantis, l’Imperatore di Atlantide, trasferiti e uccisi entrambi a Aushwitz.

Il regista testimonia che la direttrice del polo museale di Terezin, a breve patrimonio mondiale dell’Unesco, durante le riprese gli ha detto che ogni volta che si compiono scavi tra muri, terreni e soffitte vengono scoperti spartiti, pentagrammi, schizzi, disegni, poesie e manufatti, tracce di quello che i deportati artisti producevano all’epoca e che il tempo nonostante la violenza dell’Olocausto non ha mai cancellato. Testimonianze della vita “artistica” del Campo di Terezin, come i quattromila disegni dei bambini, che tra il 1941 e il 1945 hanno vissuto in questo campo di concentramento, disegni scampati alla distruzione grazie alla lungimiranza di FriedlDicker-Brandeis, artista austriaca, che li lasciò in un’aula, nascosti in due valigie, prima di essere deportata: alcuni raffigurano case, prati verdi e farfalle in volo, altri (probabilmente disegnati dai bambini più grandi) mostrano la cruda realtà della prigionia, ma anche il cammino pieno di speranza del ritorno a casa. Ora sono custoditi al museo ebraico di Praga.

I dati crudi del periodo tra il 1941 e il 1944 nel ghetto di Terezin parlano da sé: 144mila imprigionati, 33mila morirono di cause naturale nel ghetto, 88mila vennero deportati nei campi di concentramento di Auschwitz, Bergen Belsen, Treblinka, poco più di 17mila i sopravvissuti.

La zattera della bellezza costituisce l’unica alternativa vera al naufragio[1]. La bellezza, intercettata da tutti i linguaggi espressivi – musica, arte, danza, poesia e tutto l’insieme delle esperienze estetiche -, rende possibile sopportare le ore più terribili della propria esistenza e diventa uno straordinario mezzo di conforto per l’anima, strumento di sopravvivenza anche nei momenti più bui. E’ la chiave d’accesso ad un mondo altro e anche un grande strumento di resistenza, un messaggio e un’azione simbolica potente, come il Dies Irae del Requiem di Verdi – suonato dagli orchestrali del ghetto – che non era l’espressione della rassegnazione di chi piangeva la propria imminente morte, ma la certezza che travolti sarebbero finiti proprio loro, i nazisti. “In nessun modo ci siamo seduti sulle sponde dei fiumi di Babilonia a piangere: il nostro rispetto per l’Arte era commisurato alla voglia di vivere. Ed io sono convinto che tutti coloro, nella vita come nell’arte, che lottano per imporre un ordine al Caos, saranno d’accordo con me”, scrive Victor Ullmann poco prima della deportazione.

Le celebrazioni di quest’anno hanno offerto anche un altro film, diverso dai tanti in circolazione sulla Shoah. Studentesse e studenti del corpo di ballo del Liceo coreutico “Tito Livio” di Milano sono stati protagonisti di un originale progetto cinematografico  Edith. Una ballerina all’inferno.  Il film – prodotto dall’Associazione culturale Violet Moon, in partnership con la Fondazione Binario 21 e l’Ugei (Unione giovani ebrei italiani) – narra attraverso recitazione, musica e danza le vicende drammatiche della sedicenne ballerina ungherese Edith Eger, deportata ad Auschwitz dai nazisti[2]. Ballerine e ballerini avviati al professionismo, coetanei di Edith e animati dalla sua stessa passione, sono diventati così testimoni del fatto che l’arte può essere àncora di salvezza perfino nella barbarie del lager.

Nella sua valigia Edith aveva portato con sé le sue scarpette e, arrivata al campo, fu costretta a danzare sulle note del celebre valzer Sul bel Danubio blu per Joseph Mengele, l’uomo che selezionava i nuovi arrivati e che aveva mandato a morte sua madre: “Balla per me!” – ordinò, ma io rimasi ferma sul freddo pavimento di cemento della baracca, raggelato dalla paura. Fuori l’orchestra del campo iniziò a suonare un valzer. Ricordando le parole di mia madre – “Nessuno potrà portarti via quello che hai messo nella tua mente”- , chiusi gli occhi e mi ritirai in un mondo interiore nella mia mente.  Non ero più prigioniera in un campo di sterminio, infreddolita, affamata e lacerata dalla perdita. Ero sul palcoscenico del Teatro di Budapest e interpretavo il ruolo di Giulietta nel balletto di ?ajkovskij. Da quel rifugio privato imposi alle mie braccia e alle mie gambe di piroettare, raccogliendo le forze per danzare e salvarmi la vita[3].

La prigione è nella tua mente. La chiave nella tua tasca, scrive Edith e Nessuno può derubarci dei nostri sogni…, conclude Franz Peter Kien, poeta ed artista ebreo ceco, rinchiuso a Theresienstadt dal 1941 al 1944, nell’ultimo verso della sua poesia Die Peststadt.

Edith Eva Eger, classe 1927, trasferita a Mauthausen, fu trovata ancora viva sopra un mucchio di cadaveri da un soldato americano. E’, insieme a Liliana Segre, una delle poche testimoni dell’Olocausto tutt’oggi vivente.

[1] M. DALLARI, La zattera della bellezza, Il Margine, 2021

[2] E. E. EGER La scelta di Edith, Corbaccio, 2017. Per organizzare una proiezione del film – prodotto dall’Associazione culturale Violet Moon, in partnership con la Fondazione Binario 21 e l’Ugei) – in una sala della comunità scrivere a: organizzazione@violetmoon.it

[3] E. E. EGER, Il coraggio di rinascere. Lezioni di resilienza, Corbaccio, 2021