Non uno di meno

“Buongiorno preside, posso?” Una esile figura femminile si affaccia sulla soglia dell’ufficio. “Venga, si accomodi”, fa cenno la preside. Claudia è un’assistente sociale di una Comunità per minori. Sa di avere un compito difficile: cercare di trovare una scuola media statale che possa ospitare un ragazzo di 12 anni, Mark, già da tre anni affidato alla comunità.

Mark ha alle spalle una vita difficile. Figlio di una prostituta dell’est morta di aids quando lui aveva 9 anni, del padre nessuna notizia, Mark ha vissuto per nove anni con sua madre. Ha visto i clienti alternarsi in quel fatiscente appartamento di periferia. Quando loro arrivavano lui sapeva di dover uscire; la lampada accesa, vicino alla finestra, gli avrebbe segnalato che era tempo di tornare. Mark aveva visto la madre spegnersi lentamente.

Da allora aveva frequentato comunità e centri di accoglienza. Mesi e anni difficili a contatto con una umanità che lo aveva indurito, Mark era chiuso, ostile ad ogni rapporto, pronto alla rissa e allo scontro, disinteressato ad ogni cosa.

Claudia parla di lui alla preside, già pronta a sentirsi riassumere tutti i problemi del caso: l’anno era già iniziato, le classi formate, i docenti alle prese con tanti problemi, non c’era personale che potesse seguire il ragazzo…

La preside l’aveva ascoltata con attenzione e, a sorpresa, “va bene” dice, “possiamo provare nella prima B ma prima devo parlare con i docenti e poi voglio vedere il ragazzo”.

Il mattino dopo, ecco Mark entrare nell’ufficio della preside. Lei lo guarda negli occhi e con un sorriso “sei proprio bello, questo lo vedo, adesso ho bisogno di sapere che cosa sai fare”.

Dopo pochi giorni, però, Mark inizia a manifestare tutti i suoi problemi: litiga spesso per qualsiasi motivo, pronuncia parolacce irripetibili, è aggressivo con i compagni e i professori.

I genitori della prima B avevano già emesso la loro sentenza: Mark, era lui, lo straniero, il corpo estraneo, il ragazzo terribile che aveva scosso una classe intera. Il rimedio? Cacciarlo al più presto e la normalità sarebbe tornata.

Con il passare degli anni Lucia aveva visto intere generazioni di genitori mutare sotto i suoi occhi; genitori apprensivi, iperprotettivi, incapaci di svolgere un ruolo educativo. Ma, mentre nella scuola si consumava la crisi dei modelli educativi, nessuno osava porre il problema. Meglio e più facile gridare al bullismo, sanzionare, bocciare, espellere.

E il Ministro di turno aveva colto la palla al balzo. Il ritorno del voto in condotta e la previsione del 5 come bocciatura assicurata, sembravano aver conquistato la maggior parte dei genitori e degli stessi docenti.

Lucia sorrideva amaramente ripensando ai tanti casi difficili che aveva dovuto gestire. “Ma come si fa, spiegava ai docenti, a non capire che se un bambino arriva a commettere fatti gravi, il 5 diventa un modo per riconoscerlo come tale, come lui vorrebbe imporsi?” Il bullo cerca la propria affermazione con i suoi comportamenti e, se gli adulti lo etichettano come tale, operano senza volerlo un rinforzo incredibile di quel ruolo che lui si è scelto. Ed invece è proprio quel ruolo che bisogna demolire lavorando sul ragazzo e sul gruppo classe”.

I docenti la ascoltavano: capivano che dietro a quelle parole c’era una sollecitazione pressante a cambiare modo di insegnare; che al centro non dovevano più mettere i programmi, i compiti, le verifiche ma la complessità e la delicatezza di quei bambini tutti così tremendamente diversi. E così tutti si impegnarono per cercare di trovare una soluzione positiva; i docenti presero a scambiarsi informazioni sui comportamenti di Mark e le reazioni della classe; la preside li sentiva frequentemente per verificare ogni passo e Mark sembrò trovare il suo equilibrio. Erano trascorsi tre mesi. Non si erano verificati altri allarmi; i genitori non avevano più mostrato cenni di preoccupazione.

L’anno volgeva al termine. Mark avrebbe completato la scuola media e grazie al progetto che la preside aveva seguito in prima persona, avrebbe frequentato un corso di formazione professionale in grado di avviarlo al mondo del lavoro.

Rifletteva su tutto questo Lucia e pensava quando trent’anni prima scendeva in piazza con migliaia di persone convinta che avrebbe potuto cambiare il mondo. Ora, se al termine dell’anno scolastico poteva dire di avere salvato un bambino, questo le sembrava un risultato straordinario.

“Preside, preside, esclamò d’improvviso una docente trafelata, Mark ha dato un pugno a un compagno!”…

Estratto da un racconto contenuto nel libro “Educo ergo sum”, di Dario Missaglia, 2010, Ediesse.

Dario Missaglia