Il mistero del voto

Le aule ora sono deserte, quasi tristi. I banchi e le sedie tornano oggetti anonimi. Ma nei corridoi iniziano ad affluire i docenti. Ora tocca a loro, inizia lo scrutinio finale. La scuola vive così il suo momento della “giustizia” perché studenti e genitori, a loro volta, valuteranno quei voti e si faranno un’idea di che cosa intende per “giustizia” quella scuola. Ma il Consiglio è un gruppo apparente. Un gruppo composto in primo luogo non da persone ma da “materie” in cui ciascuna rivendica la propria indispensabilità e autarchia.

Poi ci sono due categorie di docenti irriducibili: gli intuitivi e gli oggettivisti. Per i primi la valutazione è un sentimento: loro “percepiscono” che quell’alunno proprio non va; non ce la fa, non ha i requisiti per proseguire. Oppure sono convinti che quell’alunno sia un genio anche se finora inespresso. Gli oggettivisti sono invece convinti che la valutazione deve essere oggettiva: interrogazioni e prove; che c’entra la storia di un adolescente con i suoi problemi, le sue crisi, i suoi alti e bassi, i suoi amori, i suoi entusiasmi?

C’è qualcosa di vero in queste due categorie di persone: la dimensione soggettiva della valutazione che è ineliminabile. Ma non per questo la valutazione è condannata al fallimento. Basterebbe rendersi conto che può esistere la valutazione attendibile.

Troppo difficile? Non credo. Se non ci soccorre, e sarebbe grave, una buona cultura sulla valutazione, basterebbe ricordare sufficientemente la nostra esperienza di studenti, ed è incredibile come in molti docenti tutto ciò sia scomparso, rimosso, lasciando il posto a una ottusa volontà di regolare i conti. Ma con chi?

Se il ritorno al voto decimale ha prodotto una crescita delle bocciature, vuol dire che in questi anni si è radicata una nuova forma di darwinismo brutale, incolto ma potente, che un patrimonio culturale che aveva alimentato gli studi sul ruolo del condizionamento sociale sui processi di apprendimento e di selezione scolastica, è stato eroso. E, in questo deserto, è probabile che una parte degli insegnanti abbia visto nel ritorno al voto decimale una sorta di restituzione, finalmente, del potere dei docenti. Il potere di dare il voto, la sentenza. Qualcuno forse si sentirà più autorevole di ieri.

Nella classe terza dell’istituto professionale per l’industria e l’artigianato, il consiglio è presieduto dalla dirigente scolastica. Il brogliaccio di ingresso è denso di voti bassissimi. Quando la preside avvia i lavori, Monica, professoressa di lettere, annuncia di voler far mettere a verbale una sua dichiarazione: “Dichiaro di non riconoscermi in alcun modo nel quadro generale di valutazione che qui è stato presentato”.

Il professore Pizzetti, di inglese, interviene turbato: “Certo, sono insufficienze gravi, ma questi ragazzi non ne vogliono sapere di studiare, non sanno neppure il verbo essere dopo quattro mesi di scuola”.

“IL verbo essere…” esclama Monica “ma ti rendi conto? Certo che i nostri ragazzi non hanno grandi motivazioni allo studio; forse proprio per questo hanno scelto il professionale. Non hanno voglia di studiare? E che vuol dire? Lei da adolescente aveva voglia di studiare? Io no. Ho avuto la fortuna di un padre colto, appassionato di letture, che mi ha comunicato questa passione che ho poi ritrovato in alcuni professori della mia scuola. Ma allora che cosa rimproveriamo a questi ragazzi: di non aver avuto genitori colti e capaci di appassionarli? Di non aver incontrato maestri e professori in grado di incuriosirli? Queste non sono loro colpe, sono nostre e in questa scuola le avalliamo e le rendiamo quasi naturali, fisiologiche: c’è chi nasce per studiare e chi per lavorare”.

“Proprio così Monica” interrompe il professor Boni, tecnico di laboratorio. “È vero, sono segnati dalla vita che hanno, che ci possiamo fare?”.

“Provare, caro Boni, ci dobbiamo provare, e tu potresti svolgere un ruolo molto importante. Li ho visti i nostri ragazzi in laboratorio. Sembrano altre persone. Sono attenti, seguono le spiegazioni, lavorano al pezzo e leggi la soddisfazione sul loro volto quando il compito è riuscito. Non ci dice niente tutto questo?”.

Gli sguardi degli altri professori rivelano diffidenza e curiosità.

“Tutto ciò ci dice che non c’è un solo modo di imparare; che l’interesse allo studio, quando non è dato dalle esperienze scolastiche precedenti o dalla vita familiare, può nascere attorno a ciò che concretamente stiamo facendo. Ma allora quell’interesse per la macchina, per l’oggetto, perché non diventa la chiave per un percorso di apprendimento dove ci inseriamo la comunicazione, la lettura, l’interpretazione, l’inglese, la storia? Non è difficile. Ad esempio…”.

“Va bene signori, scusate, ma si sono fatte le 20.30 e non si può proseguire. Riceverete l’avviso di nuova convocazione del Consiglio per i prossimi giorni”. Soggiunge la preside nel sollievo generale.

Estratto da un racconto contenuto nel libro “Educo Ergo sum”, di Dario Missaglia, 2010, Ediesse.

Dario Missaglia