Siamo davvero tutti “Charlie” ?

La grande manifestazione di Parigi ha coperto con l’orgoglio lo smarrimento e l’inquietudine stampata sui volti di milioni di persone. Nella patria dell’illuminismo, la strage di giornalisti di una rivista di satira (senza dimenticare le vittime ebree del supermercato) ha suscitato l’immediata difesa di quella libertà di stampa di cui la libertà di satira è figlia. Ed è tale sempre anche quando, come talvolta accade, la satira si fa non solo irriverente e senza tabù ma anche sgradevole, offensiva, respingente. L’argine a questi aspetti non gradevoli della libertà di satira non è la limitazione in qualche modo della libertà di espressione ma più semplicemente il diritto di critica e/o ciò che la legge prescrive come reato (calunnia, offesa, etc).

Non vi è neppure spazio per una “ragionevole” autocensura, ritenuta tale sulla base di una valutazione di contesto. Che lo si voglia o meno, l’autocensura conduce inevitabilmente alla limitazione di fatto della libertà di espressione ed evoca i periodi bui delle “confessioni spontanee” e dei ravvedimenti “improvvisi”. La doppia morale, che in Occidente ha trovato largo consenso, ha già prodotto i suoi frutti avvelenati. Eppure qualche invito in tal senso non si è fatto attendere, a conferma di una situazione del tutto inattesa.

Siamo insomma di fronte a nuove sfide, impreviste e forse imprevedibili. E già questo aspetto scardina tutte le teorie che hanno avuto l’ambizione o la presunzione di voler predire la storia e che hanno fatto parte della nostra crescita personale.

Pensavamo che scienza e tecnologia ci avrebbero consegnato un mondo migliore e prevedibile ed invece ci ritroviamo in un mondo incerto ed insicuro in cui, a una velocità davvero impensabile, la società di mercato (dominata dal denaro elettronico) ha demolito barriere, confini nazionali, i riferimenti di tempo e di luogo. Un processo non solo vorticoso ma anche caotico, non lineare, che in un ventennio ha prodotto inedite diseguaglianze, nuove forme di sfruttamento e di concentrazione delle ricchezze. Il mutamento è stato talmente rapido e profondo da determinare una sindrome da “vertigine”. Quando l’orizzonte di riferimento si fa troppo ampio e sconosciuto, ci si appiglia a ciò che abbiamo più vicino e che percepiamo come più sicuro: dentro il processo di globalizzazione, hanno così ripreso vita antiche identità locali (il culto della nazione, del proprio territorio di appartenenza, identità etniche, religiose, tribali); individualismo e conformismo hanno modellato il volto della scena sociale; le istituzioni sovranazionali, alle quali avevamo guardato con fiducia per la soluzione dei processi globali, sono entrate in crisi proprio nel pieno del processo di globalizzazione.

Non c’è persona che non sia stata coinvolta in questi processi e non si sia ritrovata a convivere con una profonda sensazione di incertezza. Incertezza è il contrario di “assicurazione”, ovvero della più grande conquista del modello sociale europeo, da cui ha preso ispirazione la realizzazione dei grandi servizi pubblici della scuola, sanità e previdenza. L’incertezza, alimentata e sostanziata dalla precarizzazione delle forme di lavoro, è diventata una sorta di condizione esistenziale, con il suo carico di angoscia, rabbia, smarrimento. Sono processi sociali che attraverso i giovani e le loro famiglie incrociano la scuola e la espongono a dinamiche del tutto nuove. Non è facile insegnare nella società dell’incertezza. La tendenza, certamente spontanea, a fornire risposte certe spinge a cercare in direzione delle tradizioni, proprio mentre la velocità dei mutamenti mette in crisi le culture tradizionali. La crisi dei modelli educativi si presenta così in tutta la sua vastità e complessità. Ed è una crisi senza via di uscita se a fronte di questi mutamenti non riparte il bisogno di capire, di confrontarsi, di far crescere il pensiero critico; se, in sostanza, anche nei processi sociali la persona non ritrova una sua centralità laica, di autonomia e libertà. Ma l’identità della persona non è data; il concetto di identità, così spesso agitato maldestramente da chi vorrebbe utilizzare l’identità come scudo di fronte al cambiamento,non è un concetto statico. L’identità, di una persona come di un territorio, va costruita attivamente con culture forti di valori e idealità, in grado di emanciparci dalla tradizione, dalle chiusure, da ogni forma di fondamentalismo. Il cuore forte della laicità sta in questa sua capacità generativa che ci libera dagli incubi tristi e rassegnati di questo tempo.

Il fondamentalismo, di ogni tipo, dilaga quando questa spinta alla crescita della propria autonomia si indebolisce. Per queste ragioni la laicità non è “pensiero-contro” ma “pensiero-per”, carico di ethos, di passioni, di ricerca della conoscenza, di valori universali. Non è un caso che in questi giorni, in Francia, dopo le manifestazioni e l’orgogliosa rivendicazione della libertà di stampa, il governo stia pensando a una giornata annuale della laicità, come evento simbolico, e soprattutto a una massiccia campagna educativa nelle scuole per misurarsi con una complessità, sociale ed educativa, che forse è stata sottovalutata ed è ancora tutta da interpretare.

L’arena infatti dove si gioca la battaglia per la laicità è la società civile: la scuola, i gruppi sociali, le famiglie, le associazioni sul territorio. Non esiste solo lo Stato e il mercato; esiste anche il capitale sociale e le scuole, in tutte le sue ramificazioni, ne sono il centro. Che lo si voglia o meno, la scuola o produce valori o disvalori. Non esiste neutralità nei comportamenti umani. E le riforme, lungi dall’essere solo leggi di spesa e di investimento, dovrebbero avere chiaro il segno culturale del progetto che affidano a docenti e studenti: far crescere istruzione e formazione non solo per stimolare crescita economica e produzione di lavoro ma anche per cambiare la vita delle persone, ricostruire nuovi legami sociali.

La battaglia contro ogni forma di esclusione, di selezione, di discriminazione, è il migliore antidoto verso le derive fondamentaliste che cercano di utilizzare le contraddizioni sociali irrisolte là dove il deserto culturale ha aperto spazi enormi al buio del fondamentalismo. E invece le contraddizioni sociali irrisolte vanno affrontate. È ad esempio del tutto evidente che le politiche sull’immigrazione fin qui perseguite hanno mostrato tutti i loro limiti. Le politiche ispirate al multiculturalismo hanno favorito la diffusione di comunità omogenee e chiuse, incapaci di comunicare tra loro e pertanto aperte al rischio del conflitto; quelle ispirate all’idea dell’assimilazione, come in Francia, dove l’identità individuale è ricostruita nell’acquisizione giuridica della cittadinanza e della lingua, hanno lasciato un vuoto in cui il fondamentalismo islamico assicura un processo di identità collettiva che evidentemente non trova risposta sufficiente nel legalitarismo repubblicano. Nel nostro Paese, la compresenza di molte diverse etnie (in prevalenza solo di passaggio nel nostro territorio) ha consentito per ora di praticare una politica di accoglienza senza troppi traumi ma certo non in grado di offrire una prospettiva a un fenomeno destinato a non recedere. È da osservare peraltro che le contraddizioni più laceranti sono esplose nelle seconde generazioni di immigrati; quelle cioè che non hanno vissuto in prima persona l’esodo dalla terra di origine e il carico di drammatica condizione umana vissuta. Sono giovani che hanno studiato e lavorano nei Paesi di cui sono diventati cittadini. E allora bisogna domandarsi: che cosa si è rotto nelle loro esperienze di vita? Che cosa ha favorito la diffusione del consenso a un’ideologia violenta? Quale drammatica povertà – non solo e non tanto economica – ha favorito il fascino delle derive violente?

La corsa a una nuova politica della sicurezza è una reazione comprensibile, necessaria ma non sufficiente. Il disegno del fondamentalismo islamico di cancellare l’Occidente infedele si batte certo anche con l’uso della forza, ogni qualvolta sia necessario, ma va contrastato duramente anche sul piano culturale e simbolico. Per decenni l’Occidente ha fatto affidamento sul “socialismo nazionalista e militarista” arabo per tenere sotto controllo le spinte integraliste. Quei governi, autarchici e corrotti sono caduti sotto il peso delle loro nefandezze più che per la forza reale di quella primavera araba forse già sfiorita. La ricerca di nuove alleanze con quella parte significativa del mondo islamico che rifiuta violenza e uso della religione a scopo politico è tutta aperta e va percorsa con coraggio. Questa sponda culturale è importante non solo per affrontare il problema fuori dai confini della comunità europea ma anche per saper parlare a quella parte del mondo islamico che ha scelto l’Europa ed oggi concorre, lo si voglia o meno, a scriverne futuro.

Insomma i fatti di Parigi ci interrogano sul nostro futuro e richiedono anche una mobilitazione culturale nuova: democrazia partecipativa e laicità come ricerca della conoscenza e desiderio generoso di un mondo nuovo sono le due risorse fondamentali che abbiamo a disposizione. Sta solo alla nostra responsabilità non farle soffocare dalle spinte neonazionaliste, razziste e culturalmente retrive e provinciali che hanno ripreso vigore.

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Immagine in testata di Openclassrooms

Dario Missaglia